Una giovane donna, di ritorno da un breve viaggio nell’Oklahoma delle proprie origini, sbarca all’aeroporto JFK di New York. Il tragitto in taxi, più lungo del previsto, sarà l’occasione per intraprendere una conversazione illuminante con Clark il tassista. Quasi un gioco della verità, favorito dall’iniziale anonimato e dalle ombre della notte, in quella che è annunciata da lui come la sua “ultima corsa”.
Immaginate, una notte qualunque, di scivolare dentro un taxi, convinti che questo vi riporterà a casa nel breve spazio di qualche chilometro. E di ritrovarvi, invece, a bordo di una sorta di macchina del tempo. Dove l’ora che vedrete scattare sul tassametro, al vostro ingresso, non è altro che l’inizio di un conto alla rovescia, verso un passato che riemerge per lasciarsi vivere ancora. Immaginate, alla guida, uno sconosciuto. Uno “del mestiere”. Di cui dovrete fidarvi, comunque. Al quale consegnerete alcune delle “cifre” della vostra vita, a cominciare dal numero della via dove abitate (tra la quarantaquattresima e la nona – dirà la ragazza; un incrocio che sembra quasi il convergere di due sinfonie). E poi, lungo tutto il percorso, un unico paesaggio: gli occhi, lo sguardo di lui, quasi sempre attraverso lo specchio retrovisore. Beffardo, ironico e provocatorio. Ma anche intenerito, addolorato, commosso.
Primissimi piani dell’uno e dell’altra protagonista – Sean Penn e Dakota Johnson, ispirati nelle loro rispettive parti – con inquadrature spesso al limite dell’invadenza, lasciano trasparire stati d’animo fugaci e svelti come le ruote sull’asfalto. I pensieri fluiscono, lungo tutto il film, inseguiti dalle parole, dalle tante domande. E l’abitacolo dell’auto diventa alcova di paure e desideri.
Quanto è difficile svelarsi ad uno sconosciuto? Quanto sospetto, quanta diffidenza o indifferenza fanno il paio con quel gesto ormai troppo consueto di pagare con la carta, o digitando codici “senza mai aprire la borsa”?
Eppure è proprio l’incontro fortuito di due solitudini nella notte – uomo e donna, tassista e passeggera – a dare la misura di quella che è la dimensione umana. Guardarsi, chiamarsi per nome, raccontarsi, provare compassione. Senza vergogna né imbarazzo. Come in un gioco, si vince o si perde (da due a zero a due pari e poi oltre…), ma essendo comunque esentati dal giudizio.
E mentre i messaggi dell’anonimo (o innominato) “uomo sposato”, sul telefono di lei, incalzano con la loro ortografia difettosa, rivelatrice di ben più gravi “errori” (Your’re skin * your), le mani del tassista battono il tempo sul volante. Un tam tam quasi tribale, autentico, scandisce un qui ed ora che non ha alcunché di finto, né di virtuale. Sebbene spesso si richiami ad una surrealtà più prossima al sogno, o alla memoria – forse distorta – di quel passato lontano. Hai mai danzato per tuo padre? – chiederà lui, rabdomante metropolitano, quasi evocando quella “danza della pioggia” che ha del primitivo e del prodigioso insieme. Lui, disilluso dalla vita eppure ancora pieno di tenero vigore, verso se stesso e verso ogni sconosciuto compagno di viaggio, con una storia da raccontare.
E così scorre e si snoda tutto il film, in un percorso che quasi vorremmo non finisse più, che non giungesse mai a destinazione. Per non separarci da loro, il tassista e la ragazza. Che sentiamo vicini, tra di loro e a noi stessi. Per ragioni diverse, simili a noi. Come fratelli che non sapevamo di avere.
data di pubblicazione:22/12/2024
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Interessante . Grazie Daniela