Paula Bélier (Louane Emera). Bélier, come “montone”. Sedici anni. Il corpo che cambia, il cuore che inizia a battere tra i banchi di scuola, la fisiologica contrapposizione generazionale con i propri genitori, il distacco dal nido familiare come necessario anello di congiunzione tra l’adolescenza e l’età adulta. Fin qui nulla di nuovo. Solo che Paula è l’unica nella sua famiglia in grado di sentire e di parlare. Comunica con la mamma (Karin Viard, semplicemente strepitosa), il papà (François Damiens) e il fratellino (Luca Gelberg) attraverso il linguaggio dei segni, rendendosi generoso e impeccabile ponte tra il silenzio che avvolge la sua casa e il frastuono che si agita fuori da quelle mura. Un’armonia in cui le note e le pause sembrano integrarsi su uno spartito dal solido equilibrio, fino a quando il destino, amabilmente crudele, non decide di imporre un nuovo ritmo e una nuova melodia nella fattoria della famiglia Bélier. Paula ha una pepita in gola, che il suo insegnante di canto (Éric Elmosnino) ha tutta l’intenzione di lasciar brillare alla luce del sole. Perché chi ha ricevuto in dono dei talenti non può permettersi il lusso di non investirli nella ricerca di un sogno. Anche qualora quel sogno richieda di abbandonare la bucolica campagna per la caotica città. Anche qualora quel sogno dovesse rendere ancor più doloroso il fisiologico distacco.
Sarebbe riduttivo leggere La famiglia Bélier come un film sulla diversità o come una più ampia riflessione sulle tante vie attraverso cui è possibile comunicare, se solo si trovi il coraggio di guardare (e di sentire) oltre le etichette e gli schemi. Si tratta piuttosto di un delicato componimento poetico, fatto di punti di vista, apparentemente antitetici, che si alternano, si avvicinano, si sfiorano e infine si fondono pur restando distinti, come quando, nella scena del duetto e in quella dell’audizione, lo spettatore “sente” di essere una nota e, al tempo stesso, una pausa, parte integrante dell’affascinante spartito intitolato “famiglia Bélier”.
Risulta coerentemente inserita nei tempi e nello spirito del racconto anche la prospettiva politico-sociale, affidata alla candidatura di papà Bélier a Sindaco del suo paese. Il manifesto con la foto di un sordo e lo slogan “Io vi ascolto”, insieme alla (a tratti esilarante) campagna elettorale portata avanti con entusiastica e contagiosa convinzione, stigmatizzano, senza ridondante retorica, quel sordomutismo di una classe politica che, sempre più spesso, risuona in maniera assordante nei tradizionali modelli della democrazia occidentale.
Convincente la prova della protagonista Louane Emera, classe 1996, la quale passa con ammirevole disinvoltura dallo psichedelico luccichio del palcoscenico di “The Voice” alle luci caldamente suffuse di una commedia che, sia pur cedendo a tratti alle lusinghe dello stereotipo d’effetto (la corsa dell’ultimo minuto e all’ultimo respiro), è in grado di coinvolgere, divertire, stupire e commuovere.
data di pubblicazione 26/03/2015
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