L’ULTIMO PROCESSO di Scott Turow – ed. MONDADORI 2020

L’ULTIMO PROCESSO di Scott Turow – ed. MONDADORI 2020

Fin dal suo folgorante debutto nel 1987 con Presunto Innocente fu evidente che con Scott Turow era arrivato sulla scena letteraria un vero Maestro del genere poliziesco, o, meglio ancora, il vero padre del sottogenere del “Legal Thriller” colui che ha definito le regole del “Giallo Giudiziario”, vale a dire di quel tipo di romanzi che, come i suoi, possedevano un sottotono cupo e malinconico, un plot intrigante, un coinvolgente mistero centrale, notevole suspense e, soprattutto, elettrizzanti e coinvolgenti scene di dibattimento in aula di tribunale. Storie di uomini e di donne le cui vite sono segnate dal loro affidarsi alla Legge ed al dibattimento giudiziario tra incerte verità ed incerti valori morali nella ricerca della Giustizia, sempre ed inevitabilmente imperfetta.

La quasi immediata trasposizione sugli schermi del suo primo libro con un film di grande successo con Harison Ford e la splendida Greta Scacchi, contribuì, da subito, a dare al nostro scrittore una popolarità definitiva.

Sulla sua scia, nel “legal thriller” si sono poi infilati, senza mai però superarlo, emuli di successo come John Grisham, Michael Connely, Steve Martini e Richard N. Patterson, autori tutti con diversa prolificità, diversi ritmi e vivacità e con storie molto più dinamiche e variegate, ma, al contempo, anche autori con una qualità ed una capacità di scrittura molto più incostante di quella di Turow. Quest’ultimo infatti, in quasi 40 anni ha scritto solo dieci romanzi e, più che alla dinamicità delle sue storie ha centrato tutto il suo talento nella profondità dell’analisi introspettiva dei suoi personaggi e nella veridicità e nello sviluppo del plot e soprattutto dei dibattimenti in aula.

L’ultimo processo è ambientato, ancora una volta, nell’immaginaria Kindle County e segue il ritorno ed al tempo stesso il commiato dell’avv. penalista Sandy Stern che, quasi come un alter ego o proiezione letteraria dell’autore stesso, è stato sempre presente fin dal primo romanzo, a volte in ruoli marginali, a volte in ruoli più significativi. Questa volta è invece al centro della scena, in un processo non facile che sarà il suo addio alla professione perché ha ormai 85 anni, due volte vedovo e sopravvissuto ad un cancro. L’avvocato scende in campo a difesa di un amico di famiglia (medico, ricercatore, e premio Nobel per la sua scoperta sul cancro) accusato di omicidio, frode ed insider trading. Turow con la sua talentuosa capacità ci racconta una storia di debolezza umana, di avidità, di rivalsa, di disonestà intellettuale, di invecchiamento. Un romanzo sulla complessità e difficoltà di arrivare a formulare un giudizio alla ricerca della Verità e della Giustizia. Nessuno come l’autore ha saputo e sa infatti illuminare il lato umano sottostante l’applicazione della Legge.

Tuttavia qualcosa non va, forse anche l’autore come il suo avvocato sta perdendo smalto e lucidità! Turow, pur continuando a scrivere, come sempre, con mano esperta, sembra aver perso la connessione con i suoi lettori. La storia principale ahinoi è purtroppo prevedibilmente scontata, poco avvincente e tirata un po’ troppo per le lunghe e così anche le due/tre sottostorie di supporto. I personaggi sono freddi, privi di vitalità e passione e poco coinvolgenti. E’ pur vero che si tratta di un giallo atipico da aula giudiziaria, incentrato, salvo qualche raro momento, solo su ciò che avviene durante il dibattimento davanti al giudice e quasi nessuno spazio è lasciato a ciò che precede ed accompagna il processo, ma questa volta manca del tutto la suspense ed ogni effetto avvincente. Il risultato è un romanzo che è schiacciato da un eccesso di tecnicismi, di norme procedurali, di verbosità e di dettagli che rallentano il ritmo, distraggono e annoiano nella loro ripetitività i lettori, anche quelli esperti od appassionati di procedure legali.

Il “legalese” ha forse preso la mano all’autore ed a tratti la vicenda sembra arrancare e si stenta parecchio a riconoscere il Turow che ci si attendeva o che si desiderava.

data di pubblicazione:24/10/2020

UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

(Teatro Argentina – Roma, 17/25 ottobre 2020)

Scrittura norvegese fedelmente riportata su un palcoscenico italiano. Sentore di Ibsen in dialoghi sempre spezzati, allusivi e metaforici. Largo uso degli spazi e degli oggetti. Un esperimento che attizza la curiosità anche se non centra un risultato pieno e indiscutibile.

Nella strana stagione dei teatri quello di Roma si cimenta con un assemblaggio che potremo definire sperimentale. Forse in altri tempi, di maggiori certezze, una proposta come quella di Lygre, mediata da Bisordi, non sarebbe arrivata in cartellone. Novanta minuti per un tentativo tutt’altro che facile e di difficile metabolizzazione. La roba, i soldi, la materialità sembrano circoscrivere un mondo abbandonato dal protagonista che ha varato una città modello e dopo trent’anni di creazione e gestione, muore lasciando conflitti insanabili tra il fratello. La misteriosa sorella (solo di lui), l’ex moglie e una figlia venuta dal nulla. I personaggi si agitano, si spogliano e si rivestono e sono disposti a qualunque compromesso pur di non rinnegarsi. Non a caso l’ex consorte è disponibile a una allusiva fellatio finale pur di conquistare buste di denaro. C’è un gioco di inscatolamento del teatro dentro il teatro. Perché tutti potrebbero essere delle figurine messe in mostra dall’architetto solo apparentemente deceduto. Non a caso la battuta che ricorre più frequentemente in scena e: “Non sto recitando!”. Come si intuisce non è facile la metabolizzazione di una possibile storia lineare perché qui domina l’ambiguità e la ferinità dei comportamenti. Il pubblico, tutt’altro che numeroso, sembra sommamente gradire. C’è il disegno dell’’utopia e c’è anche il misterioso destino di esseri umani che sembrano aver delegato il proprio senso nel mondo a qualche altro. Lygre fa uso di una scrittura minimalista e graffiante. Un’occasione per scoprire al suo meglio un autore molto rappresentato nei teatri europei.

data di pubblicazione:21/10/2020


Il nostro voto:

PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

Un dramma vissuto direttamente ma attraverso la coscienza del fratello. Un laborioso e travagliato parto di sceneggiatura per una mayonese finale discretamente impazzita. Il terrorismo latita sullo sfondo come una scheggia ondivaga e senza credibili motivazioni. E lo sguardo dell’adolescente è un po’ troppo soggettivo per restituire un film equilibrato, maturo e coerente

 

Non basta la favorevole esposizione a una Mostra d’arte cinematografica, l’interpretazione del riconosciuto maggiore interprete del cinema italiano (Pier Francesco Favino si divide la leadership con Elio Germano e si cimenta anche come produttore, credendo nel progetto) per elevare il film alla dignità che l’incerta regia non si merita attraverso l’accatastamento di troppi materiali (familiari, generazionali) e con un margine di libertà che rende evanescente un pur minimo rispetto di una storia inevitabilmente dolorosa. Una pellicola con troppi buchi neri per essere giudicata favorevolmente. Che si distingue perché nella scena più drammatica della sparatoria piazza incongruamente la colonna sonora di Buonanotte fiorellino di De Gregori, un segno di rottura che disturba anche se introdotto come provocazione. Nel secondo tempo incongruamente lungo (circa un’ora e mezzo) la location si sposta in Calabria e regala maggiore vivacità tra bei scenari, la recita in dialetto di alcuni comprimari e l’evoluzione della storia. Che peraltro ha il merito di un ricongiungimento finale che sa di parziale riappacificazione con il passato. Noce non prova ad osare nel totale rivolgimento della storia che gli appartiene (il padre fu vittima di un attentato) e dunque rimane a mezza strada tra il film onesto e genuino e quello traviato da manipolazioni necessarie per un buon sviluppo di biglietteria. Molto del successo è caricato sulle spalle di Favino che non può fare il miracolo di salvare un’opera prima che ha tutti i difetti di un debutto. Chi maneggia il terrorismo senza un chiaro obiettivo finale rischia un deja vu, visti gli illustri precedenti, diremo soprattutto i film sul tema di Marco Bellocchio.

data di pubblicazione:19/10/2020


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EMILY IN PARIS di Darren Star – Netflix 2020

EMILY IN PARIS di Darren Star – Netflix 2020

La giovane Emily (Lily Collins), quintessenza dell’americana media, affettivamente appagata, entusiasta caratterialmente ed impegnata a far carriera in una società di marketing di Chicago, a seguito di fortuite circostanze è inviata a Parigi presso un’agenzia francese appena acquisita per fornire indirizzi ed indicazioni secondo il punto di vista americano. La candida fanciulla che non sa una parola di francese sfiderà la Francia ed i Parigini in un confronto/scontro di culture fra stereotipi zuccherosi ma mai stucchevoli.

Darren Star sceneggiatore e regista dal tocco magico, creatore di serie di successo come Beverly Hills (1990-2000) e Sex and the City (1998-2004), mischia abilmente un po’ di Sex and the City con un po’ di Il Diavolo veste Prada, un pochino di Amélie e tanta Aria di Parigi ed ecco che ci regala una gentile commedia romantica, leggera, leggera che si basa soprattutto su un confronto di culture, fatto di cliché sui pregiudizi che gli americani hanno sui francesi ed i parigini in particolare e sugli europei in generale. Il Vecchio Continente in contrasto con la frizzante giovane americana, il buon gusto e la raffinatezza che si scontrano con il cattivo gusto e la “simplicity girl”.

Forse i permalosi e suscettibili parigini possono aver ragione ad essere irritati nel vedersi descritti in modo quasi caricaturale: seduttori ed infedeli seriali, poco puliti, inaffidabili, ritardatari … ma, di contro, gli americani appaiono: egocentrici, sempliciotti, arroganti, ignoranti e dediti maniacalmente al lavoro. Una volta tanto fuori dal mirino delle critiche, per noi italiani il giochino di osservare e ridere dei difetti altrui può essere assai divertente.

Le produzioni di Darren Star possono certamente essere accusate di essere solo confezioni spumeggianti ed intercambiabili con un’immagine banale della femminilità moderna e del sesso, può pure darsi, ma, di sicuro, non sono mai noiose. Quest’ultima serie articolata in 10 episodi di soli 30 minuti, pur non avendo il mordente e l’irriverenza delle precedenti è però tecnicamente ben fatta, ben interpretata ed interamente girata a Parigi. Star astutamente usa infatti tutto il fascino di Parigi, bella quanto mai, come vera coprotagonista accanto ad una Lilly Collins che con la sua freschezza ed il suo fascino sbarazzino rende tutto lo spirito frivolo di questa piccola commedia che si può gustare con piacere così come si possono gustare con piacere un buon caffè ed un croissant seduti in un caffè all’aperto di Montmartre o sui Grands Boulevards.

Direi non poco, riuscire a distrarsi con stile ed eleganza in un anno come il 2020!

data di pubblicazione:17/10/2020

BANKSY – l’arte della ribellione di Elio Espana

BANKSY – l’arte della ribellione di Elio Espana

Una ricostruzione, sia pur frammentaria, della vita e della carriera artistica di Banksy, uomo di strada che fa arte come atto di ribellione contro l’establishment in generale e, più in particolare, contro ogni forma di cultura preconfezionata per una ristretta élite di (pseudo)intenditori. Un documentario in cui vari street artist spiegano come da una espressione artistica spontanea, ai limiti della legalità, possa nascere un movimento mainstream che ha letteralmente sovvertito il concetto stesso di arte, così come finora lo avevamo concepito.

 

Per chi desidera avvicinarsi a Banksy, prima come uomo e successivamente come artista, è certamente impresa non facile visto che nessuno, a parte i suoi amici e collaboratori più stretti, conosce la sua vera o presunta identità. Di lui si sa poco e precisamente che si è formato sulla scena underground di Bristol dove verso la fine degli anni Novanta era attivo, insieme ad altri, nella realizzazione di graffiti. Questi disegni, realizzati per lo più con bombolette spray, erano ritenuti illegali perché invadevano e imbrattavano i muri cittadini con raffigurazioni e slogan spesso a sfondo satirico o di rivolta contro la politica e ogni altra forma di potere istituzionalizzato. I cosiddetti “artisti di strada” mettevano a disposizione di tutti il proprio talento senza chiedere o pretendere un riconoscimento sociale, regalavano praticamente una forma di cultura popolare: un’immagine accessibile anche ai meno colti, fruibile in ogni momento perché la si trovava per strada mentre ci si avviava a lavoro o si andava a fare la spesa. Un’arte quindi che non necessitava di un contenitore museale per farsi riconoscere, che era a portata di tutti e che rigettava qualsiasi etichetta che ne potesse in qualche modo definire o limitare la portata sovversiva. Attraverso la testimonianza diretta di alcuni amici di Banksy, tra i quali Steve Lazarides, suo braccio destro e promotore, e Ben Eine, suo diretto collaboratore, vediamo come nasce e si sviluppa il suo percorso artistico partendo dai graffiti ed evolvendosi poi in altre forme di pop art, soprattutto mediante l’uso dello stencil e la realizzazione di sculture in resina polimerica dipinta o in bronzo verniciato. Dalla sua formazione di base, Banksy intende portare avanti un messaggio di giustizia e di libertà sociale, proprio nel contesto di oggi in cui tutto è sacrificato dall’attività dei magnati dell’economia e da politici corrotti. Famose le figure dei suoi ratti, grandi topi neri che invadono le strade proprio per indicare che una massa di artisti, appartenenti ad una certa sottocultura proletaria, sta per emergere per dire la sua contro ogni forma di manipolazione intellettuale. Il fenomeno oggi è inarrestabile: le opere di Banksy non le troviamo nei musei ma hanno assunto quotazioni stellari e vengono battute da Sotheby’s a Londra anche un milione di sterline. In ogni parte del mondo vengono organizzate mostre con opere sue che, inserite in contesti particolari, costituiscono per i visitatori dei veri e propri happening dove si possono anche visionare animali viventi di tutti i generi dipinti con colori psichedelici. Un atto trasgressivo? Intanto limitiamoci ad osservare il fenomeno mentre lui, l’artista ignoto più famoso del mondo, si diverte probabilmente alle spalle di una umanità ingenua, disposta ad investire acquistando a caro prezzo i suoi lavori. Per chi volesse approfondire, si segnala che è in corso una sua personale al Chiostro del Bramante a Roma fino all’11 aprile 2021. Il film-evento invece, prodotto da Spiritlevel Cinema, studio indipendente fondato da Tom O’Dell e dallo stesso regista Elio Espana, è distribuito da Adler Entertainment ed andrà nelle sale il 26, 27 e 28 ottobre.

data di pubblicazione:16/10/2020

PROGRAMMA ALICE NELLA CITTA’- FESTA CINEMA ROMA

PROGRAMMA ALICE NELLA CITTA’- FESTA CINEMA ROMA

Si svolgerà a Roma dal 15 al 25 ottobre 2020, nel quadro della Festa del Cinema, la XVIII edizione di Alice nella Città, la sezione autonoma dedicata alle giovani generazioni diretta da Gianluca Giannelli e Fabia Bettini e organizzata dall’Associazione Culturale PlayTown Roma. Quest’anno alle sale dell’Auditorium Parco della Musica e del Cinema Caravaggio, si aggiungerà l’Auditorium de La Nuvola di Fuksas all’EUR, che si aprirà per la prima volta al cinema.

Da sempre attenta ai temi legati alle giovani generazioni, Alice nella Città presenterà un programma di anteprime assolute, esordi alla regia e proposte originali. 11 + 1 le opere del Concorso Young Adult, 7 Eventi Speciali, mentre il Fuori Concorso raccoglie 5 film con una forte attenzione al cinema del reale. Novità di questa edizione la sezione Sintonie pensata in collaborazione con Venezia 77 che raccoglierà 6 film della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2020. 4 serie tv, 3 restauri e 26 cortometraggi (10 in concorso, 14 fuori concorso, 2 eventi speciali) selezionati in collaborazione con Premiere Film.

Saranno 11+1 (l’ultimo titolo verrà annunciato nel corso della conferenza stampa della Festa del Cinema di Roma) i film a partecipare al Concorso Young Adult, votati da una giuria composta da 15 ragazzi e ragazze selezionati su tutto il territorio nazionale.

I film in programma abbracciano generi e paesi d’origine diversi e spingono lo sguardo intorno al mondo, come il visionario Gagarine, l’opera prima di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh che attraverso gli occhi di Yuri (l’esordiente Alseni Bathily) mette in scena, nella mente fantasiosa e libera di un adolescente delle banlieue parigine, l’Odissea nello spazio di un astronauta urbano che si oppone alla cancellazione del suo mondo e della sua comunità.

Uno spunto ideale anche per Francesca Mazzoleni che con il documentario Puntasacra svela l’incertezza, la speranza e il senso di appartenenza a una comunità che afferma il proprio diritto di vivere in un luogo abbandonato che tuttavia ama profondamente. Una frontiera dimenticata di Roma da sgomberare per fare spazio alle magnifiche sorti del Porto Turistico di Ostia. Semplice e commovente, la storia di Stray accompagna il pubblico in luoghi apparentemente impossibili, rimanendo fortemente radicata nella realtà. Ibrahim di Samir Guesmi, interpretato da Abdel Bendaher. mette in scena tutta la tenacia dell’innocenza attraverso l’immaginario di personaggi persi tra finzione e realtà, come nella favola noir Shadows di Carlo Lavagna che torna dietro la macchina da presa con una produzione italiana interamente girata in lingua inglese.

Felicità di Bruno Merle è una commedia vista attraverso gli occhi di una bambina (Chloe), interpretata da sua figlia Rita, ricca di dettagli vissuti che ruotano attorno a una relazione padre-figlia che diventa un’àncora di salvezza emotiva. Un lavoro di scavo sui rapporti familiari reso prezioso dal nuovo film di Miranda July Kajillionaire, con i codici della commedia dell’assurdo, tiene insieme cose tra loro altrimenti diverse: parla d’intimità e abbandono, di personaggi in cerca di una rotta. Scaccia la morale per cui nella famiglia si trova la soluzione di ogni problema e mette al centro il talento, tutto al femminile, di un cast d’eccezione (Debra Winger, Richard Jenkins, Evan Rachel Wood, Gina Rodriguez).

Rémy Chayé, dopo il successo di Sasha e il Polo Nord, torna con il film d’animazione Calamity, al racconto d’avventura e lo fa con una storia ispirata all’infanzia di Calamity Jane, pseudonimo di Martha Jane Cannary, un’avventuriera del selvaggio West che sfida le tradizioni conservatrici, mettendo a fuoco lo spirito di sopravvivenza di una ragazzina. In Slalom di Charlène Favier (interpretato da Jérémie Renier Noée Abita) lo sport diventa il mezzo per indagare un mondo di pulsioni, talvolta segreto e nascosto, che mostra tutte le ambivalenze e le ambiguità del mondo adulto; in Tigers di Ronnie Sandahl, tratto dal romanzo autobiografico In the Shadow of San Siro di Martin Bengtsson, il rigore, la disciplina, l’autodisciplina e il duro lavoro sono ostacolo alla libertà; nel film Nadia, butterfly di Pascal Plante emerge la necessità di abbandonare le richieste sociali, gli obblighi famigliari, i destini già decisi per essere se stessi. Un’indagine che sembra insistere su quel momento speciale in cui la mente e il corpo inizia a farsi contaminare da altre tracce.

Il programma del Fuori Concorso quest’anno punta sulla scoperta e sulla valorizzazione del giovane cinema italiano. Documentari, film mai usciti in sala per il grande pubblico o passati velocemente in un festival. Sono 5 i film che comporranno la selezione che presenta temi a contrasto, mostrando la forza di una realtà che non   è mai semplice spettacolo. Movida, opera prima di Alessandro Padovani è uno sguardo vitale e inedito sui giovani della provincia bellunese. Un docufilm di poche parole e molte suggestioni, reale e poetico allo stesso tempo. Filmati che con un montaggio veloce di volti, paesaggi, neve, tramonti, matrimoni, corse d’auto, bambini che giocano, persone che ridono, testimoniano con immediatezza e sincerità, e senza alcuna retorica, che in quei territori un tempo c’era una vita felice e piena. Un’autentica piccola sorpresa.

Concreto, fisico, corporeo il documentario di Michele Pennetta Il mio corpo, mentre c’è nella forza del racconto personale di Alexis, studente talentuoso e orgoglioso della National Ballet School di Cuba, in Cuban dancer di Roberto Salinas, un flusso energetico dirompente che tutto travolge.

Climbing Iran di Francesca Borghetti, offre una riflessione audace, anche se sottile, sull’esperienza delle donne nella società iraniana. Nasim, alpinista e free-climber, con mani molto forti e unghie dipinte di smalto rosa shocking, è capace di aprire nuove vie sulla roccia e sulle montagne culturali del suo Paese. C’è anche nel film di Chiara Bellosi, Palazzo di Giustizia, la voglia di andare oltre lo sguardo cinematografico delle inquadrature, per cercare quelli che rimangono fuori campo e all’esterno dell’aula, di cui il film racconta la solitudine. A prestare il volto ai vari protagonisti un cast formato da attori professionisti e non, in cui Daphne Scoccia (Fiore) e Andrea Lattanzi (Manuel) accompagnati dall’esordiente Sarah Short, ne sono l’anima.

Come di consueto tornano ad Alice le grandi anteprime. Ad aprire il programma degli Eventi Speciali sarà il film Trash, il cartoon tutto italiano di Luca della Grotta e Francesco Dafano che vuole unire divertimento ed educazione civica per far riflettere grandi e piccoli su un tema centrale per la salvaguardia del nostro pianeta: il corretto riciclo dei rifiuti. Il film uscirà in sala il 16 ottobre e sarà accompagnato dalle musiche di Raphael Gualazzi.

In The specials Éric Toledano e Olivier Nakache portano sul grande schermo una storia delicata e commovente, che dosa sapientemente risate e lacrime. I due protagonisti sono ispirati a due operatori realmente esistenti: Bruno è David Benhamou, direttore dell’associazione Le silence des Juste, mentre Malik è Daoud Tatou, direttore dell’associazione Le Relais Ile-de-France. Nel film Bruno ha il volto di Vincent Cassel, mentre Malik ha quello di Reda Kateb. Il film uscirà a fine ottobre.

Il futuro siamo noi, diretto da Gilles de Maistre (Mia e il leone bianco), è un documentario che racconta la storia di un gruppo di bambini, che insieme combattono per opporsi alla violenza. Sono José, Arthur, Aïssatou, Heena, Peter, Kevin e Jocelyn, tutti giovanissimi, eppure non troppo piccoli per reagire alle ingiustizie. Dimostrando il loro coraggio sono diventati un esempio per i loro coetanei, ai quali hanno raccontato il loro punto di vista sul lavoro minorile, sullo sfruttamento, sui matrimoni forzati, sui danni ambientali e sulla povertà nel mondo. Il film ha ottenuto il patrocinio di Unicef e uscirà nelle sale il 19 novembre in occasione della giornata mondiale dell’infanzia.

L’esordiente Alice Filippi presenterà Sul più bello il teen dramedy prodotto e distribuito da Eagle Pictures, con un cast di giovanissimi e promettenti attori italiani. Ad interpretare la protagonista Marta è la romana Ludovica Francesconi, al suo esordio al cinema dopo qualche esperienza in teatro. L’inarrivabile Arturo, invece, è Giuseppe Maggio, noto per il ruolo di Fiore nella serie TV di Netflix Baby. Il film, tratto dall’omonimo libro è stato adattato in sceneggiatura a Roberto Proia e Michela Straniero e sembra voler seguire la scia di un genere poco realizzato in Italia ma di gran successo in tutto il mondo. Il film uscirà nelle sale il 21 ottobre.

A chiudere la programmazione Family il nuovissimo cortometraggio dei Walt Disney Animation Studios, La storia di Olaf. Le origini di Olaf, l’innocente e profondo pupazzo di neve amante dell’estate che ha fatto sciogliere i cuori nel film di animazione premio Oscar del 2013 Frozen – Il Regno di Ghiaccio e nel suo acclamato sequel del 2019, vengono rivelate con le voci italiane di Enrico Brignano (Olaf), Serena Autieri (Elsa) Serena Rossi (Anna).

data di pubblicazione:14/10/2020

UNDINE – Un amore per sempre di Christian Petzold, 2020

UNDINE – Un amore per sempre di Christian Petzold, 2020

Undine è impiegata come guida presso un importante museo di Berlino e il suo lavoro consiste nell’illustrare ai turisti lo sviluppo urbano della città, a partire dalla sua fondazione e fino ai giorni nostri. Quando il suo fidanzato Johannes le comunica che si è innamorato di un’altra e sta per lasciarla, la ragazza risponde con la minaccia che, se verrà abbandonata, non esiterà ad ucciderlo.

 

Christian Petzold è un regista e sceneggiatore tedesco: ha alle spalle un discreto curriculum come cineasta ed è abbastanza noto anche nel nostro Paese, specie dopo che nel 2008 si distinse alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con Jerichow. Nel 2012 vinse a Berlino l’Orso d’Argento per la miglior regia con il lungometraggio Barbara, mentre nell’ultima edizione della Berlinale ha presentato in concorso Undine ,di cui ne ha curato anche la sceneggiatura.

Il film trova ispirazione nel mito prettamente classico della ninfa Ondina, creatura leggendaria, acquatica e di natura normalmente benevola, incline a cambiare d’umore, divenendo implacabile, se tradita o umiliata. Questo è anche il caso della protagonista del film (Paula Beer, premiata per questo film con l’Orso d’Argento come migliore attrice), che una volta abbandonata dal suo ragazzo (Jacob Matschenz) dichiara apertamente che lo punirà con la morte. A distoglierla dal suo sciagurato intento appare inaspettatamente Christoph (Franz Rogowski): la ragazza sembra essere conquistata dal carattere mite e remissivo del giovane e tra i due inizia una relazione, semplice ma intensa.

Il film oscilla tra la fiaba e il thriller con elementi che via via ci portano al soprannaturale: quest’ultimo tratto non disturba affatto, anzi, sembra essenziale per catturare l’attenzione, contribuendo altresì a mostrare il talento del regista, che riesce a bilanciare i vari aspetti della storia, affrontando il rischio di raccontare una favola che trova fondamento nella mitologia greca. Il risultato ottenuto è sicuramente positivo e il film si lascia seguire con interesse, grazie anche ad interpreti d’eccezione.

Al di là di qualche piccola lungaggine, ci troviamo di fronte a un lavoro sicuramente ben confezionato, che segue una trama con un tocco di fiabesco sentimentalismo che tutto sommato non guasta, anche perché, in fondo, la storia raccontata trova fondamento nella reale vita quotidiana, fatta di amori che nascono per poi inevitabilmente morire.

data di pubblicazione:14/10/2020


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LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

Una grande ricchezza di proposte, un’enorme povertà di idee. La commedia all’italiana, riveduta e corretta nel nuovo millennio sembra una pallidissima e banale imitazione di quella che fu l’epopea dei Monicelli, Comencini, Risi e del sottovalutato Salce. Sembra aver preso la piega del tanto criticato cinema dei fratelli Vanzina. E ora che Carlo Vanzina non c’è più gli epigoni si sprecano. Finirà che i Vanzina si fregeranno dell’epiteto di “maestri”. Del resto non abbiamo grandemente rivalutato Totò e persino Franco Franchi e Ciccio Ingrassia? In questa rivisitazione estetica che considera persino Ultimo tango a Zagarolo non troppo inferiore all’originale, persino geniale di suo. Dobbiamo persino difendere Enrico Vanzina, massacrato per avere fatto uscire un film nel settembre del 2020 (Lockdown all’italiana) incurante dei 36.000 morti italiani. La commedia italiana dei Sordi e dei Gasmmann non ha forse attinto a episodi di cronaca ancora più acri, tipo la seconda guerra mondiale?

Così dovremmo berci la favola della riappacificazione tra Christian De Sica e Massimo Boldi e la quieta accettazione della filosofia di Vacanze di Natale? Il tema stra-gettonato delle “vacanze” sembra qualcosa che si addice perfettamente all’indole italiana. Le vacanze di Pasqua? Durano al massimo due giorni reali: due giorni però combinabili con un week end e dunque si allargano a una settimana. Quelle di Natale? Paralisi assoluta e per un vasto arco di tempo. Scriviamo dal 20 dicembre al 10 gennaio dell’anno successivo stasi completa delle attività produttive. E le vacanze, per tornare al tema di partenza, sono il ricettacolo repertoriale del cinema. Basta inventarsi un Paese molto diverso dal nostro, che so io il Brasile o Cuba per far sfoggio di provincialismo esotico dove l’italianuzzo dovrebbe essere mostrato per quello che è, cioè mostrato nella sua meschinità. Il Paese chiude per ferie ad agosto e si gode le sue feste e il cinema va appresso a questa eterna vacanza, anche del necessario collegamento neuronale. Le sceneggiature vivono su idee che ormai tendono allo stanco stereotipo, a misura di attori che, forse, sono troppo allettati da un guadagno rapido e sicuro. Senza una sceneggiatura sufficientemente strutturata è difficile “aggiustare” un film, anche se puoi contare su nomi e cognomi come quelli di Alessandro Gassmann, Gianmarco Tognazzi e Marco Giallini. Nonostante critiche infauste, però, Non ci resta che il crimine ha avuto anche un sequel e con lo stesso cast, forse spinti dalla forza dei 4,7 milioni riscossi al box office al primo tentativo.

Il cinema americano beninteso ha altri difetti, ma può appagarti per il budget, la spettacolarità, le musiche, gli ingredienti di una grande industria che può spendere e che prescinde da quel ristretto manipoli di sceneggiatori (sempre gli stessi) al servizio del botteghino. Non stiamo parlando di arte, ma già un efficiente artigiano sarebbe gradito.

Prendiamo Tiramisù con Fabio De Luigi uno e trino, nel ruolo di attore protagonista, regista e sceneggiatore. Il plot, come suggerito dal titolo, ruota attorno al tiramisù: un film con questa trama potrebbe bellamente trasmigrare in uno dei tanti programmi gastronomici dell’ex Belpaese. In Dieci giorni senza mamma lo stesso De Luigi è costretto a fare il papà a pieno tempo perché la moglie (bontà sua) ha improvvisamente deciso di concedersi una vacanza a Cuba con la sorella. Due ore di film per un’idea povera. Il Corriere della Sera commenta nella mini recensione: “Un film che gira a vuoto col pilota automatico inseguendo un copioncino smilzo, prevedibile, da sbadiglio”. Il bello è che la sceneggiatura non è neanche originale perché mutuata da un film argentino. Dunque si può essere banali anche copiando. A tre settimane dall’uscita Dieci giorni senza mamma va in testa al box office con un incasso parziale di 6,2 milioni e si prende un pezzo della fetta dei successi del Di Luigi che in 14 anni ha fatto incassare ai produttori 200 milioni di euro.

Claudio Bisio in due pellicole successive viene costretto a indossare i panni del Presidente della Repubblica prima e del Presidente del Consiglio dopo, mutuando una realtà che è molto più farsesca della pellicola stessa visto che le scialbe imitazioni di Mattarella, Salvini e Di Maio non valgono certo gli originali. In Benvenuto presidente è vano lo sforzo di vivacizzare l’assurdo sviluppo della story con un montaggio demenziale e con musiche esasperate. Peccato che si prestino all’accozzaglia Massimo Popolizio e Antonio Petrocelli, stimati attori di teatro che probabilmente per una piccola parte guadagnano come in sei mesi in giro per i palcoscenici italiani. Pensavamo comunque che i vertici di banalità delle sceneggiature a misura di De Luigi fossero inarrivabili, ed invece ci colpisce ancora di più la sinossi narrativa de La scuola più bella del mondo con Christian De Sica e Rocco Papaleo (il regista non vale neanche la pena di citarlo). “Il preside di una scuola media toscana pensa di invitare una classe del Ghana per uno scambio culturale; ma il bidello confonde la città di Accra con Acerra e così invita gli alunni di una disastrata scuola media campana con il loro bizzarro insegnante”: questo banale spunto diventa il pretesto per un film di 90 minuti. Una replica del “fatale errore” si ritrova in Sotto mentite spoglie dove già il titolo è un elogio del trash rispetto a una sinossi del plot che suona così: “Tommaso (Vincenzo Salemme) è un quarantenne napoletano felicemente sposato con Chicca (Lucrezia Lante della Rovere). Un giorno decide di mandarle un focoso sms che, per errore, arriva a Chiara (Luisa Ranieri), la moglie del suo migliore amico (Giorgio Panariello) che gli si butta tra le braccia”. Così una gag di cinque minuti da giocarsi in televisione tramuta in pellicola.

Il cinema italiano in quanto a mancanza di fantasia con uso e abuso dei format fa pari con la televisione. Il programma di Maurizio Crozza fa certamente ridere. Però quando leggi nei titoli di coda che le sue battute sono frutto del lavoro di sette autori (vale lo stesso per Fazio) l’ammirazione si auto-ridimensiona in un giudizio più sfumato e critico. Una battuta per uno degli autori per costruire una gag? Purtroppo anche attori di gran peso cadono nella tagliola di sceneggiature insipide. Leggete la sinossi di Moglie e marito, film in cui Pierfrancesco Favino: “Un neurochirurgo e una conduttrice televisiva sono sposati da dieci anni ma il loro matrimonio è in piena crisi e i due pensano di divorziare. Un giorno, in seguito a un esperimento scientifico, si ritrovano improvvisamente l’uno nel corpo dell’altro”. Sceneggiatura? Plot per una barzelletta piuttosto, al di là di ogni credibilità scientifica, estetica e narrativa. Persino la stimata Paola Cortellesi si erge a protagonista principale di Ma cosa ci dice il cervello firmato dal marito Riccardo Milani (“Matrimonio, ah quanti peccati cinematografici nel tuo nome”), che certo non è all’altezza della sue prove più riuscite. “L’attrice ha il ruolo di una grigia impiegata ministeriale che nasconde una doppia vita: è una superspia che attiva i propri poteri per vendicare le vittime di bulli, cafoni, prepotenti, interpretati da Stefano Fresi, Claudia Pandolfi, Paola Minaccioni, Remo Girone, Lucia Mascino, Vinicio Marchioni”. Un argomento banale, con la Cortellesi nelle vesti di angelo vendicatore senza essere L’Angelo vendicatore di Bunuel. Anche qui siamo lontani da una sceneggiatura degna di questo nome, attivando un cinema di serie B senza dignità, non scrivo di arte ma neanche di sufficiente artigianato. Povero quel cinema in cui il regista cerca di valorizzare la moglie (la compagna) dandole un ruolo a metà da 007 a metà tra Sean Connery e Lando Buzzanca. Qui la Cortellesi in effetti non è né carne né pesce. Non fa ridere e non emoziona, a metà strada tra trama e farsa in un crescendo di azioni improbabili. Come un gatto in tangenziale appare un gigante da Oscar rispetto a quest’ultima prova.

Un altro esempio di questa degenerata e residuale commedia all’italiana è I compromessi sposi, sequela di luoghi comuni e di stereotipate antinomie (nord-sud, destra-sinistra, proletariato-borghesia) scritta da Miccichè e contando sull’appeal dei due interpreti Salemme e Abatantuono. Tra cui, attorialmente, non c’è alcuna empatia. Eravamo già ben cosci del “buttarsi via” commercialmente di Salemme, speravamo invano in un guizzo d’orgoglio di Abatantuono, addirittura più vero quando interpretava il “terrunciello”.

Quanto a copiature di gag e batture, uno degli esempi più evidenti è offerto, ancora una volta, dalla televisione. Selvaggia Lucarelli ha mostrato con riferimenti e puntute pezze d’appoggio che praticamente tutti gli sketch imbastiti da Bisio-Raffaele-Baglioni in Sanremo 2019 sono stati ripresi da gag preesistenti, saccheggiando persino mister Bean e la satira americana. Qui- credo- che la Siae sia impotente. Eppure si tratta di Sanremo. Parliamo del più importante investimento della Rai nel corso di un anno. Parliamo di una Rai che ha sul groppone 24.000 dipendenti per una spesa via aziendale che sfiora il miliardo. No, non è la BBC, in quanto a qualità. I De Luigi e i Volo sono fenomeni di moda perché con i tanti (troppi) comici in circolazione l’arte del riciclo, aggiustando una battuta o i suoi tempi è un ricalco abituale, tanto che alla fine non sai più se la battuta originale sia di Brignano, Battista, Perroni, Giusti, Giuliani. Alla fine per saturazione non vedremo più neanche i film con Giallini e Gassmann. Se il primo per la regia del semisconosciuto Simone Spada si cimenta in Domani è un altro giorno, remake senza idee e guizzi di un fortunato film argentino. E se il secondo viene invalvolato in una relazione omosessuale con Fabrizio Bentivoglio nel solito scipito contrasto acculturato-ignorante. Derive che fanno persino rimpiangere i film delle Archibugi e delle Comencini o Ferie D’Agosto di Virzì. C’è però il lieto fine. Come tutte le coppie borghesi gli omosessuali impersonati da Gassmann e Bentivoglio si sposano e si baciano persino in bocca. Questo è l’edificante ed il politicamente corretto dei nostri tempi.

data di pubblicazione:14/10/2020

UN DIVANO A TUNISI di  Manele Labidi Labbè, 2020

UN DIVANO A TUNISI di Manele Labidi Labbè, 2020

Psicanalisi da altro continente. Un film che si riassume in un trailer come un libro non può tradursi in una barzelletta. Plot un po’ avaro. Le gag sopraffanno l’impianto complessivo del film la cui sceneggiatura risulta striminzita e un po’ monca. Sciupato un atout che avrebbe meritato più salda mano registica.

 

Opera prima che denota tutta l’inesperienza della regista in una pellicola di chiara impronta femminile. La restrittiva società tunisina fa fatica ad accettare il ritorno dalla Francia della trentenne psicanalista che apre un improvvisato studio nella capitale cercando di sbarcare il lunario. Trovando l’ostilità della famiglia e della burocrazia ma un gran numero di clienti. Interessante l’idea di trapiantare la scienza di Jung e Freud in un contesto chiaramente poco adatto ad accettarla ma è la resa che è carente. Il plot si sviluppa un po’ a tentoni con alcuni punti morti e troppi personaggi non perfettamente caratterizzati. Insomma manca un unificante punto di vista complessivo. E la psicanalisi, nonostante l’intreccio, è la parente povera del film perché solo accennata e mai illustrata coerentemente. Per dirla in romanesco si ha l’impressione che a volte la regista, non sapendo come andare avanti, “la butta in caciara” e giri un po’ a vuoto. Con questa debolezza strutturale l’attrice principale, Golshifteh Farahani, non è in grado di restituire credito all’opera con un proprio significativo valore aggiunto. La gamma delle sue espressioni, anche facendo credito al doppiaggio di un significativo handicap, è limitata. La conclusione che non spoileremo oltre che sorprendente è anche ingiustificata se non per la necessità di un consolatorio happy end. In definitiva un’occasione sprecata. Ci viene però restituita l’idea del lassismo un po’ pigro della socialità tunisina se non un brillante affresco della città che compare sullo sfondo e mai pienamente illustrata. I climi tesi della Primavera araba sono lontani dalle intenzioni brillanti di un film che va visto senza grandi aspettative. Billy Wilder ancora non ha degni epigoni in Tunisia.

data di pubblicazione:13/10/2020


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ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

Un film dall’atmosfera simenoniana con una fotografia sporca, scura. Con la maggiore parte delle scene che si svolgono di notte, mostrando il vero volto di una banlieu. Una pellicola che non è un giallo né un noir ma filtra un pezzo di antropologia delle tecniche investigative transalpine. Tenuto in frigo per il coronavirus ed ora coraggiosamente riproposto nelle sale italiane.

L’aplomb magnetico del principale interprete Roschdy Zem è un bel collante per un film che vive di atmosfere e che consolida un crescendo emotivo e drammatico scena dopo scena per accumulo. Merito di un regista che ha mietuto segnalazioni per il Premio Lumiére. Nella prima parte si delineano casi (un incendio doloso, uno stupro, una ragazza fugggita di casa poi un assassinio) che vengono risolti nella seconda. Non si prescinde dalla location, la squallida Roubaix, ai tifosi italiani più che altro nota come capolinea d’arrivo per una classica del ciclismo che parte da Parigi e che nel 2020 è stata annullata per il coronavirus. Il commissario di origine maghrebina tira i fili di varie indagini con la collaborazione dei uomini rodati e di un pivello a cui insegna il mestiere, in primis la tecnica di un interrogatorio. Condendo decisionismo e psicologia appare evidente la sua abilità nello sciogliere gli enigmi ricorrendo al martellamento dei possibili colpevoli, in particolare di un paio di donne che si rimpallano la responsabilità del delitto più grave. Un commissario che è un uomo vistosamente solo, che passa le sue serate nei bar e si appassiona solo alla crescita di un cavallo. Racconto in progress sigillato dalla chiusura, il fermo immagine di una corsa ippica a cui prende parte il suo preferito. Il giudizio è sospeso, senza moralismi, di una storia aperta in cui viene mostrato il duro lavoro di poliziotti duri ma tutt’altro che sprovvisti di umanità. Curatissimi i dialoghi e i particolari di un film che mantiene più di quello che prometta in partenza, rifuggendo da una qualunque seduzione commerciale.

data di pubblicazione:12/10/2020


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