da Daniele Poto | Ott 7, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 24 settembre /10 ottobre 2021)
Un progetto dinamitardo di teatro sovversivo/adrenalico. Due ore tirate allo spasimo per un adeguato impegno fisico di una compagnia omogenea e polivalente. Teatro situazionista e non letterario per due ore di un sano se non istruttivo “lasciatemi divertire”.
Esplodono anche colpi da arma da fuoco in scena (avviso per i più impressionabili) segno che lo spettacolo può riservare qualunque sorpresa. Dagli intermezzi pubblicitari della padrona di casa Manuela Kustermann al pubblico ludibrio di una secchiata di concime in testa riservata alla donna vittima. Del resto lo slogan dominante dell’autore è la massima “il teatro dovrebbe essere un luogo in cui non sentirsi al sicuro”. Difatti lo spettatore avvampa di fronte alle scatole cinesi in finta diretta alla “Grande fratello” sadica e stizzosa dove l’infante Peng è il protocollo di una nuova logica di controllo, auspicando il momento in cui i giovani prendano il sopravvento sui genitori politicamente corretti. Peng, creatura di laboratorio scenico, è completamente all’opposto. Spietato, dissacrante, morboso nella sua voglia di affermazione. Una grandiosa parodia dell’esistente europeo che cerca di ribadire i valori mentre non riesce ad affermarli. Così la donna strapazzata è un essere da rilegare in cantina che si esalta solo nei quiz dove (naturalmente) sarà la peggiore a vincere perché all’avversaria non sarò dato modo di esprimersi. Due ore di svolgimento convulso e senza una trama riassumibile. E, viva la faccia, con grande spreco di materiale nei fai da te in cui gli attori ribaltano scenografie, piani d’incontro, prospettive. Lo spiazzamento è la regola della casa. Nell’occasione il teatro contiene la televisione e il video cinematografico in un affastellamento al quadrato e persino al cubo della fruizione artistica. Il teatro di Monteverde ha investito molto su questa proposta anticonvenzionale che esprime una grande durata in cartellone rispetto all’abituale programmazione. Scelta ripagata da un pubblico plaudente e entusiasta anche per la grande profusione di fisicità dei componenti. Non è un caso che lo script sia venuto nel periodo di massimo imbarazzo per la presidenza-Trump.
data di pubblicazione:07/10/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 6, 2021
(Teatro Sala Umberto – Roma, 28 settembre/1 ottobre 2021)
Pirandello in salsa vintage. Regge la storia e in parte anche il linguaggio in una rilettura mainstream che non si preoccupa del politicamente corretto e non si pone il problema di criticare l’evidente misoginia del testo, tutto sbilanciato sul versante maschile. Non sperimentazione ma scapigliata rilettura del testo.
Il romanissimo Giorgio Colangeli, premio David di Donatello per il cinema, è un verace e sempre più godibile mattatore teatrale per due ore di rappresentazione che, peraltro, non sono affidate all’one man show. Un Pirandello laterale su uno stuzzicante tema in cui galoppa per l’occasione un sottotesto stuzzicante ed ammiccante. Che scenicamente guarda soprattutto alla trasformazione della Perrella (attrice) Perella (personaggio) da una scialba donnetta, messa incinta dal protagonista e quasi inconsapevole di quello di cui è insieme carnefice a e vittima, in una provocante dark lady rivestita di un rosso attillata, truccata per l’occasione dal suo manipolatore. Dunque quello che era una dramma del suo tempo diventa un vaudeville per l’ovvio limite di credibilità attuale. Pirandello come Feydeau? Non proprio. Rimane una solida trama di impianto siciliano con una superfetazione sul ruolo delle governanti e sull’accentuazione caricatura del ruolo giovani. Solo così del resto si poteva avviare lo svecchiamento e godere come di un sorridente giallo lo scioglimento verso il finale positivo. Il signor Paolino si salverà perché potrà attribuire al marito dell’amante il figlio che nascerà dal suo seme, evitando una tragedia familiare che ai tempi di Pirandello avrebbe provocato uno sconquasso e che invece ora si deliba con serenità. Gli uomini tengono in pugno la situazione ma, alla fine, il potere della seduzione femminile e di un misterioso prodotto in un dolce al cioccolato (oggi sarebbe il viagra, sic!) muove come un deus ex machina la lieta conclusione del plot. Nell’occasione bravi i caratteristi dei ruoli minori.
data di pubblicazione:06/10/2021
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Ott 5, 2021
Un giovane vedovo, che ha perso il lavoro, si nasconde col figlio nel sottotetto della ex abitazione spaventando chiunque tenti di abitarla. Con il bambino architetta una serie di situazioni (si fingono fantasmi) tali da terrorizzare gli aspiranti inquilini e indurli a lasciare presto la casa. L’arrivo di una giovane mamma israeliana con relativa figlioletta complicherà non poco le cose, anche per l’arrivo indesiderato del violento padre della bambina…
Ci si lamenta spesso e a ragione della debolezza delle sceneggiature dei film italiani: mancanza di idee, ricorso alla volgarità gratuita, trame ridotte a semplici sketches, presenza di attori che ripetono sempre se stessi. Godiamoci allora questo piccolo, diverso, I nostri fantasmi, sbucato dalla sezione Autori dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia che, a dispetto della solita miope distribuzione vanta diverse frecce al suo arco. Per cominciare, ha un avvio intrigante: sembra un horror ma non lo è! Ha una storia abbastanza nuova e originale (la coppia che si nasconde nel sottotetto col papà che illude il figlio trattarsi di un gioco fra loro, i buoni e gli altri, gli invasori, i cattivi) che si dipana in diverse direzioni, tutte plausibili. C’è un’attenzione a problematiche, purtroppo sempre attuali: la disoccupazione, il razzismo, la violenza domestica, la rabbia sociale. Tematiche, peraltro, sfumate all’interno di un plot narrativo che ha un suo ritmo minimale, cadenzato, mai esagerato o urlato. È confortato dalla presenza di attori perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli: Michele Riondino (Valerio), un padre credibile, scarno e misurato pur se devastato da problemi terrificanti (mantenere un figlio, senza una casa, senza un lavoro, con i servizi sociali pronti a sottrargli il minore); Hadas Yaron (Miryam) la dolce ebrea, mamma di una piccina, in fuga da un marito possessivo e manesco, interpretato dall’accigliato e bravo Paolo Pierobon. Nei panni di un vicino, colonnello in pensione burbero-ma-comprensivo, Alessandro Haber, fa il suo.
A completamento dei meriti della pellicola di Alessandro Capitani, regista e co- sceneggiatore (già vincitore di un David di Donatello nel 2016 per il cortometraggio Bellissima) di questo gioiellino c’è da segnalare la sceneggiatura, (condivisa da Capitani con la già collaudata Francesca Scialanca e l’esordiente Giuditta Avossa) sincera, tenera, ma mai buonista, come pure il commento musicale di Michele Braga e l’attenta fotografia di Daniele Ciprì. Senza gridare al capolavoro, una piccola ventata di aria pulita nell’asfittico panorama del cinema autoriale di casa nostra.
data di pubblicazione:05/10/2021
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da Paolo Talone | Ott 1, 2021
(Teatro Quirino – Roma, 24 settembre/3 ottobre 2021)
Il Teatro Quirino riapre le porte al pubblico con un prologo di 8 spettacoli in attesa della nuova stagione che riprenderà a novembre. Lorenzo Gleijeses è Gregorio Samsa, un artista della danza tormentato nella ricerca della perfezione, incastrato nelle sue più nascoste ossessioni.
Frutto di un complesso lavoro iniziato diversi anni fa a Hostelbro in Danimarca, lo spettacolo di Lorenzo Gleijeses e Mirto Baliani – entrambi figli d’arte – è cresciuto giovando del contributo creativo dei due massimi rappresentanti dell’Odin Teatret, Julia Varley e Eugenio Barba, quest’ultimo alla sua prima regia fuori dalla celebre compagnia da lui fondata.
Gregorio Samsa, il cui nome richiama chiaramente il personaggio della Metaforfosi di Kafka, è un danzatore di quarant’anni impegnato nelle prove di uno spettacolo che a breve avrà il suo debutto. Trascorre le giornate ripetendo instancabilmente i movimenti che daranno vita a una danza delirante di cui è il protagonista. Isolato volontariamente nel suo mondo creativo, interagisce con oggetti elettronici e suoni provenienti dall’esterno. Le voci che popolano la sua solitudine sono quelle del regista/maestro che lo guida nella fase creativa, del padre anche lui artista che lo spinge a mostrare i risultati, della fidanzata stanca di essere trattata con distacco e della psicologa a cui si rivolge per continuare la terapia di ricerca e conoscenza che lo assilla. Il confronto tra il mondo interiore del personaggio e questi interventi che piombano sulla scena dall’esterno, nella forma della voce fuoricampo, permette di fare chiarezza sull’idea che è alla base del lavoro. Ma anche le coordinate di spazio e tempo sono necessarie per comprendere la vicenda. Il pubblico viene fatto accomodare sul palcoscenico a pochi passi dal luogo dell’azione del performer. Questa condivisione dello spazio genera una trasmissione di energia che altrimenti sarebbe impossibile stando in platea. Le tavole del palco vibrano sotto i passi della danza e trasmettono quella sensazione di delirio e ossessione nella quale è incastrato il protagonista. La luce palpabile e emozionale di Mirto Baliani fa il resto. Ma lo spazio è anche mentale, il luogo dell’intimità dell’artista, sacrificato allo sguardo invasivo dello spettatore. Il tempo invece pare restringersi e allargarsi tra il ritmo serrato con cui Lorenzo Gleijeses ripete gli infiniti passi della sua danza e una quotidianità sempre uguale che non ha uno scopo se non l’infinito e l’irraggiungibile.
Lorenzo Gleijeses è pura energia pulsante, vitalità e tormento. Questo spettacolo è una prova di resistenza incredibile che richiede un immenso sforzo sia mentale che fisico, ma anche capacità di dialogo con la materia sonora e luminosa di cui è composto. Un ottimo lavoro per ricominciare una stagione, per riprendersi lo spazio dell’arte e del teatro.
data di pubblicazione:01/10/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Set 30, 2021
(Teatro Porta Portese – Roma, 29/30 settembre 2021)
Un sontuoso ritorno a teatro nel segno del dominio della parola. Tutto esaurito per la prima come ai vecchi tempo per un consolidato successo.
La pandemia non è stata solo solitudine, raccoglimento e frustrazione ma ha rappresentato anche un solido innesco creativo per l’ispirazione di Elisabetta Sciabordi, polivalente attrice/scrittrice/lettrice. Seduta in quel caffè in un giorno non a caso perché il 29 settembre di Equipiana memoria. Un motivo di Lucio Battisti la cui aura non si è persa nel corso degli anni. L’autrice scrive, medita, congettura, fantastica dai tavolini di un bar immaginario che, non a caso, prende il nome di Corona. E non nel senso della birra messicana ma della bufera epidemica che ha attraversato l’umanità. E traccia ritratti sapidi del vago, del seduttore, delle mille facce della commedia umana che può transitare in un bar. Bozzetti impressionisti animati dalla verve tutta napoletana di Marina Vitolo e inframmezzati dal duo voce/chitarra in un grande ripasso della canzone melodica italiana e non solo dell’ultimo cinquantennio, spingendosi fino all’interpretazione de “O Sarracino”. Uno spettacolo leggero, brioso e insieme profondo di 75 minuti per un pubblico attento e partecipe. Il cocktail lettura, recitazione, musica non produce una majonese impazzita ma un prodotto coerente e di rara godibilità. Viene da pensare ai Bar di Benni con trasmutazione romana perché anche qui non manca il riferimento alla golosità della pasta e a particolari sindromi da cornetto. Difatti la Sciabordi, per chi la conosce, è un esempio di bon vivant. Una particolare citazione per la voce femminile. La dottissima cantante si produce in fuori copione particolarmente apprezzabili.
data di pubblicazione:30/09/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Set 28, 2021
Con un intenso programma di proiezioni ed incontri tra Roma e provincia, la Nove Produzioni torna per il sesto anno consecutivo a trattare il difficilissimo tema delle malattie rare attraverso la potenza della macchina da presa. Altissimi i patrocini che supportano questa meravigliosa ed importante iniziativa nata dalla volontà di Claudia Crisafio e Serena Bartezzati, “due sognatrici” come esse stesse si definiscono sul programma di un Festival nato per raccogliere da tutto il mondo film che parlano delle sfide di chi convive con una malattia rara.
Ed il loro “sogno” ancora una volta si è avverato: sono stati oltre 200 i corti partecipanti alla corrente edizione e sottoposti all’attenta selezione dalla giuria tecnica del RARE DISEASE INTERNATIONAL FILM FESTIVAL che il prossimo 17 ottobre 2021 alla Casa del Cinema di Roma, nella giornata conclusiva della settimana di appuntamenti che avranno inizio il 9 ottobre p.v., annuncerà i nomi dei vincitori della VI edizione di Uno sguardo raro, concorso internazionale di cortometraggi sul tema delle malattie rare.
Argentina, Italia, Turchia, Iran, Qatar, Venezuela, Egitto, Belgio, Brasile, United Kingdom, Usa, India sono i paesi di provenienza dei cortometraggi finalisti e di quelli meritori dei premi speciali, tutti partecipanti con raffinatissime opere cinematografiche brevi che hanno per denominatore comune l’intento di sottolineare l’importanza della ricerca. A pronunciarsi sui corti vincitori dell’ edizione 2021 sarà una giuria di qualità presieduta da Gianmarco Tognazzi e composta da un pull di eccellenze in ambito medico sanitario quali Guglielmo Lorenzo di Telethon, Margherita Gregori, Vice Presidente della Federazione Italiana Malattie Rare onlus, Domenica Taruscio, Direttore del Centro Nazionale Malattie Rare, Stefania Collet dell’Osservatorio Malattie Rare oltre che prestigiosi nomi di spicco dello sport e spettacolo tra i quali l’attrice Maria Amelia Monti, l’autore Edoardo Erba, il regista Lorenzo Santoni e Fabrizio Zappi, Vice Direttore Rai Fiction o di atleti e dirigenti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano quali Stefano Pantano e Cecilia D’Angelo cui si aggiunge la giovanissima “influencer” d’origine salernitana Benedetta De Luca, autentica testimone di cosa significhi per un portatore di malattie rare lottare per i propri diritti. Fuori programma ma non meno importante per pregio dei protagonisti, sarà la consegna di un premio speciale a Paola Tiziana Cruciani e Lorenzo Lavia per l’interpretazione del corto diretto da Tiziana Martini “E’ stato solo un click” sulla diffusissima tematica della demenza senile, patologia certamente non catalogabile come malattia rara ma ovunque troppo frequente. In attesa del verdetto della Giuria di Qualità che proclamerà i vincitori delle tante categorie del Premio UNO SGUARDO RARO 2021, coloro che vorranno vedere i corti finalisti potranno facilmente accedere alla piattaforma unosguardoraro.tv dove potranno esprimere il proprio giudizio iscrivendosi alla Giuria Popolare.
Per ulteriori informazioni o per conoscere il calendario delle proiezioni, degli incontri e degli appuntamenti è consigliato visitare il sito www.unosguardoraro.org.
data di pubblicazione:28/09/2021
da Maria Letizia Panerai | Set 28, 2021
Tre piani di una palazzina nel Quartiere Prati di Roma, tre storie familiari che vengono scosse dal loro abituale “torpore” da una deflagrazione notturna, tre donne che dovranno decidere della loro vita: Nanni Moretti ci pone di fronte all’importanza di operare delle scelte, a volte dolorose ma necessarie. Un inno all’assunzione delle proprie responsabilità per costruire un nuovo assetto di crescita individuale.
Al terzo piano di una palazzina vive una coppia di giudici, Vittorio (Nanni Moretti) e Dora (Margherita Buy); una notte vengono svegliati dal rumore causato da un brutto incidente: Andrea (Alessandro Sperduti), il loro figlio ventenne, rientrando a casa in macchina a forte velocità investe ed uccide una donna, per poi schiantarsi contro una parete in vetrocemento di un locale-studio al piano terra del suo stesso palazzo, sotto gli occhi increduli dei proprietari Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) e della loro bambina. Lucio e Sara vivono al primo piano di quella stessa palazzina, lavorano entrambi e sovente affidano la loro figlioletta Francesca a Giovanna e Renato, una coppia di anziani (Anna Buonaiuto e Paolo Graziosi) che hanno un appartamento sullo stesso pianerottolo. Al secondo piano invece vive Monica (Alba Rohrwacher) ed anche lei quella notte assiste all’incidente: è sola perché suo marito Giorgio (Adriano Giannini ) come spesso accade è all’estero per lavoro; la donna, in procinto di partorire la sua prima figlia Beatrice, sta aspettando un taxi che la porti in ospedale proprio nel momento in cui Andrea a tutta velocità travolge la passante e sfonda con la sua auto lo studio di Lucio e Sara. Quell’incidente rappresenterà un evento che scombinerà tassello dopo tassello l’apparente equilibrio di queste tre coppie e tutte, da quel momento, prenderanno lentamente consapevolezza della propria infelicità.
Moretti tratteggia, con uno stile registico scarno, tre coppie infelici ma che sembrano non sapere di possedere la possibilità di scegliere per cambiare lo stato delle cose e trasforma in immagini tre storie intime, riscrivendo con Federica Pontremoli e Valia Santella, le vicende narrate nell’omonimo libro di Eshkol Nevo, trasferendo l’adattamento cinematografico da Tel Aviv a Roma.
Tre piani è uno schiaffo in pieno viso, che genera sgomento perché Moretti maneggia la storia in maniera diretta ed asciutta, senza alcun accenno a quell’ironia a cui ci ha da sempre abituati. Le figure maschili sembrano essere più a fuoco nell’accezione negativa delle loro mancanze, ben blindati nella loro rigidezza, nei loro egoismi e nelle loro paure, rispetto a quelle femminili che, seppur a fatica, saranno tutte capaci di scegliere tra il perdono, l’abbandono ed il cambiamento.
È un film decisamente complesso, di quelli a “lievitazione lenta”, in cui il malcontento che aleggia sin dal primo fotogramma tende a diradarsi man mano che si rompono gli schemi in cui sono intrappolate le coppie protagoniste, generando scelte finali non prevedibili.
data di pubblicazione:28/09/2021
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da Maria Letizia Panerai | Set 23, 2021
Nel suo terzo lavoro da regista, Alessandro Gassman racconta la storia della famiglia Primic puntando l’accento sui piccoli silenzi che, sommati tra di loro, diventano grandi e sulle cose pensate ma non dette di una famiglia, come lui stesso ha dichiarato, “che in qualche modo somigliava alla mia”. Tutta la pellicola viaggia sulla constatazione di questa profonda incomunicabilità e su “l’amara consapevolezza che vivere non significa essere vivi”.
Siamo a Napoli a metà degli anni sessanta. La lussuosa ma decadente villa Primic con vista su Capri è stata messa in vendita da Rose Primic (Margherita Buy), con la complicità dei figli Massimiliano (Emanuele Linfatti) e Adele (Antonia Fotaras), ma contro il volere di suo marito Valerio (Massimiliano Gallo), noto scrittore. Valerio incarna la figura del grande capofamiglia ma sembra tuttavia non accorgersi quanto la sua fama, e soprattutto la sua cultura, non abbiano contribuito a creare per i suoi due figli l’ambiente ideale per affermare la propria personalità.
E mentre iniziano le visite dei possibili acquirenti che passano in rassegna tutte le stanze, nello studio della villa, unica stanza non visitabile, si susseguono una serie di incontri tra i singoli componenti della famiglia ed il grande scrittore. Durante questi incontri, ognuno gli manifesterà non solo la irreversibile decisione di vendere, ma anche tutta una serie di piccoli e grandi rancori troppo a lungo sopiti. Valerio, incredulo, tenterà invano di difendersi da chiunque varchi la porta di quel polveroso studio, che neanche la vecchia e fedele governante Bettina (una straordinaria Marina Confalone) riesce a pulire come si converrebbe. Ma quei dialoghi assomigliano tutti a dei monologhi, sfoghi individuali da cui lo scrittore ne esce quasi sempre sconfitto e con la amara consapevolezza di non conoscere affatto i propri cari.
Durante la proiezione, salta subito all’occhio dello spettatore che sullo schermo si stia assistendo ad una pièce teatrale la cui storia ha qualche elemento di similitudine con la famiglia del regista. Tratto da un testo di Maurizio De Giovanni di cui Gassman ne ha già curato la regia teatrale, Il silenzio grande è un film ricco di sentimenti e piacevolmente profondo, in cui il silenzio, patito ed inflitto, genera disagio nello spettatore. Notevole l’interpretazione di tutto il cast, attori giovani compresi, così come appare molto curata l’ambientazione, anche se la vera protagonista è la fotografia, a volta seppiata a volte a colori, che ci racconta “il silenzio”, e non solo, sino al finale della storia.
E così tra confronti, silenzi, luci ed ombre, vengono a galla conflitti, rivendicazioni, e tante paure sino ad allora inconfessate: tutte manifestazioni spontanee verso colui che sembra essere “il grande assente” nelle relazioni della famiglia Primic, quel capofamiglia che ha fatto del silenzio la sua malattia senza neanche accorgersene.
data di pubblicazione:23/09/2021
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da Rossano Giuppa | Set 20, 2021
(Teatro India – Roma, 9/23 settembre 2021)
La compagnia Motus debutta al teatro India di Roma con lo spettacolo Tutto Brucia, una riscrittura delle Troiane di Euripide, attraverso le parole di J. P. Sartre, Judith Butler, Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway, in scena dal 9 al 23 settembre. Una spiaggia coperta da cenere è quanto resta di Troia. Le fiamme hanno già distrutto la città e le principesse superstiti al massacro aspettano le navi dei conquistatori che le porteranno in Grecia. Restano il canto di un coro essenziale e disperato, i latrati della madre Ecuba, i movimenti disturbati e spezzati di Cassandra.
Enrico Casagrande e Daniela Nicolò mettono in scena un percorso di ricerca composito e sovrapposto che partendo dai tragici destini delle donne troiane di Euripide, andrà a denunciare le storie e i tormenti delle schiave di oggi. Tutto si è compiuto e le protagoniste della tragedia greca nella dimensione dei vinti di Euripide, sono oramai oltre il dramma, in un momento successivo rispetto a quanto accaduto, dopo la fine di una guerra, dopo la distruzione di un mondo, dopo un disastro umano e ambientale che tanto evoca situazioni tristemente attuali. Tre protagoniste in scena che seguono la successione degli eventi, tra voci, gestualità e note strazianti. Così si presenta la scena in una visualità essenziale fatta di ombre che incombono tra frammenti di luce, mentre tutto è cosparso di cenere, essenza di un mondo che non c’è più. In relazione esasperata e viva con quella cenere le presenze spettrali di Silvia Calderoni e di Stefania Tansini che si alternano nei ruoli delle Troiane, straordinarie nel dar vita a personaggi e vicende della tragedia coniugando la prima la propria potenza espressiva con una variegata padronanza della voce nel racconto del dolore; la seconda, attraverso differenti e drammatiche azioni danzate che danno forma alla sofferenza interiore conseguente alla perdita di tutto. L’amara constatazione dell’incapacità di sovvertire un destino amaro e crudo è inoltre raccontata dal coro ovvero dal canto in inglese di R.Y.F. (Francesca Morello) drammaticamente essenziale e dirompente. Chitarra e voce danno una profondità epica al lamento della perdita e al desiderio di riscatto dalla disgrazia dei vinti, dall’ingiustizia degli dei e dalla disumanità dei vincitori che saranno condannati a una punizione divina.
Ecco la tragedia contemporanea di Motus che rivivendo la scrittura di Euripide racconta di nuove guerre e di nuove schiavitù, di nuove distruzioni e disastri ambientali legati a contesti attuali e futuri secondo una partitura fatta di frammenti del dramma. Ci troviamo in un campo di tende dove le prigioniere aspettano di essere fatte schiave. La Regina Ecuba latra e scompone e ricompone il corpo delle figlie trucidate mentre echeggiano le parole profetiche di Cassandra ed il grido agghiacciante di Polissena. Si susseguono così l’intervento dei morti richiesto da Andromaca, la tragedia interiore di Elena, il corpo senza vita del piccolo Astianatte, ucciso per paura della vendetta. Ecco le vittime della guerra, i soggetti vulnerabili in uno scenario in cui tutto è bruciato.
Un racconto epico quello messo in scena dai Motus che sapientemente legano il testo classico al teatro di performance per rendere ancor più concreto e attuale il dramma vissuto da figure femminili forti e resilienti, pronte ad affrontare un nuovo destino ridotte in schiavitù ma non cancellate, con una identità da difendere e preservare.
Un teatro politico che vuole raccontare un altro tipo di guerra, quello che il mondo occidentale conduce agli altri, ai migranti in mare, nei deserti, tra le montagne, auspicando che il canto disperato delle donne troiane si trasformi in un’invocazione, nella speranza che quella cenere e quella sofferenza non siano solo una denuncia, ma anche una catarsi verso un mondo migliore.
data di pubblicazione:20/09/2021
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Set 19, 2021
Il secondo caso del Commissario Dupin!
Tranquillo, elegante, silenzioso come una collaudata “tedesca” BMW, il tedesco Jorg Bong, in arte Jean-Luc Bannalec, finto francese, prosegue le sue storie ambientate nella francesissima Bretagna. Un po’ di suspense, personaggi garbati ed accattivanti, microcosmo umano ed ambientale locale descritto a meraviglia, una trama composita e ben articolata, varie false piste, uno stile elegante, un ritmo narrativo pacato, un’inchiesta sempre più palesemente alla maniera di Maigret. Ingredienti tutti quasi normali ed essenziali per un giallo, eppure così ben amalgamati che producono anche questa volta un piccolo buon noir, molto classico, semplice “alla vecchia maniera” ma proprio per questo interessante ed intrigante. Poca violenza, poca azione ma molto intuito e molto lavoro di indagine. Un romanzo breve, rassicurante, coinvolgente, piacevole a leggersi fino alla fine, non ci si annoia un secondo nell’avanzare verso la conclusione con una tensione che regge fino alle ultime pagine senza mai ricorrere ad artifici.
Il nostro Commissario (parigino confinato in Bretagna ormai da oltre tre anni) questa volta è nelle isole Glénan al largo della costa Bretone. Tre cadaveri lasciati sulle spiagge dalla marea … Un naufragio? Non sarà affatto come può sembrare a prima vista! Famose nel mondo per la scuola di vela, le Glénan sono al centro di questa seconda indagine, isolate, aspre e selvagge sono l’ambiente ideale per morti misteriose. Sempre caratterizzato dalla stretta connessione con la realtà della splendida Bretagna, l’autore sviluppa e migliora ulteriormente il suo stile, le sue storie ed i suoi personaggi. La narrazione si fa infatti più ricca rispetto al romanzo d’esordio, i protagonisti ed i contesti sono ben delineati, reali e coerenti, l’intrigo narrativo è ben sviluppato. Il Commissario Dupin viene caratterizzato ancor di più e meglio, se ne delinea la figura, la psicologia, le piccole manie (le antipatie, le simpatie, l’uso smodato dei caffè, l’amore per il buon mangiare…) e tutto il suo atteggiamento complessivo di “parigino in esilio” che pian piano lo rende più simpatico anche se è un uomo poco comunicativo e scontroso. Come impedirsi di pensare ad un omaggio voluto e ricercato a … Maigret ed a Simenon??
Come detto siamo infatti molto lontani dai polizieschi e dai thriller cupi e machiavellici. Scientemente l’autore ripropone atmosfere e situazioni tipiche proprio dei gialli classici centrati tutti sulle capacità investigative e ne fa una sua personale e riuscita cifra stilistica.
Risacca Bretone è un piccolo polar, ma è ben confezionato, credibile ed efficace. Bannalec si conferma anche in questa “opera seconda” come autore di polizieschi semplici e senza asperità che però coinvolgono piacevolmente il lettore e gli fanno scordare per un po’ le difficoltà di questi nostri tempi. Vedremo come evolverà nell’ultimo libro della trilogia.
data di pubblicazione:19/09/2021
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