Quando Ted, professore di filosofia in un’università americana, torna con la moglie Ruth, nella casa della sua infanzia a Londra, trova la sua famiglia che non ha lasciato la vecchia dimora dove vivono ancora il vecchio padre, lo zio Sam e i due fratelli Lenny e Joey, La casa è rimasta tale e quale in maniera impressionante, con la poltrona del padre capofamiglia al centro della scena. Questo ritorno è l’occasione di una serie di incontri in cui i rapporti sono quelli tipici del Pinter prima maniera: caratterizzati da dialoghi e battute brevi, contradditorie, come i comportamenti dei personaggi; pause, silenzi, dettagli trascurabili o ingranditi in maniera deformata. Ogni azione, ogni parola ne sottintende altre, ogni insinuazione o silenzio potrebbe dar adito ai malintesi. La crudeltà dei rapporti familiari può ricomporsi al calore di un ricordo per poi smentirsi nuovamente, mentre il personaggio di Ruth catalizzerà l’interesse del microcosmo maschile e potrà, a fine commedia, occupare il posto del padre, la famosa poltrona del Capofamiglia, ma non è detto che invece la donna sarà una vittima sacrificale, mentre Ted lascerà definitivamente la casa perché ha capito che probabilmente è la sola via di salvezza. Questa pièce oggi non è più scandalosa come poteva apparire al momento della prima londinese (1964) ma colpisce ancora come coltello nella piaga dell’istituzione familiare e soprattutto piace perché aldilà di ogni lettura è una bellissima pièce, dove è stimolante soprattutto il linguaggio, il non detto. Un eterno problema dei registi è stato sempre: come mettere in scena il linguaggio di Pinter. C’è chi ha esagerato con le metafore e i silenzi, specialmente nei primi allestimenti; c’è chi ha piegato alla propria poetica i temi pinteriani, tradendoli del tutto (per esempio Visconti), c’è chi oggi sceglie la strada di un realismo alla Eduardo, come ha fatto molte volte Carlo Cecchi. Quando nel 1974 ci fu la prima italiana di Ritorno a casa, Carla Gravina chiese consiglio a Pinter sul personaggio di Ruth e l’autore le disse: “cerca di non farne una ninfomane”. Dunque si presume che volesse personaggi naturali, non grotteschi. Potrebbe quindi suscitare qualche perplessità quella recitazione imposta dal grande regista tedesco Peter Stein, tutta sopra le righe, sia nella voce sia nel linguaggio del corpo, ma tutto sommato gli attori sono efficacissimi (in primis Paolo Graziosi) e la messinscena del bellissimo spettacolo nel suo insieme è da ammirare per l’encomiabile sorvegliatissima e intelligente regia che sottolinea ogni battuta e ogni spazio, ogni vuoto. In definitiva il suo progetto registico ha vinto e gli applausi scrosciano.
data di pubblicazione di 30/03/2015
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