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LA VITA ACCANTO di Marco Tullio Giordana, 2024

Tratto dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano, il film di Marco Tullio Giordana racconta la storia di una famiglia dell’alta borghesia vicentina negli ultimi decenni del Novecento. Da Maria e Osvaldo nasce Rebecca, la figlia tanto desiderata. L’elemento perturbante e inatteso: la bambina ha una vistosa macchia rossa su un lato del viso. Colta da una forte depressione, la madre la respinge, chiudendosi in se stessa sino al tragico epilogo. Rebecca, cresciuta sotto l’ala della zia Erminia, pianista e concertista di successo, scoprirà nella musica una via di liberazione e di salvezza.

 

Si può amare e respingere insieme? La storia – così come il regista ha scelto di raccontarla – ruota intorno a queste poche parole. A questo interrogativo che sembra non trovare risposta. Se non nelle pieghe nascoste di una follia visionaria, nelle apparizioni oniriche, nella musica, nelle pagine di un diario segreto.

Un’atmosfera plumbea, sin dalle primissime scene, pervade la ricca dimora di una ricca famiglia di Vicenza, in attesa del primo figlio. Ricca, ma solo nella forma (poverina, poverina… poverini tutti!) È un labirinto di stanze e di saloni, di scale e di corridoi, quella grande casa. E relegata in quel labirinto, al pari di un mostruoso Minotauro, vivrà i suoi primi anni di vita Rebecca, la bambina nata da Osvaldo (Paolo Pierobon) e Maria (Valentina Bellè). Isolata e reclusa, sottratta alla vista degli altri, estranei alla famiglia, allo “sguardo che uccide” e che giudica. Rebecca (interpretata da diverse attrici, da Sara Ciocca all’esordiente Beatrice Barison) non è una bambina “come tutte le altre”. È un “mostro di natura” che la madre rifiuta di prendere in braccio e persino di guardare in viso, per consolarne il pianto.

Esattamente come una lettera scarlatta, quella macchia rosso sangue impressa sul viso rappresenta il segno evidente della colpa, di una condanna senza possibilità di espiazione. Colpa che qui si rovescia sull’innocenza più pura. Un peccato originale ricade sulla creatura appena nata a tal punto che neppure il battesimo dei cristiani potrebbe cancellarlo. Ma l’acqua santa gliela lava via la macchia? – chiederà Maria, madonna senza Dio e senza fede. Una madre fantasma, spodestata e vicariata, per forza di cose, dalla gemella di Osvaldo, Erminia (Sonia Bergamasco). Donna determinata, volitiva, composta. Decisa, tanto nell’esecuzione di un brano al pianoforte quanto nella pianificazione della propria (ed altrui) esistenza. Alter ego. Seguendo il suo esempio, Rebecca imparerà a forgiare il suo innato talento per la musica attraverso la disciplina, con esercizi estenuanti e ripetitivi. Inutili le suppliche della madre di “suonare qualcosa” (senza le scale non si va da nessuna parte).

Ridondante è anche la simbologia cromatica, nel corso di tutta la pellicola. Il rossetto vermiglio sulle labbra di Erminia, la porpora delle poltrone a teatro si contrappongono al nero luttuoso o al bianco spettrale della figura di Maria, dall’inizio alla fine, in rapida involuzione.

Il regista, con l’ausilio di una fotografia a tratti molto suggestiva, racconta dunque il corpo e lo spirito attraverso un gioco di luci ed ombre. Di tasti bianchi e neri, con delle punte rosso fuoco che s’intravvedono nei martelletti al tocco violento delle dita.

E vivendo “accanto” alle ombre, scoperchiate e risorte – non al di sopra, né sotto di esse ma accanto, così da poterle guardare negli occhi e parlarci faccia a faccia – si arriva a scoprire una verità, che è vera luce. Anche se viene dalla notte. E dalla notte estrema.

data di pubblicazione:24/08/2024


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1 commento

  1. Questo film mi ha fatto capire tanto. Soprattutto sulla possibilità che i rapporti affettivi all’interno della famiglia possano essere completamente falsati. Riconciliarsi con il passato è sempre un’operazione difficile ma sicuramente catartica. La protagonista ci prova e il miracolo si compie. La macchia non c’è più e peraltro senza il ricorso della candeggina!!!

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