da Rossano Giuppa | Ott 25, 2021
Il mondo visionario e affascinante dell’infanzia raccontato al presente, con uno sguardo delicato e profondo. È Petite maman, il nuovo film di Céline Sciamma presentato in concorso a Berlino 71 e ad Alice nella città durante la Festa del cinema di Roma e presente dal 21 ottobre nelle sale cinematografiche italiane. E’ la storia di Nelly (Josèphine Sanz), una bambina di otto anni che si ritrova nella casa d’infanzia della madre Marion in seguito alla morte della nonna. Marion è distrutta, non sa come gestire la situazione, e a un certo punto se ne va, lasciando Nelly sola con il padre. La piccola, mossa da una grande curiosità esce di casa per esplorare il bosco circostante, e a un certo punto si imbatte in una coetanea (Gabrielle Sanz, sorella gemella di Joséphine), che sta costruendo una capanna. Le due diventano subito amiche, e Nelly impara a conoscere la famiglia di questa bambina apparsa dal nulla, il cui nome, guarda caso, è Marion.
Un film fiaba che colpisce nel profondo chi lo guarda, lasciandolo incantato ed emozionato, una poesia sull’amore, la famiglia, il lutto. Nelly non è riuscita a salutare la nonna prima della sua morte, è la prima volta che perde qualcuno che ama e deve confrontarsi anche con il dolore di sua madre Marion (Nina Meurisse) che scorre ad un ritmo diverso dal suo. Con i suoi genitori inizia a svuotare la casa d’infanzia della madre immersa in un bosco in cui un tempo c’era una casetta di legno di cui la bambina aveva tanto sentito parlare. Immerso in un’atmosfera sospesa nel tempo, in un autunno caldo e sognante, il film compie una vera e propria magia regalando a Nelly una seconda possibilità: quella di rivedere sua nonna e conoscere sua madre bambina. Un desiderio che forse appartiene ad ognuno di noi.
Petite Maman racconta di un viaggio nel tempo che non guarda al passato o al futuro ma si muove nel presente. Céline Sciamma elude l’immagine della morte grazie alla potenza della memoria, per cui nessuno scompare davvero e basta semplicemente un oggetto, un vecchio bastone, dei giocattoli di un’altra epoca, per continuare a sentire la persona vicino al proprio cuore. Le due bambine hanno così l’opportunità di conoscersi in un mondo magico in cui preparano crêpes e bevono latte al cioccolato, mettono in scena recite e costruiscono casette di legno secondo una sintonia di anima e corpo che permette loro di integrarsi definitivamente.
Dopo il successo di Ritratto della giovane in fiamme di due anni fa, Céline Sciamma firma un’altra pellicola stratificata e complessa, capace di esplorare ancora una volta il tema dell’identità, da sempre uno degli argomenti più significativi del suo cinema.
E come ogni fiaba, Petite Maman è fatta di case e sentieri, di luoghi non luoghi da abitare o disabitati che nascondono storie, porte e oggetti che collegano spazio, tempo e identità. Così il rapporto tra una bimba, la mamma e la nonna, diventa un viaggio intimo in cui ogni singolo elemento ha un suo preciso senso e una sua precisa funzione.
Petite maman, con la sua complessità poetica, è uno di quei film da studiare per scoprire la magia che può creare la macchina da presa, senza clamori ed effetti speciali, ma solo raccontando i sentimenti.
data di pubblicazione:25/10/2021
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da Daniele Poto | Ott 24, 2021
(Teatro Manini – Narni, 23 ottobre 2021, anteprima nazionale assoluta)
L’irrisolta contraddizione dell’affare-Pasolini. Scena scabra ma colma di ingombranti significati alluvionali. L’Italia è il Paese dell’eterno trasmutante fascismo?
Quando il perfetto affabulatore Celestini nel prologo pre-scena dispone un copione pro-memoria sull’impiantito del palcoscenico si ha l’esatta sensazione che non ne avrà mai bisogno per tutti e 105’ i minuti della rappresentazione. Dizione e scansione precisa che sembra prefigurare una cronologia un po’ didattica della vita di Pasolini, nato a Bologna nel 1922, l’anno significativamente della Marcia su Roma. Ma quando sembra che il trend debba seguire questo piano lineare l’autore-attore-regista, divaga e riempie la storia di svolte pertinenti (ossimoro) ricostruendo una vicenda nazionale ricca di intrighi, di servizi deviati, di strategia della tensione. C’è un marcatore sensibile che è quasi un tormentone leit motiv. Anno ics della dittatura fascista. Dal 1922 in poi. Ma anche nel 1975, l’anno dell’assassinio di Pasolini, mostrato, con prove documentali, come opera di più persone e non del solo “Rana” Pelosi, un ragazzotto con cui lo scrittore, ben muscolato, avrebbe fatto fisicamente almeno gioco pari. Pochi oggetti e qualche sottofondo musicale a contrappuntare la lunga sfilata di supposizioni. C’è la paura del comunismo, eterno stigma nostrano, la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. Dunque Pasolini è il pretesto ma anche il centro di un dopoguerra fatto di troppe bugie, di troppe macchinazioni. E Celestini si fa uno, nessuno e centomila immaginando percorsi cittadini di periferia con lo scrittore, ipotesi del suo vissuto negli anni ’50. C’è anche qualche registrazione d’epoca che ci restituisce la vita di protagonisti di questo grande affresco dove un solo grande protagonista riesce a narrarci un’inestricabile vicenda corale. Alla fine successo di pubblico indiscutibile, con la prova generale già alle spalle, in vista di una fortunata tournee civile. Con la minaccia evitabile di qualche contestazione vista la forza dell’assunto ideologico che sottintende la narrazione.
data di pubblicazione:24/10/2021
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Ott 23, 2021
L’Iran si fronteggia con l’Arabia Saudita; la Grecia e la Turchia attraversano una crisi che risale all’antichità; l’Australia si trova in mezzo alle due Nazioni più potenti del nostro tempo, Stati Uniti e Cina… stiamo entrando in una nuova fase di rivalità tra le grandi potenze, nella quale numerosi attori, anche di minore entità, lottano per essere al centro della scena. Da tempo ormai lo scenario geopolitico si sta muovendo verso un mondo “multipolare”. Stiamo tornando a quella che è stata la norma per la maggior parte della storia umana: un’epoca segnata da molteplici rivalità per il Potere.
Come nel suo precedente libro Le 10 Mappe che spiegano il mondo, anche quest’ultima opera tratta di montagne, fiumi e mari per comprendere la nuova realtà geopolitica del XXI° secolo. Per l’Autore la Geografia resta un fattore chiave che circoscrive ciò che l’Umanità può e non può fare e condiziona quindi le scelte politiche dei vari Stati.
Il nuovo Saggio di Marshall (che, individuato un filone editoriale d’oro, prosegue nel suo “sfruttamento”) è ancora una volta una lettura di estrema e stupefacente attualità, assai utile per riflettere sui condizionamenti che continuiamo a portarci dietro perché siamo e resteremo prigionieri della Geografia. Ineluttabilmente, sostiene l’Autore, tanto per il passato quanto per l’avvenire, certe aree del Mondo, e quindi certi Stati, operano ed opereranno politicamente, commercialmente e militarmente in un certo modo e con certi obiettivi.
Marshall, esperto di Relazioni Internazionali, conferma ancora una volta di saper coniugare rigore con chiarezza espositiva ed illustra con prosa scorrevole e con competenza di analisi, avvalendosi di un ampio supporto di mappe di facile lettura, i futuri scenari, la complessità dei rapporti mondiali e gli eventi che potrebbero avere conseguenze di vasta portata nel nuovo mondo multipolare che si prospetta. Un futuro in cui da un punto di vista energetico il petrolio andrà perdendo il suo potere, contesti in cui sarà il bisogno di acqua a condizionare le situazioni, crisi umanitarie con conseguenti ondate migratorie, tendenze autonomistiche di piccole regioni a fronte del venir meno degli Stati unitari… queste prospettive ed i connessi condizionamenti economico-sociali sono dettati dalla forza della Geografia dei luoghi e quindi dalla Geopolitica. In tale ottica Marshall esamina 10 aree cruciali: Australia, Iran, Arabia Saudita, Grecia, Turchia, Regno Unito, Spagna, Etiopia, Sahel e perfino lo Spazio. Quest’ultimo elemento è particolarmente singolare: chi possiede infatti lo Spazio?
Anche questa volta come nei suoi precedenti lavori, la visione dell’Autore resta per definizione deterministicamente legata ai vincoli geografici e quindi, volendo, si può contestare questo suo approccio soggettivo. Nonostante questo rilievo, l’ultimo lavoro di Marshall resta comunque uno studio estremamente interessante, attualissimo, aggiornato ad oggi, utile per avere una visione di insieme di avvenimenti che altrimenti si disperderebbero nelle dinamiche delle politiche internazionali. Una lettura piacevole ed istruttiva, una brillante opportunità per ragionare su quanto anche la realtà oggettiva della geografia condizioni e condizionerà gli elementi intorno ai quali girano le nostre Società.
Un libro consigliato per gli appassionati ed interessante anche per coloro che vogliono solo provare a capire come andrà il Mondo.
data di pubblicazione:23/10/2021
da Paolo Talone | Ott 23, 2021
(Teatro Belli – Roma, 22/24 ottobre 2021)
Il teatro può essere lo specchio di tanti tragici fenomeni che incombono sull’esistenza. Possono essere di carattere sociale, lavorativo, di genere. Questo il tema scelto per l’edizione numero venti di Trend a cura di Rodolfo Di Giammarco. 14 lavori tratti dalla drammaturgia contemporanea inglese portati in scena da eccellenti artisti del panorama italiano.
Il reading portato sul palco del Teatro Belli di Trastevere da Giacomo Bisordi per la serata inaugurale della ventesima edizione di Trend non ha nulla della staticità di un copione letto al leggio. I cinque attori protagonisti di Beyond caring, Massimiliano Aceti, Caterina Carpio, Eny Cassia Corvo, Elisabetta Mandalari e Francesco Russo, hanno praticamente mandato il testo a memoria. Questo concede movimento a una scena nuda, che fa un uso scenografico dello scheletro del palco, così come appare senza quinte e fondale. Oggetti di scena un tavolo e qualche sedia. Quello che occorre alla rappresentazione lo fa la simulazione mimica degli attori e l’immaginazione dello spettatore.
Siamo nel locale di carico e scarico di un’azienda che lavora la carne. Fatu, Debby e Susanna lavorano come addette alla pulizia, assunte da poco tramite agenzia interinale. Il luogo dove si trovano serve anche da stanza per la pausa caffè, con una macchina per le bibite che funziona male e ruba quei pochi centesimi che hanno in tasca. Ognuna di loro ha alle spalle una situazione economica difficile. Accettare questo lavoro precario, dove i pochi giorni di attività sono divisi in turni notturni massacranti, i minuti di riposo sono contati e le ferie non sono concesse, è l’unico compromesso che hanno per potersi mantenere. La direzione del lavoro è affidata a Lorenzo, un cinico caposquadra che conosce solo il comando e la pressione di raggiungere l’obiettivo imposto nel mansionario. Ha un atteggiamento dispotico con le donne, che causa competizione e provoca continue umiliazioni. Ai richiami per il basso rendimento si sommano inutili questionari di soddisfazione, autovalutazione e riunioni di squadra. In azienda lavora già Maurizio, un uomo di 35 anni che gode la fortuna di avere una situazione contrattuale favorevole: un tempo indeterminato.
Nel titolo di questa pièce è indicato il senso della storia. Letteralmente beyond caring indica una persona che non è più in grado – per incapacità o mancanza di voglia – di prendersi cura di qualcosa o qualcuno, che non vuole dedicare il suo tempo a risolvere un problema che affligge qualcun altro. È così che Lorenzo ha attenzione solo per il lavoro e non per il lavoratore, Debby non può vedere la figlia il fine settimana perché non le sono concesse le ferie e Fatu deve sopportare il dolore che le causa la sua artrite. Questa è la condizione in cui si trovano tanti lavoratori oggi, in un momento storico che sembra aver dimenticato le lotte sindacali di un tempo. Un periodo in cui valgono l’efficienza e la produttività, a scapito della reale condizione dell’individuo la cui vera vita, fatta di affetti mantenuti e curati attraverso lo schermo di un telefonino, si svolge altrove. Ottima prova d’attore per i giovani artisti de La fabbrica dell’attore del Teatro Vascello, in scena fino a domenica.
data di pubblicazione:23/10/2021
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Ott 23, 2021
Il giovane Buddy (Jude Hill) ha appena nove anni quando vede attorno a sé, nella fino allora tranquilla Belfast, cambiare all’improvviso il suo piccolo mondo, fatto di innocenti amori scolastici, giochi nelle strade del quartiere, feste e cinema con i genitori e chiacchierate con i nonni. Confuso e spaventato dovrà prendere atto che la violenza esplosa ed il conflitto religioso imporranno delle scelte a lui ed ai suoi Cari…..
Per singolare coincidenza o per abile programmazione la Festa ci ha dato l’opportunità di assistere, quasi in contemporanea, a due buoni film con bambini al centro delle loro storie. Da una parte il molto più che ottimo C’mon C’mon di Mike Mills ,dall’altra Belfast di Branagh.
Con questo suo ultimo film il talentuoso attore, autore e regista, la cui eclettica genialità gli consente di spaziare dai classici Shakespeariani a…Thor, ha inteso esprimere il suo ricordo per la sua famiglia, i nonni e la città di origine.
La storia si ispira, infatti, alle personali vicende dello stesso Branagh. Il nostro Autore, nato e cresciuto a Belfast, è stato costretto nel 1969, all’età di nove anni, a fuggire dalla sua città verso l’Inghilterra a causa dei violenti conflitti religiosi fra protestanti e cattolici scoppiati proprio quell’anno nell’Irlanda del Nord. Un dramma che, dopo aver covato per anni sotto la cenere, durerà decenni con oltre 3500 morti.
La peculiarità del film è che i cambiamenti e la violenza sono visti con lo sguardo innocente ed incredulo del giovane Buddy che ha solo una comprensione parziale di ciò che avviene e di quella che fino a poco tempo prima era la vita normale e che ora non lo è più. Il tocco autoriale del regista rende il lavoro originale, filmato in un bianco e nero molto sofisticato che restituisce tutte le atmosfere dell’Irlanda di quegli anni e del piccolo mondo della working class. Un mondo che stava già lentamente cambiando e che i conflitti sovvertiranno completamente. La minaccia della violenza obbligherà i genitori del piccolo a superare le proprie incertezze, i diversi punti di vista, i vincoli affettivi ed i sogni che li trattengono a Belfast e li costringerà a prendere atto che per restare fedeli ai propri valori non resterà loro che tagliare con il passato per cercare di ritrovare la tranquillità altrove pur correndo il rischio di perdere la propria identità.
Ricordi che hanno segnato la vita del regista che però, intelligentemente, è abile nel riproporli con un po’ di nostalgia ma evitando ogni sentimentalismo o forzatura, alternando al dramma, grazie all’uso sapiente dello sguardo infantile, momenti di humour per alleggerire le atmosfere narrative. Il ritmo è sostenuto e scorrevole, senza pause se non quelle scientemente ricercate, ed è supportato da un ottimo montaggio e da una sceneggiatura ben costruita. Come sottofondo fa da colonna sonora il leggendario Van Morrison. Oltre all’eccezionale giovane interprete, tutto il cast è perfetto: dalla intramontabile Judi Dench (la nonna) ai genitori Jamie Dornan (il padre) e la splendida Caitriona Balfe (la madre).
Un buon film, una buona ricostruzione ma, a mio giudizio, gli manca una piena e profonda partecipazione emotiva. Un film che indubbiamente piacerà ma con poco cuore e che quindi non emoziona e non commuove come avrebbe potuto.
data di pubblicazione:23/10/2021
da Paolo Talone | Ott 22, 2021
(Teatro Quirino – Roma, 12/14 ottobre 2021)
Un filo sottile tessuto dal tempo lega insieme la storia di tre donne apparentemente lontane. Piccoli tasselli di un quadro più grande che ha per cornice i due conflitti mondiali. Tutte e tre si chiamano Letizia e in comune hanno anche un destino.
Diciamolo senza retorica: Agnese Fallongo è un’artista interessante da seguire con attenzione! Brava sulla scena e nella scrittura. Un talento eccellente, caleidoscopico, entusiasta, a cui si affianca sul palco un’ottima spalla, Tiziano Caputo, attore cantante e musicista. Diretti da Adriano Evangelisti, insieme dànno vita a uno spettacolo ricco di emozione, divertente e profondo, fatto di personaggi veri e buona musica.
Quando l’Italia entra in guerra il 24 maggio del 1915, Michele lascia la Sicilia per andare a combattere in Friuli, una terra lontana e sconosciuta, dove non arrivano le lettere che Letizia gli spedisce di frequente. Si erano sposati poco prima della sua partenza. La guerra, si sa, divide le anime che si amano. Letizia cerca di raggiungerlo, ma non riuscirà a riabbracciarlo. Morirà colpita da una pallottola vagante mentre offre il suo servizio di volontaria al fronte e il suo fantasma rimarrà intrappolato per sempre nella memoria di chi le ha voluto bene. Di lei si vede ormai solo una foto sbiadita in una cornice di mogano sul comò dei ricordi.
Altra data, altro conflitto: 21 giugno 1940, Seconda guerra mondiale. Proprio quel giorno Lina compie 21 anni. È cresciuta in un orfanotrofio di Latina sotto le cure amorevoli di suor Letizia. Improvvisamente irrompe nella sua vita una vecchia zia di Roma, che le offre un lavoro in città. Lina si trasferisce e scopre che dovrà prendere servizio da Sora Gemma, una casa per appuntamenti a via Mario de’ Fiori. Per sole 15 lire e 65 centesimi la ragazza perderà innocenza e nome. Lina diventerà la sensuale Letizia.
Felice Pirrone, detto il biondino, è uno dei clienti più affezionati di Letizia. Tra i due nasce un sincero amore e così orchestrano di fuggire insieme. L’appuntamento è fissato alla stazione Termini, ma Letizia non si presenterà. La sifilide arriva prima e rovina tutti i piani. Per una serie sfortunata di fatti Felice scoprirà solo quattrodici anni più tardi cosa accadde il giorno della partenza, e sarà l’incontro con suor Letizia, ormai anziana, a chiarire la vicenda. È lei a svelare il prezioso legame che teneva strette in un unico destino le tre donne.
Letizia va alla guerra è uno spettacolo che basa la sua forza su un racconto vero e credibile, portato in scena da due interpreti che cantano, recitano e suonano con grande bravura. Perfetta è la sintonia che hanno sul palco, soprattutto nei tempi comici. Agnese Fallongo propone un teatro fatto con passione, consapevolezza e mestiere, meritevole di essere sostenuto e applaudito.
data di pubblicazione:22/10/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 22, 2021
Una delicata quanto coerente raccolta di personaggi femminili immersi una diacronia invitante. Viene da pensare al cocktail di fortunati romanzi sudamericani entrati in pianta stabile nel nostro immaginario. Non è facile racchiudere un plot in continenti diversi, utilizzando non pretestuosamente vicende personali intrecciate alle trame politiche dei nostri tempi. La storia principale di Anita si salda con quella di altre esistenze della sua prossimità (amiche, parenti) con una presenza maschile di contralto negativa, inquietante, contraddittoria. Meraviglia il congruente incastonarsi del privato in un pubblico dominio del vissuto. In effetti gli eventi politici sullo sfondo del libro alludono a un sottofondo impressionante di eventi: il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, la dittatura militare in Brasile oltre alle mode mainstream dei nostri tempi: l’episodica Milano da bere, l’orientalismo, il culto dello yoga passando per gli hippies, sfiorando i millenials. Cucitura d’incastro molto ispirata che esce dalle strette del sentimentalismo per approdare a un respiro più ampio e universale. In altre parole la mayonese non esce impazzita dalla prova che sa di raggiunta maturità e di perfetto controllo del mood letterario. La sensibilità dell’autrice è di per se comunicativa e invita a una scorrevole lettura, non priva di curiosità per la svolta finale che da buoni anti-spoiler non riveleremo. La capacità narrativa è assecondata dalla predisposizione per uno svolgimento tramite dialoghi illuminanti e mai banali. E non c’è nessuna pretesa intellettualistica ma tanta vita vissuta. Per tanta letteratura che sa di vecchio, di cantine fumose e meccanica, qui si alita il profumo della vera vita. Non priva di inquietudini e di problematiche ma comunque vita. Ricordandoci la fertilità di un antico ma sempre valido adagio: “E’ importante che la morte ci colga vivi”. Se c’è idealizzazione questa si concentra sulla formalizzazione dell’amore come sentimento assoluto, quasi iperuranio.
data di pubblicazione:22/10/2021
da Maria Letizia Panerai | Ott 22, 2021
Johnny (Joaquin Phoenix), giornalista radiofonico, sta conducendo un lavoro in giro per gli Stati Uniti che consiste nell’ intervistare bambini sulle loro aspettative, i loro sogni ed i loro desideri. Con pochi fidi collaboratori, un microfono ed un registratore, spostandosi tra New York, Los Angeles e New Orleans, l’uomo raccoglie con passione ed amorevolezza le testimonianze di tanti bambini su come vedono loro il futuro e cosa pensano del mondo in cui vivono.
Johnny ha una sorella, Viv, con cui non parla da un anno: dopo la scomparsa della madre, in seguito ad una brutta lite, i loro rapporti si sono interrotti. Una sera Viv rompe il muro di silenzio: al telefono chiede al fratello di occuparsi di suo figlio Jesse, di appena 8 anni, perché lei deve raggiungere il marito, e padre del bambino, ricoverato a Detroit per curare una forma di bipolarismo da cui è affetto da tempo. Johnny, nonostante l’esperienza accumulata con il suo lavoro, resta spiazzato dall’incontro con il nipote (interpretato da uno stupefacente Woody Norman) così attento e consapevole e, non potendolo affidare a nessuno, decide di portarlo con sé durante il suo itinerario lavorativo. Sarà un’occasione formativa per entrambi, di scambi mentali e fisici, che sancirà l’inizio di un legame inaspettato. Entrambi, con le dovute differenze, opereranno un inevitabile cambio di prospettiva, in un confronto continuo che li farà crescere.
Il film ha dei contenuti molto profondi e Joaquin Phoenix, l’uomo dai mille volti, è perfetto nel rappresentare la crescita interiore di un uomo alle prese con un bambino molto impegnativo, senza calcare mai la mano, in maniera equilibrata, tenera, reale. Intenso e dalla trama impalpabile, il film si interroga sui traumi personali presenti ad ogni età, ed affronta le difficoltà di linguaggio per il raggiungimento di una reciproca conoscenza tra adulti e bambini. Da questo continuo confronto tra zio, nipote ed i bambini intervistati da Johnny che raccontano cosa si aspettano dalla vita, cosa desiderano nonostante l’incertezza dei tempi che stanno vivendo tra difficoltà economiche e sociali, il regista trae spunto per rivolgere l’obiettivo sulla necessità di vivere il presente, di andare avanti anche senza una idea precisa del futuro, impedendo alle aspettative di non farci mettere a fuoco tutte le sfaccettature dell’oggi, prestando così il fianco solo ad ansie e dubbi.
Il film scava nel rapporto tra adulti e bambini analizzando anche la difficoltà di essere genitori ed i traumi presenti ad ogni età, in una sorta di itinerario di crescita, di stimolo ad incontrarsi, di sprone ad andare avanti (come il titolo stesso recita) anche se non si ha idea di cosa accadrà nel futuro, regalando allo spettatore una vera e propria meditazione su quanto i rapporti d’amore aiutino a crescere nel modo migliore e ad ogni età.
data di pubblicazione:22/10/2021
da Giovanni M. Ripoli | Ott 21, 2021
Si racconta degli inizi, della vita, della crescita e del talento di Zlatan Ibrahimovic, icona del calcio mondiale. Si parte dalla sua infanzia nelle periferie svedesi. Una famiglia di immigrati balcanici che a fatica va avanti senza togliere peraltro ai figli la possibilità di studiare e praticare sport. La scuola non è l’attività preferita del piccolo Zlatan che trova invece nei campi di calcio la ragione di vita…fino a diventare un giovane campione e passare dal Malmo all’Ajax e poi alla Juventus… ed è a questo punto che la pellicola s’interrompe, dal momento che il resto è … “storia di successi” che ancora continua.
Chi si aspettava un docu-film sul famoso attaccante (uno che ha vinto quasi tutto nelle più prestigiose squadre del mondo di calcio) potrebbe rimanere deluso dalla pellicola di Sjogren, regista pubblicitario con al suo attivo diversi film in Svezia (mai distribuiti da noi). Il calciatore compare, in realtà, solo nei titoli di testa e di coda e in poche immagini di repertorio. Sono invece attori, anche molto espressivi, a interpretare il campione nelle diverse età della vita: bambino e giovinetto di belle speranze. Siamo quindi di fronte al “solito” film su uno sportivo (ma potrebbe essere una rock star) che parte da situazioni problematiche: ambiente, famiglia, scuola, coach, fidanzate, avversari per trovare, infine, la strada più congeniale ed esprimere il proprio innegabile talento. Personaggio non facile, poco incline a sottostare alle regole, l’esistenza del piccolo Zlatan, per come la racconta lui stesso nella sua biografia (Io, Ibra) e Sjogren in un racconto onesto seppure benevolo, non è stata una passeggiata, ma la forza interiore, la voglia di emergere, certamente il desiderio di riscatto sociale e naturalmente le sue doti ne hanno fatto il campione che tutti conoscono. I meriti del regista vanno ascritti a una narrazione sobria, a riprese di eventi sportivi (le partitelle fra ragazzi e poi quelle fra i team svedesi) assolutamente credibili, alla scelta degli attori protagonisti dai nomi impronunciabili (Granit Rushiti e Dominic A. Bajraktani) e dei loro comprimari (padre e madre del nostro) tutti perfetti nei rispettivi ruoli. E’ legittimo porsi una domanda: può interessare un pubblico vasto ed eterogeneo? Non saprei, ma ai giovani tifosi che conoscono e amano il calcio, certamente il film piacerà e credo anche per fanatismo/fideismo agli adulti tifosi di Juve, Inter e Milan, …che, da noi, non sono pochi. Altro è chiedersi se I Am Zlatan, sia un film da Festival o Festa del Cinema, e lì qualche dubbio rimane.
data di pubblicazione:21/10/2021
da Antonio Jacolina | Ott 21, 2021
Per quale motivo, se non si è un appassionato, interessarsi ad un nuovo libro su ROMA? L’ennesima analisi di un accademico americano sul declino e sulla caduta dell’Impero? Niente affatto! Il libro di Harris è invece un libro interessante scritto con prosa scorrevole che genererà sicuro interesse fra i cultori di Storia, ma, potrà anche coinvolgere, soddisfare ed arricchire i neofiti offrendo uno scorcio di visuale divulgativa del tutto nuova su Roma e, “lato sensu” sul concetto eterno ed universale di Potere. Un approccio molto originale e moderno, una chiave di lettura diversa e stimolante su temi che si suppone spesso di conoscere già a sufficienza.
L’idea di Roma ed il concetto di Potere sono legati in modo indissolubile. L’Impero Romano è durato più a lungo di qualunque altro. E’ dunque legittimo per l’autore chiedersi cosa effettivamente sia il Potere e come, di conseguenza, per definirne la vera natura, si debba analizzare l’esercizio di questo potere all’interno di una determinata Società in un lungo contesto storico. Cosa e perché poi qualcosa andò storto per Roma? Perché Roma non riuscì più a mantenere la sua posizione? Cosa ne determinò la fine?
L’approccio innovativo di Harris, pur nei vincoli di sintesi espositiva dovuta alla lunghezza dell’arco temporale preso in esame, parte dalla sovrapposizione comparativa fra loro di vari e ben definiti periodi della storia romana per la durata di dieci secoli (dal 400 A.C. al 641 D.C.). Lo storico studia infatti le dinamiche del Potere dall’epoca Repubblicana al Principato; da Tiberio a Costantino; dalla morte di Costantino all’inizio dell’espansione araba. Più in particolare esamina poi a fondo il Potere Interno (il Soft Power nelle sue varie forme) rispetto al Potere Esterno.
Un criterio del tutto nuovo che analizza con una visione più ampia le idee astratte, i simboli, la propaganda, gli strumenti religiosi, culturali, economici e sociali che contribuirono a diffondere e mantenere il Potere di Roma, l’Idea di Roma stessa, l’accettazione di Roma Universale. E … di contro, esamina anche come questi stessi elementi intangibili, al loro venir meno, affievolirsi o contaminarsi con altre idee o valori religiosi, agirono sul processo di indebolimento di un Insieme non più in grado di tenere il passo con le necessità di mobilitare tutte le energie collettive per respingere le minacce alla sua stabilità. La forza propulsiva delle élite, la disciplina sociale, la lealtà al mito di Roma, l’ideale comune si frantumarono tutti perché minati dai dissidi, dalla frantumazione del corpo sociale e soprattutto dalle fratture causate dalle diverse fedi ed appartenenze.
Un approccio estremamente ambizioso quello di Harris: fare uno studio comparato sull’espressione del Potere in un millennio, focalizzando la sua ricerca sul soft power. Una visione che nessun altro lavoro aveva finora preso in esame. Una visione ampia ed omnicomprensiva ed una lettura moderna del passato che dovrebbe farci riflettere sull’espressione del Potere nei moderni “imperi”… quello Americano e quello Cinese.
data di pubblicazione:21/10/2021
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