La moda ripropone continuamente stili, modelli, forme dal passato. Si dice segua un movimento circolare, o meglio a spirale, in cui elementi della moda di decadi o secoli fa ritornano dopo un certo periodo e ispirino il presente e qualcosa di nuovo, o che cerca di esserlo, viene quindi prodotto (foto tratta dalla Mostra Pier Paolo Pasolini TUTTO È SANTO al Palazzo delle esposizioni di Roma).
Sono gli archivi di moda i custodi di questo patrimonio storico. Ogni anno gli stilisti fanno dei fulminei pellegrinaggi per guardare, studiare, toccare abiti e stoffe conservati attentamente per decenni e così lasciarsi ispirare per le loro imminenti collezioni. Siano essi archivi di impresa o archivi indipendenti di collezioni private poco importa perché in entrambi i casi sono ambienti alquanto esclusivi. Per ragionevoli questioni pratiche (conservazione, spazi, diritti d’autore, privacy) ma anche, probabilmente, per creare l’immagine romantica di misteriosi sancta sanctorum della moda dove vengono conservati i segreti del savoir-faire di un’azienda. Solo raramente possono essere visitati ma in ogni caso mai nella loro interezza (e sempre previo appuntamento ça va sans dire).
Dopotutto, per il pubblico più profano ci sono sempre i musei dedicati e le mostre a tema che catturano l’immaginazione con una varietà di artefatti e di mezzi espressivi (videoproiezioni, schermi interattivi, musica di sottofondo e chi più ne ha più ne metta) che creano esperienze di visita sempre più immersive. Gli abiti non sono meramente montati su tristi manichini senza vita ma diventano i protagonisti di scene evocative o vignette cinematiche il cui scopo è quello di lasciare a bocca aperta il visitatore. Come all’ultima mostra del Metropolitan di New York, In America: an Anthology of Fashion, per il cui allestimento sono stati chiamati a lasciare il proprio imprinting registi come Martin Scorsese, Sofia Coppola, Regina King, Chloé Zhao e l’eclettico Tom Ford.
Ci sono però più spettatori che guardano film e serie tv che visitatori nei musei e nelle gallerie, e sicuramente molti di più di coloro che frequentano gli archivi di moda (nel 2020, il 27.3% della popolazione italiana ha frequentato musei e mostre mentre il 45.3% è andato al cinema, Istat). Il guardare al passato per molti dunque avviene tramite il guardare uno schermo. E il cinema ha un legame stretto con la storia: fin dalle sue origini ha sempre avuto una forte inclinazione per le grandi rievocazioni con i primi kolossal e le trasposizioni di importanti classici della letteratura. E fin da subito (come nella storia dell’arte prima di esso) uno degli strumenti per comunicare il periodo storico allo spettatore è proprio il costume.
A quanti è capitato di ricordare, di leggere, di sentir parlare di un evento storico, un periodo e subito pensare a un film ambientato in quell’epoca?… Un illustre esempio? Se si parla di Risorgimento, come non pensare alle grandiose immagini create da Visconti con Senso e Il Gattopardo? E intrinsecamente anche i meravigliosi abiti a crinolina di Piero Tosi. Si potrebbe dire che il costume può innestare e coltivare una familiarità visuale con l’abito storico, indipendentemente dalle conoscenze dello spettatore, andando a formare una memoria collettiva di moda. Il costume mostra l’esperienza fisica dell’abito di un certo periodo – come veniva indossato, come si muoveva. (Ci sarebbero poi le questioni della loro accuratezza e di come la moda del presente del film si imponga nella ricostruzione storica ma sono temi per altri post).
Per concludere, se della storia della moda l’archivio è il custode, il cinema ne è il divulgatore più capillare che con la sua narrazione contestualizza anche gli usi e le convenzioni sartoriali del passato. Succede poi che i film e i costumi stessi diventino le muse della moda…creando un meraviglioso circolo virtuoso.
data di pubblicazione:13/02/2023
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