LA PULCE NELL’ORECCHIO di Georges Feydeau, traduzione e adattamento di Carmelo Rifici e Tindaro Granata

foto di Luca Del Pia

regia di Carmelo Rifici

con (in ordine alfabetico), Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo

(Teatro Vascello – Roma, 28 marzo/6 aprile 2025)

Una fabbrica di trovate comiche costruita sulle parole e le situazioni questa messa in scena del classico di Feydeau La pulce nell’orecchio firmata da Carmelo Rifici. È una fiera del riso e una girandola di follia, creata in collaborazione con Tindaro Granata per la traduzione e l’adattamento, e affidata a un eccezionale gruppo di attori. Una produzione impegnativa che vede collaborare LAC (Lugano Arte e Cultura), Piccolo Teatro di Milano e La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello di Roma.

 

Commedia degli equivoci, delle coincidenze e degli imbrogli. Chiaro esempio di quel genere chiamato vaudeville che Feydeau porta a perfezione seguendo le orme di grandi autori come Labiche. Un’occasione del tutto eccezionale per un regista come Rifici – solitamente alla prova con testi più impegnati – di dirigere un intreccio comico come La pulce nell’orecchio. Sceglie un impianto moderno, privando il contesto dei riferimenti borghesi insiti nella struttura del testo e lascia scoperto il meccanismo comico che invece lo caratterizza.

Il sospetto accende la bomba, mette la pulce nell’orecchio. Per colpa di uno scambio di bretelle una moglie crede che il marito la tradisca. Per avere prova della sua infedeltà gli fa scrivere una lettera da un’amica, invitandolo in un albergo di equivoca fama. È qui che gli eventi si moltiplicano, ingarbugliandosi in una matassa fitta che farà venire a galla intrighi piccanti, tresche segrete, piaceri libidinosi e inconfessabili voglie, fino allo scioglimento finale.

Capovolgimenti, immoralità, difetti e storpiature linguistiche. Rifici sfrutta il potere comico del testo, utilizzando qualsiasi espediente per fa ridere il pubblico. Il catalogo delle soluzioni comiche è completo. Dalle ripetizioni allo scambio di persona, dal degenerare delle situazioni fino all’imitazione dell’umano nei suoi lati grotteschi e animaleschi. E poi veri esercizi di clownerie e acrobazie sui blocchi di gommapiuma – a sostituzione del mobilio belle époque – che fungono da praticabili. La scena di Guido Buganza è una stanza dei giochi posizionata su un piano girevole che ruota come un carosello svelando inevitabilmente i nascondigli dove si consumano le segrete perversioni dei personaggi. È un giardino dell’infanzia in cui non ci si fa male. In fondo il teatro è il luogo della finzione, dove tutto accade per scherzo («Davvero potete credere che qui qualcuno possa morire veramente?»). Anche i colori sono gioiosi, un lavoro di riduzione a vibranti campiture che vanno a riempire spazi geometricamente definiti. Colori puri e cristallizzati che sono anche nel disegno dei costumi di Margherita Baldoni.

Il lavoro ermetico investe anche i personaggi. La realtà umana, dissezionata e come esplosa nel disordine del gioco, rimane tuttavia riconoscibile. Rifici la spoglia delle sovrastrutture sociali, dà pari dignità al genere e osserva con una lente i tratti di ognuno fino a esasperarne la ridicolezza. Agli attori è richiesta ogni tipo di attitudine e abilità, dall’elasticità alle doti vocali, da una grande memoria per gesti e intrichi verbali – alla bisogna sdoppiati in più ruoli – fino alla capacità di saper suonare uno strumento musicale. Ma soprattutto una dote: sapersi divertire in squadra. E la compagnia di attori messa in piedi da Rifici dimostra di essere un corpo unico, in cui gli elementi lavorano in sinergia e su cui (si immagina in prova e durante la tournée) sono state costruite le innumerevoli gag che vanno oltre la perfetta macchina di divertimento creata da Feydeau.

data di pubblicazione:05/04/2025


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