(Teatro Vascello – Roma, 29 marzo/3 aprile 2016)
Stabat mater dolorosa…, con questo lamento liturgico inizia Yerma, uno dei tre drammi che costituiscono la trilogia lorchiana insieme a La Casa di Bernarda Alba e Bodas de Sangre, tutti incentrati sui temi oscuri della passione e della morte.
Per comprendere meglio lo spirito di questa tragedia che Federico Garcìa Lorca scrisse nel 1934 bisogna entrare, lavorando di immaginazione, in ciò che poteva meglio rappresentare la Spagna in quel periodo cupo immediatamente antecedente alla guerra civile ed alla definitiva affermazione della dittatura franchista. Gli ideali nazionalistici si fondavano essenzialmente sui valori della famiglia e sulla posizione della donna la cui missione primaria era quella di procreare un numero indeterminato di figli e di rimanere fedele al marito fino alla morte. Yerma è una eccezione: il suo nome significa terra arida, qualcosa di sterile che non produce, che è incapace di generare un figlio, una donna che non potrà mai essere una vera donna, completa come le altre, un essere carico di passione non ricambiata, una ossessione non sedata da alcun momento di vera consolazione, un fuoco che non arde, un’acqua che non disseta, una terra che non dà frutti, un’aria che non crea vita.
Accanto a Yerma troviamo Juan, marito impostole dalla famiglia e che lei non ama pur rimanendole devota, un uomo che le nega la gioia di un figlio, distratto dal suo lavoro nei campi e che presumibilmente sterile fa ricadere sulla moglie la colpa di non potere o sapere generare. Il secondo protagonista maschile è Victor, vecchio amico pieno di desiderio e sensualità la cui presenza accende subito le pulsioni assopite della donna, i suoi istinti sessuali che però dovranno essere repressi per non infrangere gli obblighi di fedeltà coniugale. Invano la donna cercherà con ogni mezzo di rimanere incinta, ricorrendo pure a sortilegi e riti magici, ed alla fine non le rimarrà altro che uccidere il marito autoaccusandosi nelle ultime battute: Non avvicinatevi, perché ho ucciso mio figlio. Io… l’ho ucciso io! In effetti con la morte del marito lei per sempre si negherà la gioia della maternità, perché lei non si concederà ad altri uomini, rimanendo salda sui suoi ideali di donna sottomessa ed ubbidiente.
L’ambientazione scenica di Alessandro Di Cola ci immerge in una atmosfera sospesa, quasi metafisica in cui i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco si fondono in una massa amniotica rarefatta e dove la sabbia cade dal cielo senza soluzione di continuità, come dentro una eterna clessidra, un ammonimento del tempo che scorre inesorabile per coprire tutto, uomini e cose.
Il regista Gianluca Merolli ha voluto in maniera esplicita, quasi forzata, attualizzare e contestualizzare il dramma di Yerma con le attuali turbolenze legislative italiane in materia di procreazione assistita, ma forse il suo intervento potrebbe risultare troppo ovvio e quasi inopportuno.
Bravi gli attori in scena: Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Fabrizio Ferracane, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa, quest’ultimo con funzione di basso continuo nell’introduzione lamentosa, come di un coro ad una voce.
Anche se Yerma, che nasce dalla sabbia e prende una forma giunonica in Elena Arvigo, ha un timbro espressivo uniforme e ripetitivo, tuttavia il lavoro risulta nel suo insieme ben strutturato. Buone le luci di Pietro Sperduti e ben curata la musica da Luca Longobardi.
data di pubblicazione:31/03/2016
Il nostro voto:
Ottimo articolo!
Buongiorno
Un piacere leggere le sue recensioni: scorrevoli come l’acqua sul letto del fiume.