da Daniele Poto | Mar 22, 2021
Un libro che ha avuto bisogno di quaranta anni di gestazione è di per sé un libro che merita interesse. Magma caldo, diremmo incandescente. Culicchia, l’autore, è solo un adolescente quando il terrorismo gli porta via l’adorato cugino Walter Alasia, appena ventenne, convinto alla pratica sovversiva dal contatto con Renato Curcio. Alasia è un giovane adepto alla causa delle Brigate Rosse ed è al centro di un clamoroso fatto di sangue. Perché il blitz notturno della polizia nell’appartamento dove vive non in clandestinità ma con la famiglia, si traduce in un bagno di sangue. Non vuole farsi catturare, spara, uccide due militi, si butta dalla finestra. Quello che succede dopo rimane nel mistero, forse svelato da Culicchia che allude, pesantemente ma veridicamente a una sorta di regolamento di conti, di omicidio a freddo del ragazzo. La versione ufficiale invece deporrà su tutt’altri toni. Alasia, ferito, avrebbe cercato improbabilmente, di continuare a sparare ai barellieri che lo soccorrono. Ma l’arma e le prove di ciò non sono mai state trovate. Dunque Culicchia è dentro un dramma emotivo e famigliare di difficile decifrabilità anche letteraria. E non ha paura di attingere alla retorica che si affaccia prepotente sin dal titolo, mutuato da Lucio Battisti. Lo scrittore prende una posizione coraggiosa e si può permettere di farlo a distanza di quasi mezzo secolo da quei luttuosi eventi che, se commentati, a caldo, avrebbero provocato ben altro compromesso come riflessione politica. Ora invece la fissione a freddo è più meditata, distante, logica nella valutazione del regolamenti di conti improprio tra lo Stato e le Brigate Rosse. Un libro dunque duro, sofferto, problematico ma anche dialettico, ben inserito nell’attuale svolta di una letteratura italiana che attinge carnalmente alla cronaca e a fatti veri (v. La Gioia, Baiani, Scurati e altri). Il testo significativamente si conclude con l’elenco delle vittime delle Brigate Rosse mentre l’elenco dei brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine è una pagina bianca. Almeno secondo il dizionario enciclopedico di Wikipedia.
data di pubblicazione:22/03/2021
da Giovanni M. Ripoli | Mar 21, 2021
Dopo aver lavorato a Legnano per cinque anni, il/la vice-questore Lolita Lobosco torna a Bari a dirigere la sua squadra, composta da soli uomini. Secondo gli autori sceglie di restare se stessa, non reprime il suo fascino e combatte la malavita e i pregiudizi.
Non sono per indole portato alle stroncature verso libri, film o sceneggiati che siano, come, in generale, nella vita. C’è tanto di bello che trovo inutile seguire cose che non catalizzino il mio interesse o peggio trasmettano emozioni negative. Ma, c’è sempre un “quando- ci- vuole- ci- vuole” come si giustificò quel cappellano dopo una bestemmia allorché fu colpito nei santissimi gabbasisi da una pallonata. La pallonata, per analogia, mi è stata inflitta da Rai Uno con la visione delle mortificanti, sconclusionate e banali, Indagini di Lolita Lobosco, ennesima serie che “più nazional popolare non si può” di recente ammannitaci in ben quattro episodi (ma, visto il successo destinata purtroppo a proseguire!). Chiarisco: ho dovuto vederla per una sola ragione. Si svolge a Bari (che ben conosco avendoci vissuto), e amici e parenti me l’hanno caldeggiata, quo ante, ovviamente. Come tutti sapete, le fiction tv sono ormai il terreno preferito per la caccia all’audience delle reti generaliste. Commissari, che a volte diventano vice-questori, carabinieri e carabiniere, ispettori /trici, magistrati e avvocati, assistenti sociali e malavitosi proliferano in tv più dei conigli, a volte, con conseguenze assai più devastanti. Ma torniamo alle ragioni della stroncatura che “rara avis” non fermerà certo il successo della serie. A proposito leggo su uno dei periodici esposti nelle edicole che la protagonista della serie, Luisa Ranieri “è la nuova Sophia Loren?” facendomi sorgere più di un dubbio sull’ordine dei giornalisti. Puntualizzo: la signora in questione, esordì nello splendore dei vent’anni e in virtù di un rigoglioso seno in un indimenticabile carosello (Anto’ fa’ caldo!), tra i suoi meriti c’è quello di essere sposa e madre dei figli del Commissario Montalbano, alias il simpatico Zingaretti, certamente una bella donna, purtroppo già incapace di recitare in italiano, meno che mai, nell’improponibile dialetto barese impostole dalla produzione (Lino Banfi sembra Gassman in confronto!). La meschina, la Lobosco della serie, dopo un soggiorno di cinque anni in terra di Lombardia, torna nella sua Bari e parla peggio dei suoi concittadini, è issata su tacchi vertiginosi e flirta con presunti indagati. La circondano macchiette da avanspettacolo tra cui si salvano i soli attori realmente pugliesi (la brava Lunetta Savino su tutti). Ma se la protagonista lascia a desiderare, peggio fanno gli sceneggiatori con dei plot che sembrano scritti da Paperino e direi che il de-merito maggiore va ascritto all’autrice dei romanzi (?), tale Gabriella Genisi (da Mola di Bari) che-beata lei- dichiara di vivere tra Bari e Parigi capace di pubblicare (prima da Marsilio-Sonzongo ) e far trasporre in sceneggiati Rai le sue deplorevoli stupidaggini che non sono né gialli né romanzetti rosa (persino Moccia in confronto sembra Shakespeare!). Tra le perle della mini-serie ne segnalo per decenza solo alcune: i baresi sono dei trogloditi, parlano ancora tutti col Voi fascista; in questura non c’è un poliziotto che parli italiano: il vice questore si muove su una Bianchina degli anni sessanta o si fa portare su un triciclo a motore; le magistrate sono a livello di Barbara D’Urso… Cosa salvare allora? Beh qualcosa da salvare c’è sempre, come insegna De Andrè (è dal letame che nascono i fiori!). Per esempio? i droni che riprendono il meglio della città e gli ameni luoghi circostanti di Bari e provincia. Qualche buon caratterista e qualche ricetta gastronomica. Veramente poco per una serie che può attrarre solo concittadini di bocca buonissima. I primi colpevoli di questa triste messinscena de-meritano di essere citati, in primis i produttori, Barbagallo, Rizzello e, si spiega, Luca Zingaretti (consorte della Ranieri), poi il regista, Luca Miniero, nonché gli sceneggiatori o presunti tali, Gaudioso, Gambaro e Reale, …della scrittrice già dissi . Se ne sconsiglia vivamente la visione!
data di pubblicazione:21/03/2021
da Antonio Jacolina | Mar 20, 2021
…“Lloyd, certa gente predica bene e razzola male”
“Sir, Le ricordo che il razzolare è un’attività da animali, non da persone”
“Dici che dobbiamo cambiare parola, Lloyd?”
”Dico che dobbiamo cambiare persone, Sir”
Un’idea così semplice da sembrare quasi scontata, risaputa e banale, eppure… eppure tanto semplice quanto vincente, bella e geniale: l’idea di un personaggio, un “amico”, che ci fa compagnia e ci consiglia portandoci con poche battute a riflettere sul nostro quotidiano procedere.
Così è stato per Simone Tempia, un “giovanotto” del 1983 che ha iniziato inventandosi una sua Pagina su Facebook per arrivare in breve ad essere un “fenomeno social”, ad avere migliaia di followers, una sua rubrica su alcuni importanti quotidiani ed infine, quasi a furor di popolo, a divenire un caso letterario.
Il suo Vita con Lloyd del 2016 è l’inizio di una trilogia e di altri brevi racconti, tutti editi da Rizzoli. I libricini di Tempia narrano i dialoghi fra un personaggio immaginario, un uomo, un uomo di oggi con le sue ansie e la sua vita vissuta, Sir, ed il suo imperturbabile maggiordomo, Lloyd. Una situazione apparentemente anacronistica e surreale ma, nei fatti, anche credibilissima grazie alla capacità dello scrittore di realizzare una magica “sospensione dell’incredulità”. Ed ecco, allora, che i brevi raccontini fatti di frasi fulminanti, aforismi, pensieri e riflessioni divengono coinvolgenti, reali, profondi e fanno pensare, riflettere e sorridere, aiutando il lettore a sciogliere i propri grovigli esistenziali, stimolandolo e confortandolo con ironia e humour.
Uno humour ed uno stile tutto british fin dalla scelta stessa dei nomi dei protagonisti, che richiamano, senza perdere nel confronto, ben più illustri precedenti come Oscar Wilde, G.B. Shaw e l’ineffabile Jeeves di Woodhouse.
Battute brevi, pungenti, ricche di understatement, solo apparentemente un po’ snob, talvolta surreali ma sempre delicate, eleganti, intelligenti, semplici, dirette ed autentiche sui più svariati argomenti dell’esistere quotidiano. Una lettura piacevole, da assaporare di tanto in tanto, apprezzando le massime di vita, i consigli, le deliziose riflessioni e i giochi di parole.
…“Lloyd, cosa succede se perdo l’equilibrio emotivo?”
“ Dicono che un buon modo per trovarlo sia allargare le braccia, Sir”
“Per non finire a terra, Lloyd?”
“Per spiccare il volo, Sir”
data di pubblicazione:20/03/2021
da Daniele Poto | Mar 19, 2021
La dissoluzione dell’impero sovietico e la costituzione di stati indipendenti attraverso la transizione della sigla CSI è una rimeditazione storica che gli articoli del corrispondente da Mosca di Repubblica ci aiutano a rivisitare con un senso dell’attualità ancora vivo considerando gli scombussolamenti anche recenti della geopolitica mondiale. Il focus qui è concentrato tra il 1990 e il 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino. Quando la Perestrojka era la parola più gettonata e Gorbaciov era il rinnovatore in auge. Ma è altrettanto brusca la sua caduta, dopo il goffo tentativo di golpe, il salvataggio non casuale di Eltsin, la deposizione e la caduta. Così l’Urss torna a essere semplicemente Russia con il primo distacco dei Paesi Baltici e poi quello progressivo degli altri appartenenti alla confederazione delle Repubbliche mentre Gorbaciov viene pensionato e, dopo aver incassato il Nobel per la Pace, gira il mondo per illustrare una profonda riforma che non ha avuto definitivo compimento. L’eclisse del comunismo ortodosso porta inevitabilmente sconvolgimenti che da Occidente è difficile immaginare. Ma ora che lo scenario con l’interminabile dominio di Putin è cambiato con un senso del distacco e della misura diversa ci si può immergere in quella calda temperie. La fine di ogni impero porta con se traumi e scossoni. Ma dopo la caduta degli zar e la rivoluzione d’ottobre le vicende degli anni ’90 sono le più tempestose del secolo passato. Piene di contraddizioni, di scelte non portate a termine. La valutazionee storica su Gorbaciov rimane ambigua e controversa. Il libro presenta anche risvolti umoristici. Gorbaciov nella vecchia Urss era soprannominato il segretario minerale perché era l’unico politico al potere che non beveva vodka ma si limitava all’acqua. Anche attraverso gli aneddoti si può comprendere lo spirito di un Paese. La brillante scrittura di Franceschini ci aiuta ad addentrarci in questa non inutile rivisitazione.
data di pubblicazione:19/03/2021
da Paola Pazienza | Mar 17, 2021
I Greci dicevano che gli Dei dell’Olimpo distribuivano agli esseri umani virtù, talenti e fortuna in misura ineguale ed a caso, per cui Molti avevano “poco” e Pochi avevano “molto”, Alcuni poi avevano “tutto”. Carofiglio, nato molto bene e sposato molto bene, in soli 59 anni è stato integerrimo Pubblico Ministero, è stato Senatore della Repubblica, è attento analista politico, è acuto maitre à penser in trasmissioni televisive molto trendy, è stato fortunato e premiato autore dei 6 gialli incentrati sulle vicende umane ed i casi giudiziari dell’avvocato Guerrieri nella sua Bari (quelli che lo hanno reso famoso), oltre ad altri polizieschi, romanzi, racconti, saggi e sceneggiature, con anche un disinvolto passaggio nel fumetto. Poliedrico, disinvolto ed impegnato quale è, non ancora pago, l’autore rivolge oggi il suo sguardo letterario sull’altra metà del cielo, cogliendo la direzione dei “nuovi venti” con un agile libretto ambientato a Milano con un protagonista femminile. Un pubblico ministero: Penelope che viene allontanata dal suo ruolo per un misterioso incidente. Una donna in fuga dal suo passato ed un delitto irrisolto. La vita di Penelope si consuma ormai nell’arco della giornata fra alcool e notti sprecate. Un omicidio archiviato con la ragione del dubbio, le offrirà però l’occasione di recuperare la fiducia in se stessa.
Come al solito Carofiglio scrive con scrittura sottile e ricercata e ritmo veloce un breve giallo che descrive la storia di un padre accusato dell’omicidio della moglie ed assolto solo con il “ragionevole dubbio”, che però vuole, per amore della figlia e per il rapporto che ha con lei, dimostrare la sua totale innocenza. Un giornalista che a sua volta crede in Penelope come donna e come inquirente le chiede di indagare con le sue competenze e sensibilità umane e professionali per risolvere le ambiguità del caso. Penelope fragile ma determinata, intransigente con se stessa ed amareggiata nei confronti dell’umanità, risolve, ovviamente, brillantemente il mistero con la sua “disciplina giudiziaria”. La lettura scorrevole del romanzo si svolge però solo su due dimensioni: la storia e la descrizione introspettiva dei protagonisti. Si avverte subito l’assenza della terza dimensione che faccia da “cassa di risonanza” dando contestualmente la necessaria profondità alla storia stessa ed ampliando l’osservazione diretta dei fatti alla coscienza dei personaggi. L’assenza di questa dimensione rende di fatto la lettura del breve romanzo priva di effettivo coinvolgimento ed attrazione. Una piccola delusione, lontani, molto lontani i tempi dell’avvocato Guerrieri!
Proseguirà allora l’esperienza il nostro poliedrico Autore? Dipenderà dalle politiche delle case editrici, e … dalla risposta dei lettori. Per conoscere la realtà, passate in libreria e meditate sulle pile invendute dei “gialli” dei tanti, troppi … ex politici, ex magistrati, ex artisti.
data di pubblicazione:17/03/2021
da Daniele Poto | Mar 16, 2021
Quando sembrava che della regina classica del noir fosse stata pubblicato tutto il pubblicabile ecco spuntare fuori 16 racconti che sono prodromici di una lunga e fortuna carriera. Scritti ben prima del libro d’avvio Sconosciuti in treno (1950). Dunque gioiellini da studiare con cura, con la donna al centro di storie di crudeltà spesso minimale, di accensione di pulsioni maligne dietro il mascheramento di atti consueti di vita quotidiana. Il classico aplomb informale non necessariamente diretto verso un delitto ma comunque teso a fotografare un’anomalia rispetto agli schemi di normale comportamento sociale. Forse la parola “devianza” riassume al meglio le trame semplici e intricate di questi racconti. La crudeltà s’insinua subdolamente tra le pagine e proprio quando meno te l’aspetti, quando immagini che la prosaicità di una situazione non possa evolvere verso niente di illegale se non addirittura criminale. L’effetto sorpresa è una caratteristica dell’autrice. Un senso beffardo sulla casualità della vita, sulla piega imprevista che può prendere un plot fanno parte del mondo di una scrittrice che non a caso amava più gli animali degli uomini e delle donne. Qui si trovano germi che saranno sviluppati in ben più memorabili libri. Il contesto è nettamente americano, diremo texano. Si avverte il profumo della frontiera, il senso inquieto di una nazione in cambiamento, decisamente lontana dalle sofferenze diretta della seconda guerra mondiale. I racconti sono diseguali per tenuta, lunghezza e resa stilistica ma rappresentano un’interessante testimonianza sui passi iniziali ma non incerti di un’autrice già fortemente caratterizzata per tematiche. Noir donne e atmosfere magmatiche per direzioni di racconto impreviste. L’editore che ha curato questa silloge ha annunciato la ripubblicazione integrale di tutta la sua opera. E dunque attendiamo con vivo interesse quello che seguirà. Non una riscoperta ma una ulteriore valorizzazione.
data di pubblicazione:16/03/2021
da Antonio Jacolina | Mar 16, 2021
Il ritratto di un talentuoso sceneggiatore Herman J. MANKiewicz (Gary Oldman), la genesi di un capolavoro: Citizen Kane di un genio come Orson Welles, il mondo di Hollywood negli anni ’30 e ’40 ove si intrecciano arte, potere, denaro, ambizioni e frustrazioni…
Alla fine ha vinto Netflix? Ebbene… stante la realtà attuale, la risposta sembra essere: probabilmente sì! Come rifiutarsi di doverlo accettare quando la Piattaforma si presenta con ben 35 candidature fra i vari possibili prossimi Premi Oscar di quest’anno di “disgrazia” 2020/21 ?!? Un quadro reale, esaltante ed anche “sconfortante”, del potere di Netflix, e, contemporaneamente, anche dello stato di crisi in cui la pandemia ha fatto precipitare il Cinema e le grandi Produzioni e Distribuzioni. Al tempo stesso MANK è anche Cinema! Grande Cinema, splendido puro Cinema! un film che è una lettera d’amore affascinante e melanconica, creativa ed ammaliante di un cinefilo e di un grande Regista capace di evocare tutta la magia propria del Cinema: la tecnica, la fotografia, il montaggio, i dialoghi, la recitazione, la sceneggiatura.
Orson Welles non avrebbe dovuto vincere come cosceneggiatore l’Oscar per Citizen Kane nel 1942 perché, in realtà, lo script sarebbe da attribuire in toto ad Herman J. MANKiewicz (fratello del ben più famoso regista Joseph J. Mankiewicz). Vero? Falso? Leggenda? Difficile dirlo perché, si sa, un film è sempre frutto di molteplici collaborazioni. Figuriamoci poi quella con il vulcanico, egocentrico e creativo Orson!! Lo spunto dell’indagine ha offerto l’opportunità ad un regista di successo come David Fincher di focalizzare l’attenzione sulle atmosfere e le dinamiche di quegli anni fecondi del cinema americano: gli anni ‘30 e ‘40, e sulle grandi personalità che lo hanno plasmato e rappresentato, e … più in particolare, proprio sulla figura di un uomo non facile, preso fra polarità contrapposte: MANK, un uomo di cuore e di talento ma anche un frustrato, un alcolizzato, uno scommettitore cronico, un brillante sceneggiatore con ambizioni letterarie e le sue battaglie nell’establishment dei grandi Boss delle Majors, dei magnati della stampa come William R. Hearst che tutto e tutti manipolano e, non ultimo, anche un omaggio al genio di Orson Welles.
Con questa sua 11° opera Fincher ha conseguito in pieno il suo obiettivo riconoscere i meriti di colui che ha permesso di realizzare Citizen Kane, un film ancor oggi considerato come uno dei più perfetti ed innovativi di tutti i tempi. L’autore con brio e con emozione ci racconta infatti come fra sentimenti autodistruttivi, immobilizzato da un incidente, pressato da problemi economici ed alcolismo Mankiewicz, in poco tempo ed in quasi isolamento forzato, riesca a scrivere il suo capolavoro ed a consegnarlo ad un folle visionario come Welles che, a sua volta, lo fa suo con pari genialità. Ristabilendo la sua verità Fincher realizza in realtà uno dei più bei film di quel tipico genere hollywoodiano in cui Hollywood si mette sotto i riflettori rappresentando se stessa ed il mondo del cinema negli anni del Mito ( si vedano, per citarne alcuni: È nata una stella 1937/ Viale del tramonto 1950/ Il bruto e la bella 1952/ I protagonisti 1992). Una ricostruzione iperrealista degli anni d’oro. Perfetta la scenografia, gli ambienti, gli arredi, i decori e la restituzione dei personaggi stessi. Una ricostruzione che rievoca non solo i rapporti spesso conflittuali del talentuoso MANK ma anche i falsi valori diffusi dalla “Fabbrica dei Sogni”, le atmosfere politiche, il Potere, la Stampa, la Politica, tutte intrecciate e colluse con il business del cinema. Impegno di ricerca e capacità di riproposizione fedele di un mondo ed impegno cinefilo che porta Fincher a realizzare un film con le stesse tecniche usate da Orson Welles e dai suoi direttori per la fotografia: uno stupendo bianco e nero, le stesse atmosfere espressioniste per alcune sequenze, giochi d’ombra, un ritmo a spirale fra passato e presente con uso sapiente dei flashback , campi e controcampi, alcuni giochi focali deformanti le immagini che ripropongono, per chi lo sa, quelli che fecero scalpore quando usati allora per la prima volta. Dialoghi pungenti e cesellati, tempi e montaggio serrati, rapidi ed incisivi. Il tutto gradevolmente molto “Wellesiano”. Fincher governa il film con forza, amore e maestria all’interno di uno spartito perfetto. Veramente un grande cineasta che rende omaggio ad un Genio, alla sua epoca ed alla Settima Arte, senza mai eccedere. Uno splendido film che rende omaggio ad un capolavoro. Punto di forza, fra gli altri, è poi anche la recitazione degli attori tutti, in primis del sempre più bravo Gary Oldman, ingrassato oltre misura ed impressionante nell’identificazione dei dolorosi tratti umani dello sceneggiatore. Tutti recitano, va sottolineato, come recitavano le star degli anni trenta, vale a dire massima centratura sulla dizione più che sulla evidenziazione emozionale interiore … Marlon Brando ed il metodo erano ancora lontani da venire!
Un bel film che aumenta come mai la nostalgia per la sale cinematografiche ed il piacere del grande schermo!
data di pubblicazione:16/03/2021
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da Antonio Jacolina | Mar 10, 2021
Madeleine St. John nata in Australia ma vissuta a Londra è stata una scrittrice che ha scritto solo 4 romanzi, ha esordito tardi: a 52 anni, ed è scomparsa nel 2006 all’età di 64 anni. E’ stata riscoperta dopo la sua morte ed è oggetto ancor oggi di un vero e proprio culto nel mondo letterario anglosassone. In Italia era sconosciuta, Garzanti, con un’operazione editoriale meritoria ha però provveduto a curarne la traduzione e, dopo la positiva accoglienza (l’anno scorso) del suo lontano romanzo d’esordio Le Signore in Nero (1993), pubblica ora questa sua “opera seconda” scritta ed uscita nel 1996, sperando di bissare il successo.
La scrittura della St. John è scorrevole e semplice, molto semplice fatta di dialoghi serrati, battute ironiche e periodi brevi ma piacevoli, così come scorrevoli, piacevoli ed, in fondo, molto semplici sono anche le sue storie. Lineari, tranquille quali che siano i fatti narrati, e, proprio per questa loro normalità arricchita da un grazioso humour britannico, sono storie che si fanno apprezzare e ci regalano dei sorrisi e dei bei momenti di lettura.
Siamo a Londra, a Notting Hill: anni ’90, i protagonisti sono una coppia sposata con figli ed i loro amici, tutti della “middle-class”, tutti vagamente snob, ben inseriti professionalmente e senza problemi economici. Le loro vite confortevoli scorrono normalmente fra il lavoro, le vacanze, i figli, le amicizie, le relazioni amorose anche quelle extraconiugali. Perché questa è la Vita. La Vita di tutti i giorni con le varianti dei compromessi, dei sotterfugi, della pazienza, delle relazioni e degli adultèri. Il Quotidiano ci allontana infatti dalla “Vita Perfetta” che desideriamo e che invece non esiste, non può esistere, perché la Vita Reale è fatta di sogni, illusioni, trasgressioni, occasioni, infatuazioni, disagio esistenziale ed anche egoismi e meschinità. Da una parte l’egocentrismo e la dipendenza degli uomini, dall’altra la solidarietà, l’autonomia e la forza delle donne; la confusione fra l’idea di Amore e l’attrazione fisica ed i compromessi della vita di coppia ed il bisogno di stabilità.
Assolutamente mai degli stereotipi come potrebbe sembrare, ma piuttosto una rappresentazione garbata e delicata della vita reale con il gradevole tocco tutto british: dell’understatement e del paradosso dello humour che addolciscono la realtà che, l’abbiam detto, non potrà mai essere perfetta, ragionevole o coerente, né tantomeno delicata. Una Donna Quasi Perfetta è dunque una storia leggera, quasi paradossale, una “commedia familiare” sottilmente ironica, apparentemente banale e superficiale ma in cui invece i tratti psicologici dei fatti e dei personaggi sono ben definiti nel profondo sia pure con pochi e lievi tocchi, uniti ad un velo sottile, sottile di femminismo e di malinconia introspettiva, quasi come un leggero e gradevole retrogusto che dà un tono alla vicenda. Non è un libro al femminile, tutt’altro! Ma, di sicuro è come una garbata parentesi di una tazza di tè in un servizio di porcellana con pasticcini alle 5 del pomeriggio fra simpatiche confidenze e chiacchiere apparentemente banali: very british, very stylish! Potrà piacere! Potrà però anche dispiacere a coloro che amano invece un bel boccale di birra al pub e le emozioni ed i sapori definiti!
Il conforto si può comunque trovare sia in una tazza di tè sia in un boccale di birra, occorre solo saperlo cogliere, pur nella transitorietà della vita, degli amori e dei piaceri.
data di pubblicazione:10/03/2021
da Daniele Poto | Mar 9, 2021
Una chicca letteraria di difficile reperimento ma di assoluta soddisfazione nel minimalismo di una chiacchierata (che non è un’intervista) maturata dopo una serata piuttosto alcolica. La ritrosia di Bernhard viene meno di fronte alla reiterata insistenza di un giovane giornalista in ascesa, in odore di amicizia. Tanta è la caducità del momento che successivamente lo scrittore austriaco negherà il diritto alla pubblicazione che sarà acquisito solo molti anni dopo la sua morte portandoci dentro il privato e l’intimo di uno scrittore contro, perennemente contestativo nei confronti della società in cui vive anche grazie a esperienza polimorfe di nascita e di crescita culturale. Bernhard non è stato mai così vero e psicologicamente nudo come in questa occasione, con il vino ingerito, a provocare un’apertura di credito inusitata all’interlocutore, vista anche la sua cronica diffidenza verso i media e i mezzi di comunicazione. Quindi si rende un grande servizio all’esegeta con la possibilità di addentrarsi in questo scrigno di rivelazioni e di confidenze. Peraltro non c’è ombra di gossip perché gli interrogativi di Hamm fioccano numerosi e naturali senza un copione preciso, così sull’onda di una confidenza sempre più spinta. Non dobbiamo apprendere segreti ma possiamo addentrarci all’interno del magma introspettivo di un autore che ha bisogno di essere stimolato, un introverso che nell’occasione propizia si svela con generosità. E parlando all’amico, senza la sensazione di essere stimolato per una pubblicazione rivolta al grande pubblico. Così parlando della vita di tutti i giorni si finisce con l’approfondire il carsico problema della morte e della legittimità latente del suicidio. Si discetta di Pascal, di filosofia, dell’adolescenza, del mancato riconoscimento nella società contemporanea. La trascrizione segue di quasi quaranta anni il dialogo dal vivo, ripreso da un registratore. I giudizi di Bernhard nel bene e nel male sono taglienti. Come la predilezione per Artaud e lo scetticismo su Brecht. Ed è oltremodo divertente la storia della sua gavetta come cronista giudiziario, con margini d’invenzione rispetto alle reali vicende penali.
data di pubblicazione:09/03/2021
da Paolo Talone | Mar 7, 2021
(Teatro Quirino – Roma, 5 marzo 2021)
Si alza un coro di voci a dire che il teatro Quirino vive! A un anno esatto dalla chiusura dei teatri per la pandemia, si celebrano i 150 anni dalla fondazione del teatro diretto dall’attore e regista napoletano Geppy Gleijeses.
Richiama un numeroso pubblico l’iniziativa Le voci di dentro promossa dalla direzione del Teatro Quirino Vittorio Gassman per ricordare i 150 anni dalla fondazione della sala teatrale romana. A sera il marciapiede di via delle Vergini, dove ha sede il teatro, si riempie del vociare di amici e affezionati, ma anche di passanti incuriositi e soprattutto degli addetti ai lavori, attori e tecnici, da un anno fermi con il loro lavoro causa pandemia. I protagonisti per un evento dal vivo ci sono tutti, ma la possibilità di poter assistere a un’azione teatrale è negata ancora dalla velocità con la quale il numero dei contagi accelera proprio in questi giorni. Sfuma la possibilità di una riapertura il 27 marzo prossimo, data fissata in accordo con il CTS del Ministero della salute per le strutture che si trovano in zona gialla. La sala, che ha una capienza massima di 850 posti, può ospitare fino a 200 spettatori: troppo pochi per assicurare tutte le spese che un evento dal vivo richiede, afferma l’amministratore delegato Rosario Coppolino. Per ora nella grande sinfonia della scena culturale si osservano battute di silenzio. Ma è un silenzio tutt’altro che inoperoso. Il teatro Quirino è tra i principali animatori dell’Atip, l’associazione che raccoglie le istanze delle realtà teatrali private presenti sul territorio italiano. Sorta a maggio dello scorso anno – ricorda Coppolino – raccoglie oggi in un’unica voce circa quaranta membri tra produzioni e teatri privati. In continuo dialogo con le istituzioni e proiettata a svolgere la sua attività anche dopo la fine della pandemia, l’associazione è un riferimento importante per chi non gode di sovvenzioni pubbliche ed è costretto a fare leva esclusivamente sulle proprie forze.
Potenti sono invece le voci che nel frattempo riempiono lo spazio urbano intorno al teatro. Un’antologia sonora di brani recitati e cantati da indimenticabili interpreti che hanno solcato le tavole del palcoscenico del Quirino. Si attinge al passato, ai testi della grande letteratura teatrale e poetica, da Pirandello a Shakespeare, passando per Euripide e Leopardi. Si distinguono la voce di Vittorio Gassman che recita A Silvia e quella di Carmelo Bene nel monologo Ecco, si spegne il lume di Donato Renzetti; Mariangela Melato viene ricordata nella Medea e Franca Valeri con L’attrice famosa; Dario Fo recita la celebre scena di papa Bonifacio VIII contenuta nel suo Mistero Buffo e i pirandelliani Berretto a sonagli e Pensaci Giacomino vengono evocati rispettivamente da Turi Ferro e Salvo Randone. Un’aria di festa si crea quando vanno in diffusione le celebri note di musiche come Tanto pe’ cantà nell’interpretazione di Ettore Petrolini, che proprio al Quirino tenne il suo ultimo spettacolo, Quanto sei bella Roma cantata da Anna Magnani e E va’ e va’ di Alberto Sordi. Si torna indietro per ricordare e caricare quella molla che è pronta a scattare nel presente, con brani registrati dagli attori che sono in attesa di ritornare sul palcoscenico: Michele Placido recita il Canto dantesco di Paolo e Francesca; Alessandro Haber recita Bukowski. Geppy Gleijeses legge la poesia Lassammo fa’ a Dio, Enrico Solfrizzi il prologo dell’Enrico V e Mariangela D’Abbraccio, in un montaggio che la mette vicino al grande Eduardo De Filippo, è Filumena Marturano.
Certi che la creatività e la passione non si spengono nei momenti di crisi, attendiamo che la bellezza di queste voci si ricomponga con il suo legittimo corpo. Il corpo teatrale.
data di pubblicazione:07/03/2021
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