(Teatro Argentina – Roma, 17/25 ottobre 2020)
Scrittura norvegese fedelmente riportata su un palcoscenico italiano. Sentore di Ibsen in dialoghi sempre spezzati, allusivi e metaforici. Largo uso degli spazi e degli oggetti. Un esperimento che attizza la curiosità anche se non centra un risultato pieno e indiscutibile.
Nella strana stagione dei teatri quello di Roma si cimenta con un assemblaggio che potremo definire sperimentale. Forse in altri tempi, di maggiori certezze, una proposta come quella di Lygre, mediata da Bisordi, non sarebbe arrivata in cartellone. Novanta minuti per un tentativo tutt’altro che facile e di difficile metabolizzazione. La roba, i soldi, la materialità sembrano circoscrivere un mondo abbandonato dal protagonista che ha varato una città modello e dopo trent’anni di creazione e gestione, muore lasciando conflitti insanabili tra il fratello. La misteriosa sorella (solo di lui), l’ex moglie e una figlia venuta dal nulla. I personaggi si agitano, si spogliano e si rivestono e sono disposti a qualunque compromesso pur di non rinnegarsi. Non a caso l’ex consorte è disponibile a una allusiva fellatio finale pur di conquistare buste di denaro. C’è un gioco di inscatolamento del teatro dentro il teatro. Perché tutti potrebbero essere delle figurine messe in mostra dall’architetto solo apparentemente deceduto. Non a caso la battuta che ricorre più frequentemente in scena e: “Non sto recitando!”. Come si intuisce non è facile la metabolizzazione di una possibile storia lineare perché qui domina l’ambiguità e la ferinità dei comportamenti. Il pubblico, tutt’altro che numeroso, sembra sommamente gradire. C’è il disegno dell’’utopia e c’è anche il misterioso destino di esseri umani che sembrano aver delegato il proprio senso nel mondo a qualche altro. Lygre fa uso di una scrittura minimalista e graffiante. Un’occasione per scoprire al suo meglio un autore molto rappresentato nei teatri europei.
data di pubblicazione:21/10/2020
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