Il pluripremiato regista iraniano Jafar Panahi non ama confezionare film “distribuibili”, rispettosi degli omologanti dettami imposti dal regime islamico. Jafar Panahi è un estimatore di quello che il potere politico definisce “sordido realismo”: una fotografia senza filtri della società in cui la macchina da presa è chiamata a immergersi, anche quando la messa a fuoco riveli impietosamente dettagli che la logica della propaganda e del consenso preferirebbe mantenere celati.
Contro la censura e il divieto di espatrio non resta quindi che un solo rimedio: mettersi alla guida di un taxi attraverso le strade di Teheran, senza itinerari prestabiliti e con una telecamera pronta a documentare il più “sordido” dei realismi.
Si parla di tutto nel taxi di Panahi. Si discute della funzione di prevenzione generale di una pena di morte che condanna all’impiccagione due scippatori; ci si chiede che faccia abbia un ladro, per arrivare a scoprire che ha una faccia “normale”, come quella di tutti gli altri; si ipotizza una missione culturale di chi vende DVD pirata garantendo in Iran la visione di film altrimenti vietati; ci si interroga sul senso della professione di avvocato, svolta da una donna che regala rose rosse e non smette di credere nella necessaria tutela dei diritti umani. E soprattutto, attraverso la strepitosa nipotina di Panahi, si riflette sul cinema e sulla censura, sull’arte e sulla libertà di manifestazione del pensiero.
Il risultato è quella che il regista Darren Aronofsky, Presidente di Giuria del 65˄ Festival di Berlino, ha definito “una lettera d’amore al cinema”, consegnando nelle mani virtuali del regista assente il prezioso vello dell’Orso d’oro.
Taxi Teheran coinvolge, stupisce e commuove, lasciando intatta la speranza che il cinema possa ancora funzionare da potente strumento di denuncia e di libertà/liberazione.
data di pubblicazione 14/09/2015
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