(Teatro Argentina – Roma, 18/30 maggio 2021)
Furore racconta la grave crisi economica e sociale che colpì la classe contadina americana nel decennio successivo alla grande depressione del ‘29. Massimo Popolizio ripropone sul palco dell’Argentina la lettura dell’omonimo capolavoro di Steinbeck. Una cronaca di fatti accaduti ieri che suona ancora attuale nel nostro oggi.
Sulle tavole del palcoscenico si è posata una coltre di sterile e arida polvere. Tutto intorno sono accatastate pile di vecchi giornali. Una macchina da scrivere è pronta su una scrivania appena illuminata. La redazione del San Francisco News è interessata a raccontare le pessime condizioni di vita in cui versa un intero popolo, costretto a una migrazione forzata in cerca di lavoro e pane dalle regioni interne degli Stati Uniti verso l’assolata California. Il giornale commissiona a John Steinbeck l’indagine. Lo stile giornalistico caratterizza la lettura di Furore secondo l’adattamento di Emanuele Trevi e l’interpretazione di Massimo Popolizio. La vicenda della famiglia Joan, sulla quale poggia la trama del capolavoro di Steinbeck, è una storia tra tante ancora di là da venire. Lo spettacolo, una produzione della Compagnia Umberto Orsini con il Teatro di Roma, torna in scena dopo il debutto due anni fa al Teatro India (leggi anche la recensione di Daniele Poto su Accreditati.it). Le implicazioni scaturite dalla grave crisi agricola hanno risonanze attuali. La povertà che arriva all’improvviso a causa di una calamità naturale. L’abuso di poche persone che accumulano grandi proprietà sottraendole alla gestione di tante famiglie. La disperazione, l’indigenza e la fame di chi è costretto a migrare altrove facendo di tutto per sopravvivere. La dignità calpestata a ogni chilometro che si aggiunge sulla strada per la libertà. I sogni infranti di una gioventù che si aggrappa con forza alla speranza e all’utopia (il futuro è un’immagine a colori a contrasto con un presente in bianco e nero). La tecnologia che scalza il lavoro dell’uomo e danneggia irrimediabilmente il pianeta in cui viviamo. Le immagini che appaiono proiettate sullo sfondo riportano la memoria a qualcosa accaduto quasi un secolo fa, ma il dato reale di cui sono cronaca non basta ad allontanare il pensiero da quanto avviene ancora oggi sotto i nostri occhi.
La collera divampa, percorre una parabola ascendente a ogni quadro di cui è composto il racconto. Germoglia da un piccolo seme fino a diventare il frutto di un furore incontenibile (Grapes of wrath è il titolo originale dell’opera). Massimo Popolizio rende palpabile e intensa questa rabbia. Se ne fa un vestito, la canta come fosse un gospel. La sua voce e il suo corpo sono espressione della forza vitale e disperata dell’umanità che lotta. Un’energia sottile che scatena le percussioni di Giovanni Lo Cascio, in scena con lui in un perfetto gioco di risonanze e drammaticità. Poi la musica e le immagini si fermano, rimane solo la magia del racconto e della parola. Un gesto di solidarietà riporta tutto alla calma. Rose, la giovane sposa che nel viaggio perde tutto, il marito e il figlio nato morto, è l’unico personaggio espressamente citato di tutto il romanzo. Il suo latte di puerpera servirà a mantenere in vita uno sconosciuto. Il dramma si risolve così in un momento lirico, che lascia intravvedere in una semplice azione di altruismo, la speranza in un’umanità in fondo pura e generosa. La resistenza di una pianta al potere divorante della polvere.
data di pubblicazione:22/05/2021
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