(Teatro Argentina – Roma, 23 gennaio/6 febbraio 2018)
Al termine di una imponente tournee che ha toccato i più importanti teatri italiani, approda al Teatro Argentina di Roma, dal 23 gennaio al 4 febbraio, Il nome della rosa. Il capolavoro di Umberto Eco, tradotto in 47 lingue, vincitore del Premio Strega nel 1981 con alle spalle una imponente versione cinematografica diretta da Jean-Jacques Annaud e interpretata da un indimenticabile Sean Connery, vive oggi la sua prima trasposizione teatrale italiana nella stesura di Stefano Massini e con la regia di Leo Muscato.
Un romanzo avvincente e trascinante, costruito secondo svariati livelli di lettura, nato già con una forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni, e la suddivisione di ogni singola giornata in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento (Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta). Ogni capitolo è introdotto da un sottotitolo utile a orientare il lettore, che in questo modo sa già cosa accade prima ancora di leggerlo, una drammaturgia di fatto già impostata.
La scena si apre sul finire del XIV secolo. Siamo nel momento culminante della lotta tra Chiesa e Impero, che travaglia l’Europa da diversi secoli. Un vecchio frate benedettino, Adso da Melk, è intento a scrivere delle memorie in cui narra alcuni terribili avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù. Sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi occhi si materializza se stesso poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore: Guglielmo da Baskerville.
Fare i conti con Il nome della rosa non dev’esser stata impresa facile. Dalla versione teatrale dell’eclettico Stefano Massini, il regista Leo Muscato ne ha tratto un adattamento asciutto e complesso nel contempo tra il thriller e l’indagine da una parte ed i tanti riferimenti culturali e trasversali, il contesto storico e religioso, l’attualità dei temi, lo scontro tra oscurantismo e liberalismo dall’altra, facendone un esplicito omaggio all’autore recentemente scomparso.
Ne è uscito un kolossal teatrale: l’impianto scenico è un contenitore che di volta in volta diviene la biblioteca, la cappella, le cellette, la cucina e così via per uno spettacolo che ha un taglio quasi cinematografico. Musiche originali unite a canti gregoriani dal vivo ed all’imponenza di costumi, scene e proiezioni video.
Ad entrare e uscire da questi ambienti è il vecchio Adso, nella voce narrante di Luigi Diberti che cattura lo spettatore con i suoi ricordi e gli insegnamenti del suo maestro, sconfitto, come investigatore, lungo la risoluzione del mistero delle morti sospette tra i monaci perché a trionfare, apparentemente, è la cecità fisica e mentale dell’anziano Jorge che lo induce a distruggere il secondo libro della Poetica di Aristotele, temendo che il riso e la commedia, argomenti contenuti in quel manoscritto, potessero minare i dogmi della cristianità.
Interpreta Il nome della rosa un cast di grandi interpreti tra cui certamente emergono Luca Lazzareschi (nel ruolo di Guglielmo da Baskerville), Luigi Diberti (il vecchio Adso), Renato Carpentieri (Jorge da Burgos), Eugenio Allegri (Ubertino da Casale, francescano e Bernardo Gui, inquisitore), Giovanni Anzaldo (il giovane Adso).
Lo spettacolo enfatizza la lotta fra chi si crede in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla, e chi al contrario concepisce la verità come la libera conquista dell’intelletto umano.
La curiosità e la brama di conoscenza, che non abbandonano mai la mente di Guglielmo, sono, al contempo, strumento risolutivo e condanna per l’uomo moderno che abbandona l’oscurantismo medioevale per proiettarsi con forza e con dolore verso nuove mete e nuove verità.
data di pubblicazione:01/02/2018
Il nostro voto:
Certamente la complessità e la bellezza del romanzo non possono essere messi sullo stesso piano di un’azione teatrale che per forza di cose deve vivere di un’autonoma trasposizione. Certamente il distacco temporale rispetto all’uscita del capolavoro di Umberto Eco aiuta a cogliere la lettura del regista e le scelte operate. Anch’io a suo tempo rimasi perplesso sul film di Annaud avendo troppo a mente il romanzo che rimane a se stante e non declinabile nelle sue innumerevoli componenti.
Ottima recensione che mi accompagna dentro l’azione teatrale pur non essendo presente. Certo la complessità del testo di riferimento non rende assolutamente semplice la trasposizione in teatro. Se non ricordo male Eco non approvo’ la versione cinematografica quindi non so come si comporterebbe di fronte a questo. Ma da come leggo qui sembra tutto molto convincente. Spero la regia abbia reso accessibili certi passi che già nel testo erano rivolti ad una élite ristretta.