Chapeau a Manzini che, dopo il meritatissimo successo del vicequestore Rocco Schiavone, invece di cavalcare l’onda e continuare a sfornare casi e casi che poi possano essere trasposti sugli schermi se ne allontana e affronta un tema molto particolare e molto triste.
Orfani bianchi narra la storia di Mirta, ragazza madre moldava emigrata a Roma per poter mantenere l’anziana madre e Ilie, il figlio non ancora adolescente, rimasti nel loro paese natio; un paese che non è in grado di sostentare i suoi cittadini, e il cui unico mezzo per sopravvivere è affidarsi al coraggio di molte donne che vanno in un paese straniero a badare ai genitori, nonni, figli di altre persone e lasciano i propri affetti a migliaia di chilometri di distanza.
Ilie è un orfano bianco, uno dei tanti bambini che crescono senza i propri genitori, lasciato ai nonni o peggio in qualche istituto, in modo che i loro cari che sono emigrati possano dare loro perlomeno la possibilità di crescere e non morire di fame: la speranza per tutti è quella di mettere da parte soldi sufficienti che gli permettano di tornare al proprio paese e poter costruire lì qualche cosa per la propria vecchiaia e per il futuro dei loro figli.
Quello di Mirta e Ilie è un rapporto difficile da tenere vivo, a tanti chilometri di distanza, vivono due realtà troppo diverse e l’unica punto di unione sono i resoconti delle sue giornate che la madre manda al figlio via mail.
L’esistenza di Mirta descrittaci da Manzini è innegabilmente dura, costretta a cambiare spesso lavoro, a dividere il letto con un’altra migrante, a essere trattata come una serva per lavori logoranti e sottopagati. La situazione peggiora quando l’anziana madre muore e Mirta è costretta a lasciare Ilie in un Internat, un istituto per orfani veri e bambini come il suo, un luogo umido, freddo, un casermone più simile a una prigione che a un luogo adatto per crescere dei bambini rimasti soli.
La sofferenza di Mirta arriva al parossismo, consapevolezza che non sta crescendo il proprio figlio perché si trova a migliaia di chilometri ad accudire la famiglia di altri…“Quanto costa questo lavoro, Nina? Il prezzo qual è? E’ alto, te lo dico io. Quello che lasciamo pesa cento volte di più di quello che otteniamo.”
Quando sembra aprirsi uno spiraglio nella sua vita, quando Mirta incontra un uomo che la vuole sposare per iniziare una vita insieme a lei e al suo bambino, quando sembra aver finalmente trovato uno spiraglio in cui intravedere la felicità tutto precipita…
Mi è piaciuta molto la descrizione di questa figura di madre, le sue ingenuità, i suoi dubbi, la sofferenza per la sua situazione e anche la scaltrezza che necessariamente deve tirare fuori da se stessa; di contro la descrizione degli italiani che incontra mi è sembrata troppo qualunquista, come è giusto che Mirta si indigni per essere ingiustamente accomunata ai connazionali che delinquono: “Come si fa a sopportare di essere colpevole di cose che non hai mai pensato? Solo perché altri quelle cose le fanno. Tutti i giorni. E quindi per riflesso le fai anche tu? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe stata considerata né più né meno che una donna e giudicata per le sue azioni?” dal racconto sembra che tutti gli italiani siano razzisti, cinici e incivili…
Sicuramente un libro da leggere, con argomenti che fanno riflettere assai.
data di pubblicazione:29/01/2017
0 commenti