L’UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski, 2019

L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.

 

Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.

L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.

Il legal thriller di Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.

Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse (titolo originale del film) nella selezione ufficiale di una Mostra cinematografica come quella di Venezia che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.

data di pubblicazione:21/11/2019


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2 Commenti

  1. Per tutti non tutte le ciambelle riescono con il buco, per Roman Polanski sembra proprio di sì. Non sbaglia un colpo… e si conferma con questo film un grande regista. Veramente una regia perfetta per un film perfetto nei minimi dettagli. Più che meritato il premio ottenuto a Venezia…

  2. Al di là delle letture riduttive di chi ha voluto costruire paralleli fra le vicende giudiziarie del regista e quelle di Dreyfus, il film è, in realtà, come ha ben sottolineato Accreditati, un gran bel thriller storico letto in chiave moderna.
    Una denuncia delle ipocrisie morali e politiche filmato e diretto con maestria impeccabile, con ritmo, con eleganza e con originalità da un giovane cineasta … di soli 86 anni!
    Ottimo cinema!

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