Nelle innevate montagne del Wyoming un cacciatore solitario ritrova il corpo straziato di una giovane “nativa”, figlia di un amico. Ancorché sconvolto dal suo passato, accetta di partecipare alla ricerca dell’assassino insieme ad una inesperta agente dell’FBI alla sua prima missione. Scopriranno insieme la terribile realtà.
Arriva con un discreto ritardo nelle nostre sale il robusto thriller che segna il passaggio alla regia di Taylor Sheridan, già sceneggiatore di quella che viene considerata una trilogia sul mito della frontiera americana, con Sicario e Hell or High Water. Il valore della pellicola è testimoniato dal premio e dagli applausi ricevuti a Cannes nell’edizione 2017 (Migliore regia nella sezione Un Certain Regard).
Chi ha letto i romanzi di Cormac Mccarthy ne riconoscerà immediatamente le atmosfere e i personaggi che muovono una storia da western “moderno”. Ci sono quindi le riserve indiane, il razzismo, il ruolo della donna subordinata, la violenza degli uomini nel silenzio della natura. Però, i cavalli sono stati sostituiti dalle moto slitte, i sopravvissuti pellerossa si chiamano nativi, le giacche azzurre vestono i giubbotti anti-proiettili dell’FBI. E ancora, nel silenzio e nella solitudine, si agitano i destini della piccola comunità di nativi dove la legge è distante, e la morte e lo sconforto aleggiano sui personaggi già prima che nuovi drammatici eventi accadano. Gli occhi tristi di Cory Lambert, improvvisato detective (Jeremy Renner lo interpreta con misura e intensità) ci raccontano il suo doloroso passato (una figlia giovane e bella, scomparsa), e la sua ricerca del colpevole del nuovo efferato delitto è quasi una sua terapia del dolore per esorcizzare i drammatici risvolti familiari. Altresì, ben costruito è il personaggio della sensibile agente dell’FBI Jane Banner, affidato alla deliziosa e convincente Elisabeth Olsen, spaesata ed empatica in un mondo selvaggio a lei sconosciuto.
In un’alternanza di silenzi, ricordi, dialoghi, accelerazioni improvvise, suggestivi inserti musicali (la colonna sonora è di Nick Cave e Warren Ellis), la pellicola si snoda avvincente e coerente nei suoi 111 minuti, offrendo allo spettatore molti dei momenti che caratterizzano una visione di sicuro coinvolgimento e interesse: la bellezza degli scenari (il film è girato nella settima riserva indiana per estensione, appunto Wind River, ubicata nella zona centro-occidentale del Wyoming ed abitata da Shoshoni e Northern Arapaho), la tensione costante, una inattesa e violenta sparatoria, degna di Tarantino, il rigore dei dialoghi, quasi sempre, congrui a personaggi lacerati dalla ineluttabilità dei destini.
Calzanti anche i personaggi di contorno, tutti ben caratterizzati (Jon Bernthal su tutti). Considerato l’alto livello dei precedenti film sceneggiati da Sheridan, in onestà, non so se questo sia il migliore dei tre, ma certamente posso dire che si tratta di un ottimo esordio alla regia.
Consigliato!
data di pubblicazione: 10/04/2018
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Un film la cui visione è come scorrere le pagine di un libro: Bei paesaggi in contrasto con la “crudezza” della vita vissuta dai “nativi” consapevoli e arresi ad una realtà in cui il proprio Paese non è più la propria Nazione.
Per chi non lo avesse visto al Festival del Cinema di Roma 2016, ( poi purtroppo mai distribuito in sala), suggerisco di cercare di recuperare il secondo e magistrale film della trilogia della moderna frontiera americana : Hell or High Water con una superba interpretazione di Jeff Bridges
Giustamente la recensione nell’evidenziare la bellezza di un thriller leggermente crepuscolare che sa dare nuovo vigore al genere senza dover ricorrere alla solite esplosioni od inseguimenti di auto, sottolinea la capacità del regista di offrirci anche uno studio intenso e dolente della situazione delle comunità dei nativi americani, senza nulla togliere alla tensione narrativa.