TERRA MATTA regia di Vincenzo Pirrotta

(Foto privata della locandina)

con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e i musicisti Luca Mauceri, Mario Spolidoro, Osvaldo Costabile

(Teatro Biondo – Palermo, 28 marzo/6 aprile 2025)

Tratta dall’omonimo libro, autobiografia di Vincenzo Rabito, questa trasposizione teatrale mette in scena il racconto di un contadino analfabeta di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che ripercorrendo le tappe della sua “molto desprezzata e maletrattata vita” attraversa tutto il Novecento.

La storia è quella di Vincenzo Rabito, figlio di un Salvatore che fu e di una Salvatrice, madre tanto amata, rimasta vedova con sette creature da sfamare.

È un diseredato, lui. “Rapito” fin dalla tenera età dalla sorte, e costantemente in fuga. Sempre in cerca di salvezza e di affrancamento per sé e per i suoi familiari. Sopravvive, malgrado il destino avverso. Al lavoro “sotto padrone”, alle timpulate delle femmine nei casini, alla lingua della suocera maldicente, ai commendatori e ai ruffiani. Sopravvive alle guerre, soprattutto. Tutte e due le guerre. E ogni volta, “si salva”.

La scena è spoglia, quasi desolata, come l’esistenza. Solo una sedia, quasi sempre al centro del palco. Un caposaldo su cui “stare”, seduto oppure in piedi. Altre volte simile a un bastone, o a una stampella, da tenere sottobraccio come una baionetta. Sullo sfondo, un trio di musicanti. E di tanto in tanto qualche breve comparsa. Sono apparizioni per lo più grottesche, dal carabiniere con tanto di pennacchio al brioso barbiere dotato di mantellina svolazzante.

In primo piano, sotto le luci della ribalta, la figura di lui, lo straordinario mattatore Pirrotta, che è anche regista e ideatore della pièce. Cantastorie infaticabile, capace di recitare a perdifiato per oltre un’ora e mezza alternando toni diversi (il lirico, il comico, il drammatico), Vincenzo attore/autore esprime al meglio uno dei motivi essenziali: la capacità di adattamento. Come insegna la fame, o la necessità di mettersi addosso qualcosa, qualsiasi cosa (emblematico ed esilarante l’aneddoto delle divise distribuite ai soldati, tutte uguali e della medesima taglia: “pantaloni per uno di un metro e novanta a me che ero un metro e cinquanta… e dei quaranta centimetri in più, che me ne facevo?!”).

Un fiume di parole, dunque. Inarrestabile come l’epopea di questo contadino, soldato zappatore e carbonaio all’occorrenza. E le parole, proprio quelle, sono protagoniste assolute, padrone indiscusse della scena. Brulle come i terreni incolti, ferite e storpie come i mutilati nelle trincee. Approssimative, come il succedersi degli eventi. Imprevedibili. Eppure pregne di verità, autentiche. Vengono alla luce una dopo l’altra, così, come i figli. Turiddu e poi Tanuzzo e poi ancora Giovanni. Figli cercati, voluti, e insieme “calati dal cielo” (lanciati e presi al volo) come se nulla fosse. E riscattati, alla fine, da quella miseria vissuta realmente e realmente patita. Perché quello che “ci cunta” Vincenzo Rabito, classe 1899, forse non è tanto comprensibile, e non è detto “come si deve”. Però senz’altro, e senza dubbio alcuno, “è successo davvero”. E lascia il segno, o il solco, su questa terra matta dove trascorre la vita.

data di pubblicazione:03/04/2025


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