(Teatro Quirino – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Atteso recupero di stagione per il capolavoro del drammaturgo americano Tennesse Williams. Un tram che si chiama desiderio racconta il lento tramonto a cui si avvicina Blanche, erede di una ricca proprietà ormai andata perduta. Un giorno bussa alla porta della sorella Stella, che nel frattempo si è fatta una vita sposando Stanley, un americano di origini polacche.
I toni grigi e la rigida geometria della scena mettono tutti d’accordo. Il grigio è il colore del cattivo umore, delle giornate tristi e delle ombre che per metafora cadono sul fallimento di un sogno. Grigia è l’esistenza che Stella ha scelto di vivere al fianco di Stanley Kowalski, un semplice operaio dal fisico robusto ma sessualmente attraente, dai modi bruti e prepotenti. Per estensione anche gli amici della coppia, Eunice e Steve, che abitano al piano di sopra del modesto appartamento di due camere, somigliano a loro, segnale di una realtà sociale condivisa e lontana dall’ideale perso che ancora affascina Blanche. L’esistenza di quest’ultima invece si può a buon diritto definire ingrigita. Da una parte è costantemente nostalgica, nei modi e nei ricordi fino al suo modo di parlare, della bellezza di un passato – vissuto nella tenuta di Belle Reve – che ormai non esiste più; dall’altra è ormai avanti con l’età, invecchiata negli sbagli e divorata dai sensi di colpa. Sua è infatti la responsabilità della morte del marito, suicidatosi dopo il rifiuto della moglie che aveva appena saputo della sua omosessualità; sua la colpa di essersi fatta cacciare dalla scuola dove insegnava per aver avuto relazioni illecite con i suoi studenti. Per questo motivo arriva a casa della sorella per chiedere ospitalità. È qui che si scontra con la durezza e il machismo di un cognato, cresciuto con altre regole. Dopotutto l’ambientazione del racconto si svolge in un paese appena uscito dall’ultimo grande conflitto mondiale. Stan è infatti un reduce della guerra, indossa ancora la piastrina metallica al collo e gli scarponi militari, che non manca di appoggiare sul letto apprestato per la povera Blanche. Daniele Pecci (Stan), petto in fuori e testa china in avanti come per ruggire e a dire chi è che comanda, conferisce al personaggio proprio quella brutale animalità che lo porterà a vincere su Blanche. L’unica che può tenergli testa – almeno in questa versione – è la moglie. Lungi dall’essere remissiva, la Stella di Giorgia Salari combatte e affronta il marito con grinta e rabbia. Non è affatto una donna sottomessa, come ci aspettavamo che fosse, e non perdona al marito la sua crudeltà. La Blanche di Mariangela D’Abbraccio si distingue in tutto da questa nuova società nella quale, nolente, si imbatte. Il suo è un modo di parlare – e di recitare – che ha un sapore antico. A lei non piace questa realtà, lo dice, e allora non le rimane che fare la parte della donna che nonostante tutto si sforza di accettare il cambiamento. Sembra innaturale il suo modo di parlare, che marca con forza le sillabe accentate delle parole, ma è in qualche modo conforme al suo personaggio in bilico tra l’isterismo e la disperazione. Cadrà vittima di sé stessa e della sua fragilità. Il merito della regia di Pier Luigi Pizzi è quello di aver reso con fedeltà un classico intramontabile come questo, pur offrendone una visione originale e contemporanea. L’idea di tagliare dal testo ogni riferimento diretto alla geografia del posto dove si svolgono i fatti – Stan dirà appunto che un “cittadino di questo paese” e non “un americano al cento per cento” – conferisce al dramma un respiro globale e condivisibile.
data di pubblicazione:02/02/2022
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