Le scaturigini dell’imprevedibile candidato alla Casa Bianca. Così fedele da apparire quasi un docufilm. La contropartita è la mancanza di profondità estetica del regista iraniano convertito a un prodotto di largo consumo e di probabile successo. Girato con ritmo adrenalinico di stampo americano. All’inizio della parabola Trump è una via di mezzo tra Robert Redford e Van Morrison. Molti trapianti fa.
Il film punta sul rapporto funzionale e ambiguo tra il tycoon e l’avvocato Roy Marcus Kohn, artefice delle più spregiudicate e borderline operazioni di accreditamento del magnate nella high society americana. L’ingenuo imprenditore si fa progressivamente più furbo e, sulla base dell’enorme impero del padre, comincia a costruire tasselli dell’impero attuale. Il maxi-albergo restaurato da 1.600 camere e poi la diversione sull’industria del gioco ad Atlantic City. Il legame con Ivana-Ivanka che progressivamente diventa solo un viso e un corpo da esibire nelle grandi occasioni. Delle successive e numerosi mogli non si parla. Ma il focus sta nel tattico e strategico distacco da Kohn, l’uomo che fece condannare i Rosenberg alla sedia elettrica e che prestò il fianco in tribunale alla crociata anticomunista del senatore McCarthy. Trump fa i conti con i debiti, evita come la peste le tasse. Impone quella che definisce la legge del killer (mors tua vita mea), fa della bugia la cifra dialettica della propria esistenza e non ammette mai la sconfitta anche quando questa si presenta clamorosa nella propria evidenza. E mette all’angolo Kohn quando questi non gli servirà più. Perché Kohn è radiato dall’albo degli avvocati, è omosessuale e morirà di Aids che in quegli anni falcidia una generazione senza protezione. L’opera è uno specchio sull’America e sulle sue contraddizioni e degenerazioni. Senza moralismi e puerili giustificazioni.
data di pubblicazione:16/10/2024
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