(Teatro Argot – Roma, 31 Gennaio/19 Febbraio 2017)
“Una lettera dal passato per un incontro presente. L’attesa fremente di quattro figli per un inaspettato arrivo imminente.”
È sabato santo. Il giorno dell’attesa per antonomasia, in cui si aspetta la resurrezione di Gesù.
Anche Luca, Caterina, Isabella e Martina aspettano un evento straordinario, che permetta loro di risorgere, di ricucire quella ferita aperta dalla madre vent’anni prima, dopo il suo tragico abbandono.
Da quel giorno Luca non smette di indossare i vestiti materni: unico resto di una madre scomparsa; ultimo legame con la donna che l’ha creato e che di sé non ha lasciato tracce, diventando impalpabile come un fantasma. Da anni non si occupa d’altro che del suo romanzo, di cui non è stata letta ancora una pagina: per questo è costantemente foraggiato da Caterina, la maggiore dei quattro figli.
Alacre insegnante, Caterina è insoddisfatta dalla sua vita perché non riesce ad avere un figlio. Un dolore profondo e continuo, che riesce a lenire soltanto allevando la dolce Isabella, la minore delle sorelle, sostituendosi così alla madre e coronando quel suo sogno impossibile.
Sotto la costante protezione di Caterina, Isabella è cresciuta lentamente, tant’è che non dimostra la sua età. Sembra avere un problema di apprendimento, di cogliere il senso delle nuove parole che le vengono dette (che prontamente annota sul suo taccuino). Non solo ha difficoltà ad afferrare i nuovi vocaboli, anche la realtà che la circonda sembra sfuggirle; come la verità sulla scomparsa della madre: creduta da lei morta invece che scappata, secondo quanto le avevano detto le sorelle.
Nonostante la sua sbadataggine, Isabella ha in serbo uno scherzo arguto per la sorella Martina, che oramai vive da anni in America. Donna inossidabile e fieramente omosessuale, la sua tempra d’acciaio l’ha condotta a intraprendere la carriera militare; ma dietro la sua armatura, si nasconde un animo fragile. È tornata in paese per i funerali di Luca – almeno questo è quanto le è stato fatto credere da Isabella.
Ma in realtà Isabella ha un piano più arguto di quanto ci si possa aspettare; e non esiterà a rivelarlo. Ha riunito tutte le sorelle e il fratello perché ha saputo la verità sulla madre, dal momento che ha ricevuto una sua lettera con cui comunicava il suo ritorno.
L’attesa dell’arrivo di Margherita diventerà un momento catartico per i suoi quattro figli, consentendo loro di ripercorrere le fasi dell’abbandono, in un fiume di ricordi che si susseguono come fotogrammi della pellicola di un film. E nella scena del tanto anelato ritorno, una rivelazione sconvolgente lascerà senza parole.
In questa sua opera, l’autore canadese porta lo spettatore a interrogarsi sul senso dell’abbandono: via di fuga vigliacca ed esecrabile o decisione ponderata e a fin di bene?
Per farlo sceglie l’abbandono più duro da digerire: quello materno. Una madre “che faceva sfoggio della sua felicità per nascondere la sua infelicità”, amando pubblicamente un altro uomo e per questo allontanata già nel suo stesso paese.
Un’incomprensione della società nei suoi confronti che si riverbera sui figli: Luca e Martina non riescono ad essere accettati per la loro omosessualità, e Isabella viene derisa per la sua ingenuità. L’unica figura della famiglia che cerca di integrarsi nella comunità è rappresentata da Caterina, ma ben presto sarà spazzata via anche lei dalla tempesta di critiche sociali.
Un quadro riassunto efficacemente dalle parole del regista:
«Sono stato costretto molto presto a prendere posizione nei confronti della società in cui vivevo e della sua mentalità ristretta, dove regnavano l’oppressione e il giudizio contro chiunque osasse affermare la propria diversità e le proprie ambizioni per una vita diversa da quella del clan.
Nelle Muse orfane, il personaggio della madre appartiene a questa tipologia di emarginati; al contrario di sua figlia Catherine, responsabile dei fratelli, che si aggrappa disperatamente ai valori del mondo antico per paura dell’ostracismo da parte della società in cui vive. In compenso, il risentimento e il senso di colpa che la animano, la rendono vittima del suo paese e tiranno della sua famiglia.
Io porto nel sangue le tracce di questa violenza, così cerco di essere sincero, di parlare solo di quello che ho visto, ascoltato, vissuto. Mi rendo conto che la mia scrittura vive una tensione costante tra i valori del vecchio e del nuovo mondo».
Canzoni d’antan, lacrime di dolore e inaspettate rivelazioni compongono il testo ideato da Michel Marc Bouchard, il quale dissemina durante la storia i pezzi del puzzle che ha costruito, e che lungo il cammino si ricompongono fino allo sconvolgente finale. Ed è proprio quest’ultima parte che Paolo Zuccari (regista nonché attore – con una formidabile prestazione – nei panni dell’eclettico Luca) non riesce a valorizzare nella messinscena: nel momento del colpo di scena, il pathos raggiunto finisce per dissolversi brevemente.
Degne di nota sono le interpretazioni delle tre attrici (Antonella Attili, Stefania Micheli ed Elodie Treccani): i loro sguardi dardeggianti infiammano il palcoscenico; la loro intesa sembra fraterna; i loro passi sono precisi nello spazio quadrato circoscritto dai mobili: sbarre della prigione ideale in cui sono rinchiusi i personaggi da loro interpretati. Seppur la scelta scenografica si riveli in più occasioni efficace, appare talvolta fin troppo essenziale.
Una storia di amore; una storia di abbandono. Si può abbandonare per amore?
Carlos Eleta Almarán usa queste parole nella sua “Historia de un amor”, non a caso la stessa canzone legata a Margherita Capuano:
Ya no estás a mi lado, corazón, Non sei più accanto al mio cuore
en el alma sólo tengo soledad Nell’animo ho solo solitudine
y si ya no puedo verte, E se non poso più vederti
porque Dios me hizo quererte Perché Dio ha voluto che ti amassi
para hacerme sufrir más? Per farmi soffrire di più?
data di pubblicazione: 14/02/2017
Il nostro voto:
0 commenti