CRAVE di Sarah Kane, regia di Pierpaolo Sepe

5 Ott 2016 | Accredito Teatro

(Teatro India – Roma, 4/9 Ottobre 2016)

“Non si è mai così forti come quando si sa di essere deboli”. Dal loro disagio quattro differenti personalità acquistano sicurezza per comunicare l’incomunicabile.

Una fitta rete metallica divide la realtà dalla finzione, il pubblico dal palcoscenico. Quattro personaggi in gabbia, senza vie d’uscita. Ancor prima che nella prigione, ciascuno di loro è costretto nei propri vestiti, nelle proprie fisime. Una donna elegante ha i capelli imbrigliati da un carré, un ragazzo abietto è chiuso in abiti trash, una placida ragazza è avvolta in una giacca di pelliccia, e un inquietante signore ha il volto coperto da un naso rosso di gomma. Attraverso i piccoli fori del soffocante reticolato, iniziano una conversazione autoreferenziale. I loro discorsi si alternano in maniera convulsa, frammentata, disordinata, come un repentino e frequente cambio di stazione radio. Non parlano tra di loro; non si guardano. I loro occhi sembrano rivolti verso il pubblico, ma in realtà sono persi nel vuoto. Un bisogno disperato di raccontare, di esprimere le loro sensazioni, di manifestare le loro pulsioni, di dichiarare l’inconfessabile senza freni o inibizioni. Eccessi verbali apparentemente privi di significato, legati tuttavia da un filo rosso sangue del comune e lacerante dolore esistenziale: pirati delle emozioni, rubano il dolore agli altri e lo nascondono sotto il loro. Ognuno progressivamente acquista sicurezza dal proprio angosciante racconto; ma nessuno prende il sopravvento sugli altri, rimangono tutti sullo stesso piano, sullo stesso pavimento bianco racchiuso dall’opprimente nero delle sottili grate: affamati di bianco su bianco e nero.

18 anni sono passati dalla prima rappresentazione di Crave al Traverse Theatre di Edimburgo, ma ancora è vivido il disagio, la disperazione, lo sconforto che Sarah Kane mette in atto con quest’opera. Già dal suono raspante e graffiante del titolo, si intuisce il bisogno di scavare per cercare di colmare il vuoto interiore, in una tormentata ricerca di amore.

Un testo teatrale che lascia liberi i registi di esprimersi; libertà che Pierpaolo Sepe sa sfruttare con sapienza. La sua messinscena è stordente e accecante, confonde e scuote, ricrea l’atmosfera tenebrosa e labirintica tipica di una mente in subbuglio.

Grazie alla collaborazione di Francesco Ghiuso, dà corpo alle voci e le moltiplica mandandole in loop (scelta apprezzabile ancorché evitabile durante il monologo principale), mercé l’utilizzo di numerosi microfoni presenti sul palco: una eco che rimbomba e circonda lo spettatore e lo imprigiona, in un virtuale scambio spaziale tra pubblico e attori. Quest’ultimi degni d’encomio per le loro intense interpretazioni, tra cui spiccano quelle di Dacia D’Acunto, che riflette perfettamente il carattere remissivo e disturbato attraverso la sua flebile voce, e di Gabriele Colferai, efficace nel trasmettere la parte lasciva che raffigura.

Diversi personaggi che non sono altro che le differenti personalità in lotta all’interno della mente dell’autrice (e ben caratterizzate dai costumi scelti da Anna Annapaola Brancia d’Apricena), la quale ha avuto l’ardire di comunicare ciò che provava e quanto la affliggeva finché non ne è stata distrutta: “Io scrivo la verità e lei mi uccide”.

data di pubblicazione:05/10/2016


Il nostro voto:

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Ricerca per Autore:



Share This