da Daniele Poto | Dic 3, 2021
One man show meglio dal vivo che dal morto, il comico da strada vedendosi vietata quest’ultima, ha fatto di necessità virtù e dall’interno della propria abitazione ha scortato presso presso la pandemia giorno dopo giorno con un diario di viaggio, ruspante e familiare. Appena sveglio, in vestaglia, in condizione di trasmissione telematica di emergenza, da solo o con ospiti, condominiale o solitario Nanna, ha reso più allegra, meno dura e più ricca di speranza la vita di centinaia di persone che hanno seguito i suoi collegamenti. E questo libro è il diario di viaggio nel tunnel della pandemia, ricco della sferzante ironia che lo ha resto celebre nel porta a porta e nella comunicazione verbale delle sue scorribande comiche, magari in coppia con Stefano Vigilante. Una descrizione fedele che registra i lutti, i sussulti della campagna, i profondi attimi di sconcerto, le illusioni, la dura quotidianità dell’esistenza. Così le dirette diventano testimonianza di un periodo che sogniamo ancora di lasciarci alle spalle. Se la letteratura pandemica non è stata gettonata nel biennio per ovvi motivi di rigetto, la traccia comica, auto-ironica e autocritica invece ha spalancato sentieri che il nostro autore ha agevolmente e disinvoltamente percorso con quella sana faccia tosta romana di periferia che lo contraddistingue. Dunque, non vi attendete nel libro concioni ideologiche o sofisticazioni intellettuale ma una sana voglia di comunicazione e il desiderio-mozione di uscire dalla palude, tutti insieme, magari tenendosi per mano e scacciando il maleficio con una battuta, un esorcismo. Dunque un manuale terapeutico e un’indicazione per il futuro oltre che un lieto auspicio. I collegamenti in quarantena sono stati un inno alla creatività e una soluzione per assistere menti turbate per le quali una risata ha avuto un effetto estremamente liberatorio. Leggendolo il cinque lo abbiamo battuto idealmente con lui un sacco di volte. Grazie Paolo, per questo enorme regalo collettivo.
data di pubblicazione:03/12/2021
da Antonio Jacolina | Dic 3, 2021
Montana 1925, i fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) dirigono uno dei più vasti allevamenti del Territorio. I loro caratteri ed aspetti fisici sono diametralmente opposti. Il primo, pur colto, ostenta atteggiamenti rudi, collerici esteriormente virili e rozzi, il secondo è timido e gentile. Quando quest’ultimo sposa la dolce ma fragile Rose (Kirsten Dunst) giovane vedova e madre di un adolescente sensibile ed effeminato e li porta a vivere nel ranch, Phil reagirà contro gli intrusi con una strategia sottile, sadica, spietata ed ambigua, fino a ….
Finalmente dopo 12 anni di assenza ecco tornare Jane Campion. Presentato a Venezia ove ha vinto il Leone d’argento per la regia, quest’ultimo lavoro della cineasta neozelandese ci conferma che il suo talento, la sua mano, la sua delicatezza espressiva non si sono affatto affievoliti. Tutt’altro!!
Diciamolo subito, a scanso equivoci, il film non è affatto un western, semmai è un finto western in cui la Campion destruttura i codici del genere e ne usa gli sfondi naturali per disegnare un vasto dramma psicologico dalle molteplici sfaccettature. Un dramma fra mascolinità torbida ed esteriore e dissidi interiori e repressi. La regista risuscita certo alcuni stilemi tipici del vecchio western classico ma non ci sono però pistoleri, scazzottate o duelli, il mito del cowboy è riportato alla sua realtà originaria di vaccaro, di allevatore e di proprietario terriero. La Campion però è indubbiamente innamorata del genere e, senza forzature nostalgiche, sa disseminare il film di riferimenti e citazioni dei grandi registi (John Ford in primis) che fanno la gioia degli appassionati e che servono alla regista per far notare i segni e le tematiche della modernità che avanza inesorabile. Un confronto fra la fine di un’epoca che è già leggenda e l’affermazione definitiva della nuova era.
Come sempre nei suoi film, la messa in scena della Campion è splendida ed è capace di catturare tanto la maestosità e la vastità degli ambienti che sovrastano uomini, cose ed animali (un Montana tutto neozelandese) quanto la bellezza dei dettagli. Il grande ed il piccolo in una simbiosi che si ritrova in tutto il film e che, a tratti, ricorda il migliore Terrence Malick. Tutto assume importanza ai fini della narrazione, soprattutto i dettagli!! La fotografia poi è splendida, un lavoro su luce e colori che va ben al di là del mero estetismo. Un film da vedere sul grande schermo! peccato che sia passato in sala solo per due settimane prima di essere messo in onda su Netflix.
Il Potere del Cane è un bel film ma è complesso e denso di simboli e significati, un film intimista in cui il non detto, l’accennato è più che rilevante, la suggestione è più importante del manifesto. Un’eccezionale analisi dell’animo umano e delle sue ambiguità. La regista nel farlo si prende i suoi tempi e governa magistralmente tutta l’evoluzione della storia usando ritmi lenti, una sinfonia in crescendo, quasi una tensione trattenuta, senza mai però perdere vigore, restando sempre coinvolgente. Il racconto è diviso in capitoli che seguono il corso dei fatti, delle stagioni e l’evoluzione dei personaggi ed i rapporti fra loro. Ben lungi dal tener lontano lo spettatore tutto ciò, al contrario, lo avvolge e lo coinvolge piano piano, nel sottile ingranaggio e nel gioco perverso dei protagonisti fino a quando, alla fine, le apparenze si dissolvono.
Ulteriore punto di forza del film è poi anche l’ottima performance del quartetto di attori. Al centro e su tutti brilla Cumberbatch. Assolutamente una delle sue migliori interpretazioni tutta giocata sul non esplicito, sul gesto, sulla sfumatura e sull’intensità. L’attore domina il film con la sua presenza.
Pur senza eguagliare i precedenti capolavori della Campion, Il Potere del Cane è senza dubbio un film di autentica elevata qualità, non certo facile, direi impegnativo ma affascinante. Un film in cui la Campion si conferma eccelsa maestra nel fondere gusto estetico, grande spettacolo e studio dell’essere umano.
data di pubblicazione:03/12/2021
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da Paolo Talone | Dic 2, 2021
(Teatro Belli – Roma, 29 novembre /1 dicembre 2021)
Spettacolo tutto al femminile, realizzato da una compagnia di giovani talenti. Lou e Tosh sono legate da una profonda amicizia che per loro è una forma di amore. Un testo contemporaneo, non convenzionale. Ulteriore conferma della proposta sempre attuale per Trend di Rodolfo Di Giammarco.
Lou e Tosh hanno un’amicizia così stretta e simbiotica che l’intervento dell’una va a vantaggio dell’altra e viceversa. Abitano nello stesso appartamento, uno scrigno ben arredato e confortevole che le tiene lontane dal mondo esterno. Il colore fucsia della moquette è dominante, riveste le pareti e il pavimento; l’ambiente è confortevole, rassicurante, ma anche allegro e frizzante. Le due amiche sono nell’età in cui è finalmente ora di lasciare la casa dei propri genitori, ma è ancora troppo presto per sposarsi e farsi una vita propria. Anzi, non vogliono neanche per scherzo sentir parlare di fidanzamento, matrimonio o figli. L’unico scopo dichiarato con forza e determinazione è proprio quello di deprogrammarsi dalla narrativa tipica, che vuole la donna oggetto passivo dell’amore di qualcun altro. Per questo una situazione abitativa, che dovrebbe essere socialmente provvisoria, diventa lo scopo ultimo della missione che Lou e Tosh si sono proposte di raggiungere.
Gli uomini sono visti come un pericolo che affossa la vitalità femminile, una minaccia alla volontà di essere autonome e realizzate. Per questo li trattano come oggetti per sfogare la sessualità, come fa Lou che parla di loro solo in riferimento all’organo genitale, o li allontanano totalmente, come fa la frigida Tosh. Imporsi di non provare sentimenti, non coinvolgersi emotivamente in nessuna storia è il loro patto. Vivere per sempre una fase post-ragazzo è quello che le renderà libere. Regalarsi dei fiori è il gesto che sugella la loro attenzione reciproca, la loro volontà di prendersi cura l’una all’altra. Poi però arriva Fran, ex-inquilina del loro appartamento, che ha scelto di legarsi a un uomo e quindi seguire un iter convenzionale. È la pietra di inciampo che crea scompiglio e fastidio, ma allo stesso modo provoca discussioni che mettono in crisi la determinazione di Lou e Tosh. L’equilibrio iniziale si interrompe. Tosh tradisce il patto e si allontana per poi ritornare e chiudere così la narrazione in un cerchio perfetto.
Buona la connessione sul palco fra le giovani attrici Chiarastella Sorrentino, Chiara Gambino e Giulia Chiaramonte. L’esperienza saprà modellare certamente i loro talenti in crescita e magari fornire gli strumenti per stemperare le emozioni, così da renderle più reali. Tuttavia sono fedeli ai personaggi che interpretano: estreme, passionali, a volte inspiegabilmente aggressive, ma in fondo dirette e brillanti, come quella tinta fucsia che domina la scena.
data di pubblicazione:02/12/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 2, 2021
(Teatro de’ Servi – Roma, 1 dicembre 2021)
Una donna divisa a metà. La passione per il teatro, le esigenze della famiglia e di un lavoro stabile. Una precarietà che fa da sfondo comico non vittimistico per un personaggio su misura dell’interprete Marina Vitolo. Una stand up comedy condita da molta musica con canzoni vecchie e nuove da riscoprire.
Teatro leggero, lieve, piacevole. Cabaret con musica. Le vicissitudini di una donna divisa a metà (come tante oggi), sospesa tra il desiderio di un inquadramento stabile e professionale nel mondo dell’arte e le tante delusioni riservate dall’apprendistato in un mondo fatto di provini di termini quasi inaccessibili come shooting o flyers. Sulla soglia dei cinquanta anni tutto diventa più difficile per un’attrice che non fa dell’estetica un punto di forza ma ha la giusta pretesa di appoggiarsi alla bravura. Esistenza forzosamente schizofrenica ma protesa verso un ideale realizzativo di problematico compimento. Dunque vita e finzione collidono nel progetto scenico di fronte a un pubblico ben disposto, vellicato da musiche d’occasione, scelte come da un jukebox dai testi di scena. Con le Incoronate comiche, un progetto in itinere, la Vitolo si sente meno sola per uno spettacolo che legittimamente per le sue premesse non può durare più di sessanta minuti. Marina è forte e determinata e fa pesare la sua napoletanità, quella cazzimma che è una sorta di valore aggiunto per tutte le espressioni più vitali della comunicazione. Le note sono un pigmento ferace ed è buona l’armonia per le partner di scena: una capace e ironica cantante, la collaboratrice che sottotitola per i non udenti ma partecipa brillantemente all’azione e il figlio che asseconda felicemente il tappeto sonoro. Replica unica e sola prima di spostamenti in altri teatri romani alla ricerca del perfetto cocktail empatico.
data di pubblicazione:02/12/2021
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Dic 2, 2021
Paolo Sorrentino racconta in maniera semplice, quasi scarna rispetto al suo stile, sé stesso e la sua famiglia d’origine, le sue passioni, la sua Napoli, il Napoli e Maradona, e di come a soli diciassette anni la sua vita prese una svolta inaspettata di crescita veloce e amara quando, in un solo giorno, il destino intrecciò passione e morte. Da quel momento Paolo, che nel film è Fabietto, dovrà sforzarsi di capire che essere abbandonati non è come rimanere soli perché si può comunque attingere a quel tesoro interiore, alimentato dai contesti familiari e sociali, e poterlo un giorno raccontare: “ma è mai possibile che ‘sta città nun te fa veni’ in mente niente ‘a raccunta’? A tieni qualcosa a raccunta’? E dimmella”.
Siamo a Napoli negli anni ottanta e Fabio Schisa (detto Fabietto) è uno studente di liceo classico che vive con i genitori Saverio e Maria, suo fratello Marchino e sua sorella Daniela, entrambi più grandi di lui. Saverio è direttore al Banco di Napoli, Maria casalinga, entrambi si interrogano su ciò che il ragazzo vorrà fare nella vita; ma Fabio, timido e impacciato come la maggior parte dei suoi coetanei, non ha delle aspirazioni precise ed osserva il mondo circostante con molta curiosità preferendo frequentare un giovane contrabbandiere che lo diverte molto o seguire le strampalate ambizioni cinematografiche del fratello che tenta, senza riuscire, di fare la comparsa in un film del grande Fellini. Il ragazzo però una certezza ce l’ha: la venerazione per Diego Armando Maradona, il “Pibe de oro”. Sono proprio quelli gli anni in cui il campione argentino verrà acquistato dal Napoli che vincerà di lì a poco lo scudetto, scrivendo la storia del calcio e di una certa napoletanità che per sempre rimarrà grata al grande campione.
Si piange e si ride, come raramente accade al cinema, in questo film in cui divertimento e tragedia, visione e realtà, superstizione e sensibilità si intrecciano, re-inventando il passato. Presentato al Festival di Venezia, dove la pellicola ha vinto il Premio della Giuria e Filippo Scotti (Fabietto) il Premio Marcello Mastroianni, È stata la mano di Dio è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione miglior film straniero.
La pellicola si discosta molto dalla precedente filmografia del regista partenopeo. Troviamo in essa solo in parte il mondo immaginifico e visionario di Sorrentino, soprattutto nella descrizioni di certi personaggi eccessivi come Alfredo, la Baronessa Focale, la donna più cattiva di Napoli, Marriettiello, Antonio Capuano o nel rapporto di grande affinità elettiva che Fabietto ha con la procace zia Patrizia (interpretata da una sorprendente Luisa Ranieri, bellissima e afflitta da una inconsolabile tristezza). Da lei il ragazzo (e non il solo) è sicuramente attratto, ma è anche l’unico a comprenderne il desiderio profondo di maternità che Patrizia tenterà di esaudire grazie ad improbabili incontri con San Gennaro “in persona” o alle apparizioni di un piccolo monaco portafortuna, figura esoterica della tradizione partenopea detto “O’munaciello”.
Il film è un malinconico e contagioso racconto di una vita familiare passata ma indelebile, inondata da una galleria di personaggi, alcuni veri e altri inventati o trasfigurati, come la sorella Daniela chiusa in bagno per tutto il film; una vita fatta innanzitutto di spensieratezza, allegria, di scherzi a parenti e vicini, di amore profondo per i propri genitori, ma anche di dolore sordo, di disorientamento ed abbandono. Il tutto si traduce in una sorta di confessione pubblica a posteriori, che arriva solo dopo aver ampiamente dimostrato di avere “qualcosa da raccontare” e che non fa che aggiungere interesse a ciò che Sorrentino vorrà ancora raccontarci.
data di pubblicazione:02/12/2021
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da Antonio Jacolina | Nov 29, 2021
Proseguono le avventure di Assane Diop (Omar Sy) “ladro gentiluomo” emulo di Arsenio Lupin, anzi, riprendono proprio là ove erano state interrotte al termine della Prima Stagione con il rapimento del figlio di Assane … Riuscirà il nostro Assane/Lupin ad avere finalmente giustizia e rivendicare l’onore di uomo onesto del padre e sciogliere così la sua ossessione per la vendetta?
Con qualche mese di ritardo dalla sua uscita ad inizio Estate, abbiamo avuto modo di vedere la Seconda Stagione di LUPIN, la miniserie francese che ha risvegliato, con il suo discreto successo, la Lupin/Mania (basta passare in libreria e vedere quanti libri sul ladro gentiluomo sono stati ristampati anche qui in Italia).
Questa nuova serie si iscrive nella completa ed assoluta continuità della precedente. I cinque nuovi brevi episodi (ca. 45 minuti) conservano la stessa efficacia di mero divertimento e di passatempo gradevole che era e resta negli obiettivi concreti dei realizzatori. Un prodotto, come già dicevamo, che non vuole affatto essere un capolavoro ma che punta, nel suo genere, ad essere efficace, innovativo, piacevole e costruito proprio per essere tutto ciò che serve ad una Serie TV per arrivare a toccare un pubblico vasto, familiare ed intergenerazionale. Accennare cioè a tanti temi badando bene però a restare solo in superficie, avvalendosi di storie e personaggi legati agli archetipi ed ai clichè in un susseguirsi continuo di colpi di scena. L’equivalente 2.0 dei buoni vecchi feuilleton, i romanzi popolari d’appendice di fine Ottocento.
L’arco narrativo riprende proprio là dove si era interrotto, sulla spiaggia di Etretat con il rapimento del figlio di Assane/Lupin e prosegue poi a Parigi ed è altrettanto ricco di azione, ritmo, avventure e sorprese. Ovviamente l’effetto novità della prima Stagione si perde ed il plot è ormai conosciuto e “l’intrigo” è spesso prevedibile anche perché gli sceneggiatori giocano ormai a carte scoperte. Nell’insieme però la nuova miniserie resta ancora gradevole, con gli stessi pregi e gli stessi difetti, ed in più, maliziosamente, una Parigi notturna e diurna usata con una “ruffianeria” tanto piacevole a vedersi quanto smaccata nella realizzazione. Ci sono ovviamente delle incoerenze, delle situazioni poco credibili ed i personaggi di contorno continuano ad essere ancora disegnati in modo superficiale e manicheo, soprattutto fra i “cattivi”, e ad essere interpretati in modo altrettanto superficiale. Ma, quale è la Serie per famiglie che è totalmente priva degli stessi difetti? Quindi, visti gli obiettivi, tutti gli elementi possono essere tanto difetti quanto anche pregi al tempo stesso!
Rispetto alla Prima Stagione questa volta è però cresciuto il “taglio” internazionale, con l’uso (come dicevamo) di una Parigi da cartolina, il ricorso a scene d’azione o spettacolari molto ben confezionate per un prodotto televisivo, girate spesso anche in esterno e con un notevole ed evidente dispendio di mezzi e risorse investite.
Ovviamente al centro di tutto resta sempre lui, Omar Sy, affabile e sorridente, con il suo carisma, la sua simpatia, la sua fisicità e la sua caratterizzazione che riesce a rendere vivo, interessante ed accettabile il personaggio.
In conclusione una Seconda Stagione ancora una volta divertente, ironica ed intrigante che, comunque sia, cattura piacevolmente lo spettatore e … prelude già ad una Terza. Non sarà di certo la Serie del decennio né dell’anno, ma è piacevole da seguirsi e da scordarsi poi subito dopo, proprio come un feuilleton!
data di pubblicazione:29/11/2021
da Daniele Poto | Nov 25, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 23/28 novembre 2021)
Raggelante ma pur commovente invettiva del furente scrittore e drammaturgo austriaco contro il suo Paese. L’arte è povera e demitizzabile ma è pure uno dei pochi strumenti di salvezza e riscatto..
Tre attori (due parlanti, uno muto) rivolgono per quasi tutta la durata dello spettacolo le spalle al pubblico. Si girano quando parlano tra loro anche se c’è sentore di monologo. Il resto del tempo è dedicato all’osservazione di un quadro nella più prestigiosa Pinacoteca di Vienna, pluricitata. L’ipocondriaco protagonista riflette sulla mediocrità di quello che lo circonda trovando un sia pur momentaneo sollievo nella Sala Bordone dove riflette sull’insopportabilità dell’Austria, sui suoi troppo esaltati artisti. Un elogio della solitudine un po’ paranoica che diventa la metafora dell’esilianda condizione umana. Gli antichi maestri sono consolatori anche se hanno chiari limiti. Dunque Beethoven, Mozart, Durer sono oggetti di feroci stilettate del severo recensore che appare afflitto da depressione (ha perso la moglie) ma conserva lucidità e un perfido spirito critico. Drammaturgia ineffabile e quanto mai attuale. Il rito della visita alla Pinacoteca si ripete immancabilmente da trent’anni, seguito dalla permanenza in un albergo viennese. Abitudini che aiutano a vivere mentre la vita scorre accanto insolente. Nulla sfugge alla banalità dell’esistenza, neanche i divertimenti del Prater. Ma poi c’è da accontentarsi cercando compagnia in un teatro per assistere a uno spettacolo di Kleist. Tempi drammaturgici perfetti per un’opera di rara concisione ed efficacia. Il linguaggio occupa saldamente la scena e lo smontaggio dei quadri è l’anticipo di un finale in qualche modo consolatorio e riparatore. Tiezzi & Lombardi si confermano all’altezza di un eccellente curriculum accompagnati dagli applausi di un pubblico fortemente solidale con l’impeccabile drammaturgia. La riflessione sull’arte è potente e quanto mai attuale.
data di pubblicazione:25/11/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 24, 2021
Pellicola di genere, confezionata nel 2019 e sfornata, con grande anticipo sulle prossime festività, come un cine-panettone, a novembre 2021. Con un’implicita commemorazione: l’ultimo film di Gigi Proietti. Che non gli rende merito, colpa della modesta regia e di una sceneggiatura davvero minimale.
Film di buoni sentimenti ma dai risultati tristanzuoli per una platea di under con gli over tentati dall’uscire dopo il primo tempo che si conclude con un’overdose di effetti speciali. Figurarsi, sulla slitta di Babbo Natale (Proietti) il tardo peccatore Giallini viene trasportato in una sorta di miscellanea dei luoghi comuni a Parigi e Londra per distribuire i regali di Natale. Intristisce constatare come un attore come Proietti si sottoponga a una dolorosa prova d’attore quando il male lo stava già minando. E le scene in cui si accompagna a un bastone sono realistiche e immaginifiche sui suoi ultimi mesi. Se in America per i noti problemi sul mercato del lavoro faticano a reclutare i Babbo natale, qui c’è uno sfornato con una creatività minimale. Capace di accogliere e dare asilo a un ex detenuto senza arte né parte. Ovvio che il buono per eccellenza redima il cattivo e gli faccia persino ritrovare la gioia degli affetti familiari perduti (moglie e figlia). Il plot ha una prevedibilità esagerata e nessun guizzo. Gl attori stano stretti in panni troppo prevedibili con la melassa del buono che digrada in un buonismo d’accatto. Purtroppo, tendenza generale, i bravi attori italiani (anche Favino, anche Germano) troppo spesso accettano proposte che più che valorizzarli li sviliscono. Alla fine di questo film viene voglia di urlare: “A ridatece Rocco Schiavone”. Giallini avrò occasione per riscattarsi, Proietti (mai valorizzato sui set) purtroppo no. Alla fine della proiezione rimane un vago senso di malinconia. Più che per l’occasione perduta, per lo spreco di ambizioni frustrate.
data di pubblicazione:24/11/2021
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da Rossano Giuppa | Nov 23, 2021
(Teatro India – Roma, 19/21 novembre 2021)
In scena per soli tre giorni al Teatro India di Roma Tiresias, spettacolo di Giorgina Pi e Bluemotions con Gabriele Portoghese (Foto di Claudia Pajewski). Le parole del poeta, rapper e performer Kate Tempest racchiuse in Hold your own / Resta te stessa prendono vita nella performance del mito dell’indovino Tiresia: la storia si rifà ad una delle tre versioni di Apollodoro che raccontano il mito della cecità di Tiresia, reso cieco dall’ira di Era e fatto dono della veggenza da Zeus.
Il dramma che diventa forza, a metà tra l’umano ed il divino. Tiresia ha vissuto più vite in una: è stato prima uomo, poi donna, poi di nuovo uomo ed è l’unica persona capace di rispondere all’interrogativo di Giove ed Era, ovvero chi provi più piacere tra uomo e donna. Proprio la sua risposta a favore dell’uomo genera l’ira della dea e darà origine alla sua cecità che però diventa anche un potere grazie a quanto donatagli a parziale compenso da Giove. Pagando con la cecità il privilegio di conoscere e dire il vero, l’indovino vive da sempre fino in fondo forme e situazioni diverse, con la capacità di guardare dentro alle cose della vita senza sfuggire alla loro verità, anche se sa che il suo destino è quello di non essere ascoltato e creduto. Gli fanno eco e compagnia, suoni e voci di un tempo lontano e prossimo, provenienti da un dj set che mixa misteriosi e simbolici vinili le cui copertine recano impresse solo le grandi iniziali del nome di Tiresia.
Questo Tiresia postmoderno e apocalittico, la cui vicenda attraversa il femminile e maschile ricomprendendole entrambe, vuole rappresentare l’umanità che chiede di essere ascoltata e accolta. La voce della rivendicazione dell’identità, basata su specificità e differenze, siano esse di genere, di età, o di altre vite trascorse.
Un lungo ed intenso racconto che alterna momenti di parlato ad attimi musicali durante i quali il bravissimo Gabriele Portoghese incarna il Tiresia ragazzino, il Tiresia donna, il musicista, il cantante, l’affabulatore che ripercorre tutta la storia dell’indovino, fino alla sua terribile condanna/salvezza.
E Kate Tempest lo osserva e lo racconta nel suo eterno vagare: sia stato maschio e femmina, giovane e vecchio, che conosce la vergogna di un’adolescenza dolorosa, ma anche la passione della maturità.
Ancora una volta il collettivo Bluemotion ci conquista con uno spettacolo che va oltre: una regia, quella di Giorgina Pi, che premia molto gli elementi scenici, pochi, essenziali, simbolici ma funzionali alla storia, tre nomination agli imminenti premi Ubu, pubblico entusiasta; il racconto della metamorfosi che è anche il racconto delle nuove generazioni.
Nonostante la storia millenaria del mito, quello di Tiresia è ancora oggi attuale, stante la necessità di qualcuno che ci indichi la via, la strada da percorrere, ciò che si dovrebbe fare e ciò che dovrebbe essere vissuto.
data di pubblicazione:23/11/2021
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da Rossano Giuppa | Nov 20, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 16/21 novembre 2021)
È in scena al Teatro Vascello di Roma dal 16 al 21 novembre Una Cosa Enorme, spettacolo di Fabiana Iacozzilli con Marta Meneghetti, Roberto Montosi. Produzione CrAnPi, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Fondazione Sipario Toscana in corealizzazione con Romaeuropa Festival.
In scena una donna con una pancia enorme. È incinta probabilmente da un tempo indefinito e fa di tutto per ritardare e rimandare l’evento. Tutto è sospeso ma nello stesso il tempo è trascorso, la casa è trascurata, il frigo è vuoto, la pianta è secca, le acque tentano di aprirsi. Quella condizione la turba e la affatica ma non vuole uscirne, preferendo uccidere a colpi di fucile le cicogne che sorvolano il suo tetto piuttosto che lasciare che le stesse portino fortuna e prosperità nella sua casa. E’ affaticata e trasandata, con le sole sigarette in suo soccorso. Perché trattiene quel feto in se stessa e ritarda l’evento? Perché ho così tanta paura di mettere al mondo un figlio? Vuole essere madre o può non esserlo?
Parte da questi interrogativi e dallo studio dei testi della ricercatrice israeliana Orna Donath Regretting Motherhood e del diario Maternità di Sheila Heti il processo performativo messo in atto da Fabiana Iacozzilli, che la porta ad esplorare le zone più recondite dell’identità femminile tra cultura, natura e istintività personale dando vita a uno spettacolo esasperato e naturale al tempo stesso, dando voce a paure e desideri di donna in bilico tra il desiderio e il rifiuto di essere madre. La maternità è però ben oltre le paure, le insicurezze ed i dolori della gravidanza, ma va ad affrontare l’identità simbolica della donna ed il suo ruolo di madre e di figlia che genera ed accompagna il ciclo naturale della vita. Eccola così improvvisamente madre ad accudire la sua creatura, il bambino, ragazzo, uomo e padre, sempre al suo fianco dalla nascita alla morte, secondo una circolarità che la vede protagonista e testimone. Può decidere di esimersi da tutto questo? Può scegliere di non dedicarsi alla cura dell’altro?
L’interessantissimo e coraggioso spettacolo, presentato nel 2020 alla Biennale Teatro di Venezia, racconta il tema intimo e personale della maternità, aprendo nel contempo a una riflessione sulla condizione di donne e uomini perennemente in bilico tra il volere e dovere essere genitori. Una performance forte e delicata al tempo stesso, dedicata alla condizione esistenziale declinata al femminile, tra ruoli attribuiti e scelte da porre in essere, fatto di accenni e tensioni, di rumori e respiri, di pensieri e azioni.
Un plauso ai due straordinari attori, all’allestimento ed al disegno luci ed audio. Tutto è enormemente dilatato ma anche enormemente vero. E’ questa la forza di uno spettacolo che va assolutamente visto, che abbisogna di essere decantato per entrarci maggiormente in empatia.
data di pubblicazione:20/11/2021
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