da Paolo Talone | Nov 7, 2021
(Teatro Belli – Roma, 5/7 novembre 2021)
Il quinto spettacolo presentato sul palcoscenico del Teatro Belli per la ventesima edizione di Trend – nuove frontiere della scena britannica – è A number di Caryl Churchill. Una storia che racconta la relazione di un padre e un figlio, del loro passato e della ricostruzione della loro identità.
In questa pièce scritta nel 2002 – periodo in cui si discutevano le implicazioni etiche e culturali della clonazione di esseri viventi – Caryl Churchill porta in palcoscenico il dramma, colto al limite della sua consumazione finale, della relazione di un padre e un figlio. Il ragazzo scopre di avere dei cloni che girano per la città e chiede spiegazioni al padre, che conferma, con risposte balbettate e confuse, di aver fatto replicare in laboratorio il figlio che perse la vita in un incidente stradale insieme alla madre. In realtà il primogenito è ancora vivo e si presenta dal padre reclamando la sua unicità. La verità è che la madre del ragazzo si è suicidata e il padre, preso da sconforto perché persona vulnerabile, non seppe crescere un figlio problematico e psicologicamente fragile. Da qui l’idea di abbandonarlo e sostituirlo con una copia da poter educare da zero senza errori. Per vendicarsi del padre il figlio numero 1, il primogenito, uccide prima il suo clone e quindi sé stesso, gettando il padre nella più totale disperazione. Dall’esperimento però vennero alla luce altri cloni e uno di questi, ormai realizzato con un buon lavoro e una famiglia, incontra il padre. Trovandosi uno di fronte all’altro si scoprono somiglianze incredibili, nei gesti come nel vestire. Tuttavia, le risposte che il figlio da alle domande del padre non soddisfano il desiderio di questo di conoscerlo meglio, più a fondo. Un altro fallimento che fa comprendere come i figli non seguono necessariamente la strada che abbiamo programmato per loro e come la vita, anche quando è replicata, in realtà si dirige verso un corso individuale e irripetibile.
In questa versione di A number il padre, a cui dà corpo e voce Massimo Rigo, non ha nome. Così anche i figli, interpretati tutti da Giuseppe Pestillo, che rimangono solo un’entità numerica – come dunque suggerisce il titolo –, un esperimento di laboratorio. La scelta di Luca Mazzone sembra quella di voler presentare una relazione che conservi i caratteri di archetipo, uno specchio nel quale sia possibile trovare il riflesso di qualcosa che abbiamo vissuto, come genitori o come figli. Concorre a questa lettura anche lo spazio scenico, che risulta essere asettico, anonimo, e quindi capace di poter ospitare qualsiasi probabile scenario. Delimitato solo da un pavimento bianco e da una sedia, è come trovarsi davanti a un ring durante un incontro di pugilato dove seduti all’angolo, sotto la scarica di tanti colpi, si trovano ora il padre e ora i figli. L’uno che rivendica come proprietà la gestione dei figli visti come prodotti e gli altri che cercano una verità che di diritto, una volta cresciuti, gli è dato conoscere. E se l’idea che è alla base del dramma – i risvolti della clonazione nella relazione padre/figlio – e lo spazio in cui questo è raccontato sembrano allontanare la vicenda collocandola in un mondo surreale, è proprio il linguaggio a riportarci lì dove il testo vuole che siamo ovvero alla matrice fondante della nostra esistenza, al rapporto che ci lega indissolubilmente a qualcuno che ci ha preceduto, alla nostra unicità di figli e di esseri viventi e alla nostra sacra e inviolabile individualità.
data di pubblicazione:07/11/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 5, 2021
(Teatro Belli – Roma, 2/3 novembre 2021)
Farsi posto in una società che considera la diversità un abominio non è una missione semplice. Il monologo di Jo Clifford pone questa domanda spiazzante: se Dio ha creato l’uomo e la donna, ponendoli al centro di un equilibrio cosmico, che posto occupano nella creazione coloro che non si sentono né uno né l’altra?
La separazione della luce dalle tenebre è uno degli atti che, nel libro della Genesi, Dio operò all’inizio della creazione. Anche la scena pensata per God’s new frock – la nuova tonaca di Dio – presenta questa netta dicotomia: un palcoscenico vuoto e buio, abitato da una creatura meravigliosa, William, la cui fisicità intercetta guizzi di luce che interrompono il nero totale tutto intorno. Ma ben più che la divisione fra tenebra e luce è quella tra uomo e donna a essere preponderante nel testo. E la Genesi biblica è lo spunto da cui parte Jo Clifford per riscrivere una storia che appartiene alla nostra educazione. Fin da bambini abbiamo imparato a fare distinzione tra maschio e femmina, dimenticando o peggio non considerando coloro che possono trovarsi nel mezzo, che hanno un pizzico di entrambi. Tanto vale prenderne coscienza senza giudicare o pretendere di non vedere e vivere appieno la propria natura, senza vergogna o paura. È questa la maggiore provocazione che esce dal testo, che Massimo Di Michele intercetta con consapevole ironia, spogliando il suo personaggio in giacca e cravatta e rivestendolo di uno scintillante abito bianco di strass e paillettes. È una trasformazione lenta e dolorosa, che recrimina attenzione e considerazione, ma che non arriva a essere irriverente. La gestualità ostentata dal William “pubblico” è controbilanciata da una tenerezza struggente che appartiene al personaggio nel suo privato. Così anche additando l’affossamento del Ddl Zan come l’ennesimo atto contro un cammino di conversione laico al buonsenso, Massimo Di Michele – attento ad attualizzare il testo anche rendendo omaggio a due artiste simbolo della lotta per i diritti Lgbtq+, Milva e Raffaella Carrà – non è mai sgarbato o fastidiosamente sfacciato, perché non c’è modo più bello di chiedere rispetto che portandolo.
Usciranno dal teatro con un abito nuovo e scintillante coloro che saranno in grado di accogliere la provocazione, consapevoli che la bellezza e la benedizione appartengono a ogni essere creato.
data di pubblicazione:05/11/2021
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Nov 3, 2021
Janis e Ana, due donne single ed entrambe incinte, seppur con le dovute differenze, accettano istintivamente la propria gravidanza come un dono e decidono di portarla a termine. Janis è una fotografa di successo e ha già quarant’anni: il suo orologio biologico la induce con decisione a non rinunciare a quella che potrebbe essere la sua ultima occasione di diventare madre; Ana invece è un’adolescente spaventata, con un vissuto da persona poco amata, ma con una inespressa carica di profonda dolcezza che neanche lei sa di possedere che la spinge, tra mille dubbi, verso quella creatura che porta in grembo.
In Madres paralelas, che ha aperto quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed in cui è stata premiata con la Coppa Volpi Penélope Cruz proprio per il ruolo di Janis, Pedro Almodóvar torna su un terreno a lui caro, mettendo al centro quell’universo femminile con cui è in perfetta sintonia attraverso il tema della maternità. Ritratto intenso e sensibile, il film parla soprattutto di “senso materno”, di solidarietà ed altruismo al femminile, attraverso la descrizione di due donne, a loro modo libere ed alla ricerca della propria verità, portatrici di un dono immenso, ineguagliabile ed unico che prescinde dalla loro età o dalla loro condizione sociale, ma che parla di famiglia e di vita.
I destini di Janis e Ana si incrociano nella stanza di un ospedale dove sono state ricoverate per partorire, e da quell’incontro non nasceranno solo le bambine che portano in grembo, ma anche un sentimento di profonda “sorellanza”. Le poche parole che le due donne si scambieranno qualche ora prima del parto e l’inevitabile intervento del fato “almodóvariano”, creeranno un vincolo talmente forte che troverà uno sbocco inaspettato ed alquanto imprevedibile. Il film sorprende lo spettatore non solo per i noti temi cari al regista, ma soprattutto perché la storia ad un certo punto da privata vira verso un ambito politico netto, dichiarato, che si pone al centro della vicenda, in cui il parallelismo del concetto di maternità in senso lato diventa più importante dei destini privati delle due protagoniste ed in cui la verità che ognuna di loro sta cercando affonda le proprie radici nella storia del loro paese.
Questo risvolto sorprendente rende Madres paralelas un film insolito e profondo, con un cast straordinario ed una scena finale potente che fanno la differenza, in cui la vicenda privata lascia il passo alla ingombrante memoria storica del paese. La pellicola pur mantenendo intatte tutte le caratteristiche della filmografia di Almodóvar, regala agli spettatori una sfumatura inedita e nuova che non fa che accrescere il valore di questo artista tanto amato, che proprio a Venezia molti anni fa iniziò il suo meraviglioso cammino. Da non perdere.
data di pubblicazione:03/11/2021
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da Paolo Talone | Ott 30, 2021
(Teatro Belli – Roma, 29/31 ottobre 2021)
Terzo appuntamento per la rassegna di spettacoli della nuova drammaturgia inglese diretta da Rodolfo di Giammarco. Sul palco di Trend Arturo Cirillo è Wilfred, un uomo di mezza età inserviente in un parco pubblico, protagonista di “Playing sandwiches – il gioco del panino”, celebre monologo tratto dalla seconda serie dei Talking heads di Alan Bennett.
Nell’interpretazione di Arturo Cirillo, Wilfred appare come un uomo trasandato nell’aspetto e consumato dai pensieri. Lavora come addetto alla pulizia per una società di manutenzione di parchi e giardini. È intento a spazzare il terreno di gioco per bambini tra uno scivolo rosa e un muro pieno di scritte. I colori brillanti del luogo dove si trova contrastano di netto con la sua figura. La scena creata da Dario Gessati sembra la pagina di un libro illustrato per l’infanzia dove Wilfred si inserisce come uno scarabocchio fatto a penna, come quella scritta volgare che vandalizza la targa commemorativa del parco. Appare tormentato da una sconcertante solitudine, sia fisica che esistenziale. Non c’è nessun bambino a correre e a giocare intorno a lui nel parco, come del resto non c’è nessuno nella sua vita.
Nello stile di scrittura di Alan Bennett, personaggi in apparenza ordinari nascondono abominevoli verità ed è al pubblico che si rivolgono. Non fa eccezione Wilfred. Sotto la tuta blu da manutentore si cela un uomo responsabile di un terribile reato. Solo una confessione dolorosa potrà chiarire di cosa si tratta. Una prima indagine è condotta dal suo datore di lavoro, Mr Parlane, che tenta di ricostruire il suo stato di servizio, lacunoso in molti passaggi delle informazioni più banali sugli impieghi che ha ricoperto in passato. Mentre una seconda indagine, quella che il personaggio fa su sé stesso, ricerca le ragioni di una colpa che si incaglia nell’impossibilità di fornire una giustificazione. Arturo Cirillo sottolinea con attenzione questo secondo aspetto, oscurando il personaggio in attimi di riflessione e silenzio, dove appare chiaro che qualcosa dal passato torna a incastrarlo nel presente. Wilfred è un pedofilo e il lavoro nel parco gli offrirà l’occasione di ripetere il suo sbaglio ancora una volta ai danni di una bambina che lo aveva preso in simpatia. La verità è svelata e davanti a lui ora c’è solo la galera. Nell’isolamento della cella nella quale è rinchiuso si consumeranno i suoi ultimi pensieri. La solitudine, la lontananza dagli esseri umani, dalla società intera, sembra essere la soluzione ideale per evitare che cada di nuovo nell’errore. Eppure, questa condizione che appare come giusta, è in realtà la più sbagliata.
Una luce acida, verde di vomito e sporcizia, ora bagna l’altalena. Con questa immagine Arturo Cirillo congeda lo spettatore, ricordando che per quanto si possano ascoltare le ragioni di un carnefice a farne le spese comunque è un’infanzia violentata per sempre.
data di pubblicazione:30/10/2021
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Ott 30, 2021
(Teatro India – Roma, 26/31 ottobre 2021)
In un’atmosfera post atomica una figura femminile a metà tra il punk e il metal d’annata, armata di lance di ferro, contempla una struttura piatta e suggestiva di cartone che si rivela essere un cartamodello enorme che rappresenta una casa. La donna gli gira intorno. Lo osserva ed inizia una relazione con la struttura, dapprima eliminando furiosamente il superfluo e poi iniziando la costruzione e l’assemblaggio. Si apre così Maison Mère l’ennesimo interessantissimo lavoro della performer Phia Ménard che ne cura drammaturgia e regia, in scena al Teatro India di Roma dal 26 al 31 ottobre.
Armata di forza e intelligenza oltre che di semplice nastro adesivo, la donna prosegue l’opera di edificazione, con grande caparbietà, perché gli equilibri sono instabili. E’ uno sviluppo sorprendente, perché nell’immediato non si immagina quale possa essere la forma definitiva che la casa andrà a prendere; e pian piano cresce e si stabilizza al suolo trasformandosi in un tempio, proprio il Partenone, grazie ad una sega elettrica che le permette di trasformare le pareti in colonne. Ma una nuvola si addensa sulla scena, diventando sempre più oscura e minacciosa, generando una pioggia dapprima leggera e poi sempre più fitta ed insistente. La casa non ha capacità di resistere a lungo, cede inesorabilmente e si liquefa al pavimento.
Dopo una formazione in giocoleria con Jérôme Thomas, nel 1998 la performer Phia Ménard ha fondato la compagnia Non Nova mettendo sempre al centro dei propri lavori le questioni sociali quali l’identità, il genere, la difesa dei diritti dell’uomo. La Ménard ricostruisce un villaggio Marshall di cartone a dimensioni reali in memoria del nonno materno vittima a Nantes dei bombardamenti degli alleati nel 1943, facendo i conti anche con l’assurdità di quel famoso piano Marshall che gestiva la ricostruzione seguendo modelli di case prefabbricate. Ancora una volta sorprende con il suo linguaggio fatto di virtuosismi e di ripetitività, dal forte impatto e dalla diretta comprensione, trasformando gli elementi di scena in struttura. L’artista effettua una riflessione su distruzione e ricostruzione attraverso l’esperienza, la fisicità, tenendosi a debita distanza da qualunque altro significato. E quel Partenone gabbia, casa, edificio primordiale, che implode sotto il peso letale dell’acqua apre a riflessioni che si accavallano una sull’altra, vera forza di questo lavoro, così come la nuvola carica di pioggia e distruzione che è un monito per le persone che non devono perdere di vista i valori fondamentali di un’umanità che si va sgretolando giorno dopo giorno a favore di cinismo, interessi personali esterni alla polis e culto del denaro.
Crolla il Partenone simbolo di una Unione Europea che si frantuma giorno dopo giorno tra sovranismi e Brexit. Crolla la casa, archetipo di protezione e sicurezza, solidità e riparo, così come tutto crolla sotto il peso del tempo che ogni cosa ricopre, tutto cancella, crollo al quale si può solo assistere in disparte, con dolore e rassegnazione come fa la Ménard. Unica interprete in scena, l’artista costruisce la gigantesca casa di cartone senza esitazione, come una guerriera che affronta la battaglia. Niente sangue, solo sudore, quello della tensione tra un’architettura titanica e la sua costruttrice. Rimane il dubbio di chi sia. Una mortale o una figura mitologica? Una rifugiata dei nostri giorni o l’artefice della ricostruzione?
data di pubblicazione:30/10/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 25, 2021
(Teatro Belli – Roma, 25/27 ottobre 2021)
L’evoluzione di una coppia smarrita nel dolore dei propri ricordi. Un incidente da ripensare, esorcizzare in un gioco perverso e incomprensibile. Il dramma di Stu e Abby di Anthony Neilson sul palco del Belli per il secondo appuntamento di Trend – Nuove frontiere della scena Britannica – a cura di Rodolfo di Giammarco.
L’idillio iniziale mostrato da Stu e Abby, felici sotto le lenzuola, è interrotto bruscamente da una litigata, che avviene senza un motivo apparente. Dappertutto intorno a loro ci sono bottiglie di alcool e bicchieri di ogni forma. Siamo nella loro casa, siamo nella loro intimità. Momenti di complicità e tenerezza si alternano a bruschi scambi di opinioni e rinfacci. E poi un gioco perverso che li vede recitare la parte del cliente e della puttana, forse per distaccarsi dai propri sentimenti, forse per trovarsi estranei e dirsi che tra loro non c’è mai stato niente, non è stato mai costruito niente. Non capiamo molto, dobbiamo arrivare fino in fondo. È questo lo stitching – la cucitura delle parti – che dobbiamo fare nella nostra mente per recuperare l’immagine totale di questo dramma scioccante e imprevedibile scritto da Anthony Neilson. L’autore racconta questa storia come se tenesse tra le mani un cristallo prezioso e fragilissimo, che scaraventa a terra con la forza violenta del suo linguaggio esplicito e aggressivo. Il filo temporale del racconto si frantuma in mille pezzi, che la coppia Stu/Abby tenta di rimettere insieme attraverso i ricordi. Ma per quanto possano impegnarsi a ricostruire non riusciranno a recuperare un’immagine nitida e chiara di quello che erano prima del dramma. E il dramma sta nell’aver perso Daniel, il figlio che hanno voluto, che hanno cercato, che li ha mandati prima in crisi e poi li ha fatti ritrovare, il figlio che hanno deciso di tenere nonostante le paure.
Come regista, Alessandro Federico cuce uno spettacolo comprensibile nella sua complessità, conferendo alle luci uno straordinario potere narrativo e ritmico. Sul palcoscenico, come attore, funziona in coppia con Valentina Virando. I due attori non smettono di guardarsi negli occhi, di attendersi, di sfidarsi, di riprendersi e darsi il tempo. Uno spettacolo intenso che fonda nella struttura narrativa la sua potenza teatrale.
data di pubblicazione: 25/11/2021
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Ott 25, 2021
“Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere”. È l’estate del 1975: una tredicenne viene lasciata dal padre, senza troppe spiegazioni, presso un casale al centro di una campagna brulla, ed affidata ad una famiglia di contadini che scoprirà essere i suoi genitori biologici. Fortemente indigenti e con una nutrita prole, questi l’avevano ceduta a soli sei mesi di vita ad una coppia di cugini benestanti che non potevano avere figli e che, sino a quel momento, l’avevano cresciuta come fosse la loro bambina, in una bella casa in città, lontana da quella povertà rurale dell’entroterra abruzzese.
La giovane adolescente, con una valigia in mano, “restituita” dall’uomo che credeva essere suo padre a quella che invece è la sua vera famiglia d’origine, all’improvviso perde tutto il suo mondo, le sue amiche, la bella casa dove era cresciuta e si ritrova circondata dal silenzio e dall’indifferenza. Comincia dunque a patire il mutismo assordante di quella famiglia a lei estranea, diventando trasparente agli occhi degli adulti che l’avevano cresciuta e di quelli che l’avevano ceduta, come se tutti loro avessero perso la “memoria della sua esistenza”. Diviene invisibile. Come una rifugiata in terra straniera, la ragazza dovrà tentare di reinventarsi una nuova vita in un nucleo familiare, respingente e diffidente che, pur non appartenendole, è il suo. Solo la piccola Adriana, bambina sveglia e solare, a suo modo la accoglierà, traghettandola in quella vita che le è stata imposta senza alcuna spiegazione.
Unica pellicola italiana voluta da Monda in concorso ed applauditissima dal pubblico alla prima proiezione ufficiale durante la Festa del Cinema di Roma appena terminata, L’Arminuta di Boniti è un vero gioiello, rude e tenero al tempo stesso, che fa venire immediatamente voglia di leggere, per chi non lo avesse già fatto, l’omonimo potente romanzo di Donatella Di Pietrantonio, anche co-sceneggiatrice della pellicola. Molti sono i temi affrontati, da quello sui minori maltrattati o sradicati da adulti non responsabili, a quello sull’abbandono sovente collegato a maternità non consapevoli o non supportate da figure maschili idonee. Il film fa anche emergere certe terribili usanze praticate in alcune zone depresse del sud, in cui sino a qualche decennio fa venivano attuate “private” forme rudimentali di affido, per garantire ai numerosi figli di famiglie bisognose una vita migliore, soffermandosi soprattutto sugli strappi affettivi che privano le persone della propria identità (l’Arminuta non ha un nome, non ha un compleanno da condividere: è solo colei che viene restituita), e su quanto la conoscenza sia l’unico vero antidoto alla paura e al buio.
Il cast è eccezionale, ad iniziare da Sofia Fiore (l’Arminuta), struggente e dura al tempo stesso, suo malgrado temprata da quell’affetto materno negato, e la piccola Carlotta De Leonardis che impersona Adriana, bambina matura e disincantata ma che nonostante tutto ama ancora giocare e andare sulla giostra; un immenso Fabrizio Ferracane nel ruolo di un padre-padrone che non conosce il perdono e la comprensione, ma solo il silenzio e la forza delle proprie mani per infliggere punizioni, ed infine le due madri, ognuna infelice a modo suo, degnamente interpretate da Vanessa Scalera e Elena Lietti.
L’Arminuta è un piccolo grande film, di quelli che ci insegnano qualcosa, che ci allargano il cuore, che scalfiscono il muro dell’indifferenza e che ci inducono ad essere più aperti e generosi nei confronti dei più deboli.
data di pubblicazione:25/10/2021
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da Antonio Jacolina | Ott 25, 2021
La Festa si era aperta in concomitanza della bella notizia del ritorno al 100% del riempimento delle sale cinematografiche e teatrali. Quale migliore auspicio per una manifestazione che continuava “coraggiosamente e responsabilmente” a svolgersi, come l’anno passato, in presenza, pur con i condizionamenti del pass sanitario, delle mascherine e dell’obbligo per tutti di prenotazione on line degli spettacoli che si intendevano vedere. Un condizionamento quest’ultimo che toglieva quella sensazione tipica dei Festival di poter liberamente seguire l’istinto o cogliere al volo le “voci” per privilegiare all’ultimo momento la scelta di un film piuttosto che un altro, scoprendo spesso, in tal modo, dei piccoli gioielli. Ci si abitua però a tutto e ci si abitua pure al terribile algoritmo che decide la fila ed il posto … e se ne coglie il positivo quando il sistema funziona e l’intera macchina funziona. E, va detto che la Festa tutta, ha veramente funzionato senza sbavature sotto tutti i punti di vista: organizzazione, gestione, rapporti, quantità e soprattutto qualità! Non era scontato visti i tempi di profonda crisi produttiva del mondo cinematografico a causa della perdurante pandemia.
Lo confermano le cifre fornite a consuntivo dal Presidente Laura Delli Colli e dal Direttore Antonio Monda: un totale di quasi 60.000 ingressi fra spettatori paganti ed accreditati negli 11 giorni di Kermesse e di proiezioni, pari ad una copertura dell’89% dei posti disponibili. Un indubbio risultato, un bel segno di rinascita e di speranza dopo i momenti bui del recentissimo passato!!
Un merito che va riconosciuto alla manifestazione, alla sua struttura e soprattutto a Monda, il Direttore che la guida già da 7 anni e si spera possa essere riconfermato e possa così cogliere i frutti della “ripartenza” del settore per le prossime edizioni.
La Festa è stata caratterizzata dalla gran varietà delle tematiche e del tipo dei film offerti con anche una presenza significativa e qualificata di testimonianze di artisti e star internazionali (cosa non scontata visti i condizionamenti imposti dal Covid). I film in concorso o solo presentati rappresentavano sia paesi ove l’industria cinematografica è consolidata per qualità e quantità di prodotti, sia paesi ove il cinema muove ancora timidi passi. Poteva sembrare, di primo acchito, che quest’anno dovessero mancare o mancassero, gioco forza, i grandi titoloni o i successi già preannunciati, ed invece, quasi come in un crescendo musicale, sono emersi, in assoluta sintonia di valutazioni sia dei critici che degli appassionati di cinema, tutta una serie di film di gran qualità, per contenuto, per interpretazione o per regia. Film di cui sentiremo parlare e che vedremo accolti con successo quando appariranno sugli schermi in sala cinematografica.
Il Premio del Pubblico secondo i voti espressi, come da tradizione romana, dagli spettatori è andato meritatamente a MEDITERRANEO di Marcel Barrena di cui ci parlerà più in dettaglio la nostra Panerai. Meritano comunque una menzione anche titoli come C’MON C’MON, BELFAST, LES JEUNES AMANTS e CYRANO, solo per citarne alcuni.
La sezione autonoma e parallela dedicata ai giovani: ALICE nella CITTA’ ha poi assegnato il premio della sua giuria per il migliore film a PÈTITE MAMAN di Céline Sciamma; quello per la migliore regia è stata correttamente assegnato a K. Branagh per BELFAST.
Forse qualche aspettativa delusa, qualche previsione sbagliata, ma nel complesso la qualità generale dei film presentati è stata molto buona a riprova delle buone scelte operate dagli organizzatori che unitamente alla significativa e partecipe presenza di pubblico sono un buon segno ed anche una conferma, nel loro complesso, di una vitalità e qualità ormai stabilmente acquisita.
Una Festa dunque con alcuni ottimi film, diversi buoni film, varie prove autoriali ed anche qualche gioiellino piccolo piccolo che fa buon cinema e che speriamo possa uscire sui nostri schermi.
Appuntamento di nuovo a ROMA 2022!!
data di pubblicazione:25/10/2021
da Rossano Giuppa | Ott 25, 2021
Il mondo visionario e affascinante dell’infanzia raccontato al presente, con uno sguardo delicato e profondo. È Petite maman, il nuovo film di Céline Sciamma presentato in concorso a Berlino 71 e ad Alice nella città durante la Festa del cinema di Roma e presente dal 21 ottobre nelle sale cinematografiche italiane. E’ la storia di Nelly (Josèphine Sanz), una bambina di otto anni che si ritrova nella casa d’infanzia della madre Marion in seguito alla morte della nonna. Marion è distrutta, non sa come gestire la situazione, e a un certo punto se ne va, lasciando Nelly sola con il padre. La piccola, mossa da una grande curiosità esce di casa per esplorare il bosco circostante, e a un certo punto si imbatte in una coetanea (Gabrielle Sanz, sorella gemella di Joséphine), che sta costruendo una capanna. Le due diventano subito amiche, e Nelly impara a conoscere la famiglia di questa bambina apparsa dal nulla, il cui nome, guarda caso, è Marion.
Un film fiaba che colpisce nel profondo chi lo guarda, lasciandolo incantato ed emozionato, una poesia sull’amore, la famiglia, il lutto. Nelly non è riuscita a salutare la nonna prima della sua morte, è la prima volta che perde qualcuno che ama e deve confrontarsi anche con il dolore di sua madre Marion (Nina Meurisse) che scorre ad un ritmo diverso dal suo. Con i suoi genitori inizia a svuotare la casa d’infanzia della madre immersa in un bosco in cui un tempo c’era una casetta di legno di cui la bambina aveva tanto sentito parlare. Immerso in un’atmosfera sospesa nel tempo, in un autunno caldo e sognante, il film compie una vera e propria magia regalando a Nelly una seconda possibilità: quella di rivedere sua nonna e conoscere sua madre bambina. Un desiderio che forse appartiene ad ognuno di noi.
Petite Maman racconta di un viaggio nel tempo che non guarda al passato o al futuro ma si muove nel presente. Céline Sciamma elude l’immagine della morte grazie alla potenza della memoria, per cui nessuno scompare davvero e basta semplicemente un oggetto, un vecchio bastone, dei giocattoli di un’altra epoca, per continuare a sentire la persona vicino al proprio cuore. Le due bambine hanno così l’opportunità di conoscersi in un mondo magico in cui preparano crêpes e bevono latte al cioccolato, mettono in scena recite e costruiscono casette di legno secondo una sintonia di anima e corpo che permette loro di integrarsi definitivamente.
Dopo il successo di Ritratto della giovane in fiamme di due anni fa, Céline Sciamma firma un’altra pellicola stratificata e complessa, capace di esplorare ancora una volta il tema dell’identità, da sempre uno degli argomenti più significativi del suo cinema.
E come ogni fiaba, Petite Maman è fatta di case e sentieri, di luoghi non luoghi da abitare o disabitati che nascondono storie, porte e oggetti che collegano spazio, tempo e identità. Così il rapporto tra una bimba, la mamma e la nonna, diventa un viaggio intimo in cui ogni singolo elemento ha un suo preciso senso e una sua precisa funzione.
Petite maman, con la sua complessità poetica, è uno di quei film da studiare per scoprire la magia che può creare la macchina da presa, senza clamori ed effetti speciali, ma solo raccontando i sentimenti.
data di pubblicazione:25/10/2021
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da Daniele Poto | Ott 24, 2021
(Teatro Manini – Narni, 23 ottobre 2021, anteprima nazionale assoluta)
L’irrisolta contraddizione dell’affare-Pasolini. Scena scabra ma colma di ingombranti significati alluvionali. L’Italia è il Paese dell’eterno trasmutante fascismo?
Quando il perfetto affabulatore Celestini nel prologo pre-scena dispone un copione pro-memoria sull’impiantito del palcoscenico si ha l’esatta sensazione che non ne avrà mai bisogno per tutti e 105’ i minuti della rappresentazione. Dizione e scansione precisa che sembra prefigurare una cronologia un po’ didattica della vita di Pasolini, nato a Bologna nel 1922, l’anno significativamente della Marcia su Roma. Ma quando sembra che il trend debba seguire questo piano lineare l’autore-attore-regista, divaga e riempie la storia di svolte pertinenti (ossimoro) ricostruendo una vicenda nazionale ricca di intrighi, di servizi deviati, di strategia della tensione. C’è un marcatore sensibile che è quasi un tormentone leit motiv. Anno ics della dittatura fascista. Dal 1922 in poi. Ma anche nel 1975, l’anno dell’assassinio di Pasolini, mostrato, con prove documentali, come opera di più persone e non del solo “Rana” Pelosi, un ragazzotto con cui lo scrittore, ben muscolato, avrebbe fatto fisicamente almeno gioco pari. Pochi oggetti e qualche sottofondo musicale a contrappuntare la lunga sfilata di supposizioni. C’è la paura del comunismo, eterno stigma nostrano, la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. Dunque Pasolini è il pretesto ma anche il centro di un dopoguerra fatto di troppe bugie, di troppe macchinazioni. E Celestini si fa uno, nessuno e centomila immaginando percorsi cittadini di periferia con lo scrittore, ipotesi del suo vissuto negli anni ’50. C’è anche qualche registrazione d’epoca che ci restituisce la vita di protagonisti di questo grande affresco dove un solo grande protagonista riesce a narrarci un’inestricabile vicenda corale. Alla fine successo di pubblico indiscutibile, con la prova generale già alle spalle, in vista di una fortunata tournee civile. Con la minaccia evitabile di qualche contestazione vista la forza dell’assunto ideologico che sottintende la narrazione.
data di pubblicazione:24/10/2021
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