Il sottotitolo è accattivante ed illuminante. “Gli anni ottanta, magia di un’epoca in cui avevamo il mondo in pugno”. Metafora del momento più radioso del pugilato italiano. Con personaggi come Oliva, Rosi, Kalambay, capaci di imporsi su ring nazionali e internazionali decretando il successo del pugilato noble arte non come rissa selvaggia alla Tyson ma come elegante lezione di stile. Era un momento che si prolungava dalla saga di quel Benvenuti, umiliato da Monzon ma capace di proiettare una luce positiva sul seguito di uno sport oggi decaduto a eventi e personaggi residuali. Come infatti paragonare uno Scardina o un Vianello attuale ai Parisi e ai Nati, a campioni mondiali ed europei in un mondo popolato ormai da un’infinità di sigle spesso indistinguibili? Il tramonto della boxe è stato decretato dalla scarsa credibilità del sistema complessivo, dalla relativa buonafede dei giudici, dal proliferare delle sigle e dallo scadimento dell’attività dilettantistica che ha reso sempre più labile il confine con il mondo professionale. Oggi si costruisce un record con una serie di incontri già segnati e la fortuna dei pochi sopravvissuti è soprattutto mediatica. Torromeo ci restituisce invece l’età felice del pugilato italiano con una serie di riuscite immersioni nel mondo dei protagonisti. Vissuto da vicino, confidenzialmente. La serie di fotografia scattate su questo sport in decadenza restituisce il quadro veridico di un’epoca in cui anche gli italiani vivevano meglio forti di una classe media consolidata che, dopo l’esplosione del boom, cercano di consolidarsi come borghesia sull’esempio di Germania, Francia, Inghilterra. C’era anche il sogno imitativo americano dietro i successi sportivi. In effetti non si arrivava per caso a giocarsi su un ring un titolo mondiale. Alle spalle c’era la solidità del movimento, l’intraprendenza dei manager, la voglia di rischiare di una società che non si poneva limiti di sviluppo e non si interrogava sulla possibile decrescita più o meno felice.
data di pubblicazione:04/12/2019
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