Secondo capitolo della trilogia con il commissario Yeruldegger nel grandioso paesaggio della Mongolia.
È il terzo inverno in cui la “sciagura bianca” avvolge la steppa lasciando dietro di sé una scia di cadaveri di uomini e animali. Troviamo l’ispettrice Oyun accoccolata nella neve per controllare un “monticello di cadaveri” che si staglia come unica protuberanza per chilometri nella steppa; la gamba di un uomo spunta dal un cumolo di carcasse congelate tra un cavallo, su cui probabilmente stava viaggiando, e un dzo che, non si capisce come, sembra le sia letteralmente caduto sulla testa.
Così inizia il nostro nuovo viaggio in compagnia di Ian Mannok che, seguendo le indagini dell’ineffabile Yeruldelgger e della sua squadra, ci porta ancora una volta alla scoperta della spettacolare Mongolia.
Lasciamo l’ispettrice Oyun nella steppa vetrificata dal gelo dello dzüüd e torniamo nella capitale dove viene rinvenuto il cadavere di Colette, la prostituta che nel precedente libro aveva aiutato il commissario Yeruldegger a fare pulizia tra le fila della polizia corrotta di Ulan Bator, ed è proprio lui a essere accusato della sua morte.
Non sarebbe il personaggio forte che abbiamo imparato a conoscere se rimanesse inerme in attesa di giudizio: Yeruldegger si lancia sulle tracce di Ganshü, il figlio scomparso di Colette, e arriva fino in Normandia dove scoprirà un fitto intrigo che coinvolge servizi segreti, militari e la parte corrotta della politica mongola e che lo obbligheranno a prendere in mano le armi e a mostrarci un volto crudele che il Settimo Monastero Shaoilin non è riuscito a mitigare.
Purtroppo anche questa volta, come per la precedente recensione di Morte nella steppa, non posso non criticare l’intreccio narrativo che ci presenta Manook. Gli accadimenti che si concatenano nelle quasi 500 pagine sono assolutamente inverosimili, l’indagine è contorta, ingarbugliata e assurda. Ma, come per il primo romanzo, la maestria con cui descrive la Mongolia è assolutamente perfetta: le pietanze, i paesaggi sterminati, le tradizioni millenarie, Mannok riesce a rendere incantevole persino il terribile dzüüd che si abbatte sulla steppa sconfinata.
Il desiderio di proseguire la lettura per farsi avviluppare dalle descrizioni di questo mondo affascinante è tale che, anche questa volta, sono passata sopra alla trama “zoppicante”, Mannok scrive e ti avvolge, come se tu fossi lì, come se i trenta gradi sotto zero della sciagura bianca bruciassero la tua pelle, come se il calore del Gurgur, tè con il burro salato di yak, si spandesse tra le tue membra intorpidite. Leggere questi romanzi di Manook è stato per me come viaggiare per paesaggi che, temo, non potrò conoscere se non tramite le sue descrizioni, paesaggi che mi hanno totalmente stregata e di cui, tutte le volte che leggo l’ultima pagina sento, forte, la nostalgia.
Questo è il motivo per cui sicuramente leggerò La morte nomade, ultimo capitolo della saga di Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen, libro già pubblicato in Francia che, spero presto, Fazi pubblicherà anche in Italia.
data di pubblicazione:12/07/2017
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