da Antonio Jacolina | Gen 12, 2022
Se vi piace giocare a Cluedo … Se siete appassionati lettori di Miss. Marple o di Hercule Poirot … Se amate gli intrighi ben confezionati … Se amate i polizieschi labirintici, enigmatici ed ambientati in un unico luogo … Se amate i thriller fantastico sovrannaturali … Se amate tutto ciò, bene, questo libro è fatto per voi! Se non amate nulla di quanto sopra, allora non aprite questo libro!
Il meno che si possa dire di questo romanzo di esordio che ha regalato, da subito, all’inglese Stuart Turton un’eccezionale successo di critica e di pubblico a livello mondiale, è che l’autore ha sicuramente un’immaginazione debordante, una capacità di scrivere più che apprezzabile ed uno stile accessibile ed accattivante. Un’idea originalissima ed insolita la sua, una costruzione narrativa attenta ai dettagli e sapientemente arricchita da una buona dose di ironia che alleggerisce l’evoluzione del plot.
Invitato ad un ballo in maschera nella decadente magione di campagna di Blackheath House, il protagonista Arden Bishop potrà disporre di un’intera giornata per scoprire chi fra gli ospiti – tutti dell’Alta Società – assassinerà Evelyn Hardcastle, la bella figlia del proprietario terriero.
Bishop sarà però condannato a rivivere incessantemente questa stessa giornata infinite volte, risvegliandosi ogni volta nel corpo dei vari invitati, finchè non riuscirà a risolvere l’intrigo, a ricomporre le varie tessere del mosaico ed a scoprire così il vero colpevole.
Un’ambientazione molto molto British che ricorda le atmosfere di Dowton Abbey e di Gosford Park … i segreti, i non detti, le menzogne cause di tanti delitti e vendette, il passato che incombe, la malvagità nascosta dietro la forma ed il rispetto dell’etichetta. Un’inchiesta alla Agatha Christie.
Una volta accettati i presupposti inverosimili, il lettore odierà o amerà questo romanzo ( non ci sono vie di mezzo ) e ne vivrà i vari avvenimenti attraverso un protagonista per poi tornare a riviverli nei panni di un altro ancora, ed ogni volta, vedrà formarsi dei frammenti del puzzle fra scoperte e suspense continue. Un’idea che certamente può sconcertare all’inizio ma che si rivela poi coinvolgente e che consente di ben definire le psicologie dei vari personaggi e di articolare l’intreccio di cause e motivazioni.
Lo scrittore è brillante, ingegnoso, astuto, intrigante ed è parimenti abile nel tenere la rotta narrativa pur nella complessità della storia e nel mantenere alta la tensione fino alla fine delle 523 pagine allorchè tutti gli enigmi si ricomporranno. Un racconto forse troppo lungo e complesso che richiede, di sicuro, una gran concentrazione per non perdere il filo. Ciò non di meno, una volta calatisi nella lettura e lasciatisi catturare dal ritmo incalzante e dai tanti risvolti non si potrà non apprezzare in pieno tutta l’essenza del thriller e sarà allora piacevole arrivare alla sua conclusione.
Le 7 Morti di Evelyn Hardcastle è senza dubbio un interessante poliziesco ad enigmi. Un’inchiesta per lettori che amano impegnarsi negli intrighi e nella ricerca della Verità come si usa nei buoni, vecchi, cari, classici polizieschi inglesi, con però in più … un tocco, non sgradevole e mai banale, di fantastico.
data di pubblicazione:12/01/2022
da Antonio Jacolina | Gen 12, 2022
Un’insolita, livida e periferica Los Angeles, una società di trasporti valori i cui furgoni vengono rapinati, un uomo enigmatico (Jason Statham) che si fa assumere come vigilante ma che è molto di più di ciò che vuole apparire, una rapina audacissima ed una vendetta …
Guy Ritchie, sceneggiatore e regista britannico, noto ai più per essere stato anche marito di Madonna, ha avuto una carriera molto altalenante. Dopo un inizio esaltante ed autoriale, alla fine degli anni ’90, ha subito poi una serie di pesanti batoste al botteghino per riprendere a risalire lentamente la china con i due Sherlock Holmes (2009 e 2011) e recuperare infine posizioni e successo con il buono ed ironico The Gentlemen (2019).
Con questo nuovo lavoro, ispirato ad un film francese del 2004, l’autore ritorna ancora una volta al suo genere preferito: storie di malavita e di rapine, destrutturandole ed aggiungendovi anche tutti gli elementi del Thriller e del Revenge Movie. Dalla mescolanza di tutte queste varie componenti esce un prodotto tutt’altro che banale che, sullo sfondo di una Los Angeles insolitamente fredda, cupa e monocolore, ci restituisce una perfetta atmosfera di noir e di poliziesco. Quasi un film che viene da un’altra epoca, da un mondo di “B Movie” d’antan! Un film d’azione all’antica, brutale, cinico, duro ed amorale ma molto ben fatto.
Il regista mette infatti in sordina il suo humour britannico e, con un esercizio di sobrietà ed in modo meno estroso del suo solito, si mette tutto al servizio della sua storia (una storia più che classica e già vista), per darci un film programmatico d’azione, ben ritmato ed efficace. Un film brillantemente realizzato grazie ad una regia ed una messa in scena abilissima che non ha mai bisogno di ricorrere ad effetti speciali inutili. Ritchie gioca come sempre con i tempi narrativi ritagliando la vicenda in più capitoli proposti in ordine sparso con l’intento di sconcertare lo spettatore ed accrescere l’intensità drammatica della narrazione. La forza della pellicola è senza dubbio proprio nel modo con cui i vari pezzi del puzzle si ricombinano poi coerentemente. L’autore ha infatti un gran talento nel montaggio oltre che nel ritmo e nella qualità delle inquadrature. La fotografia poi è altrettanto degna di nota per come contribuisce allo sviluppo narrativo trasmettendo tutta la cupezza del contesto e dei personaggi.
Il protagonista Jason Statham è un’icona di cui i Critici dicono che “ha un’espressione in meno di quelle di Clint Eastwood giovane”, che qui però, grazie alla personalità ed alle capacità del regista, mette in mostra un insolito talento riuscendo a ben rendere con la sua inespressività granitica tutta la furia fredda ed il dolore interno del personaggio. Attorno a lui un ottimo stuolo di caratteristi tutti giusti e bravi nei rispettivi ruoli, da segnalare un cameo di Andy Garcia e poi Scott Eastwood (sì proprio il figlio di Clint) in un promettente ruolo di cattivo che gli calza come un guanto.
La Furia di un Uomo è dunque un film d’azione d’autore, filmato con eleganza e stile che diviene particolare grazie ad un montaggio sapiente. Un prodotto perfettamente calibrato, ben orchestrato ed efficace che delizierà i fans dei polar. A mio parere il film avrebbe ancor più guadagnato se Guy Ritchie avesse osato appropriarsi totalmente della storia e si fosse allontanato dai sicuri sentieri battuti e gli avesse regalato uno sviluppo ed un finale meno convenzionali.
data di pubblicazione:12/01/2022
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da Daniele Poto | Gen 12, 2022
Un piacevole testamento spirituale. Non sembri accostamento azzardato e ossimoro il giudizio sull’ultimo definitivo libro di Mattia Torre, noto ai più come co-sceneggiatore di Boris, alle prese con un lungo tunnel sanitario che non gli ha impedito un felice sprazzo di letteratura umoristica e drammatica. Conscio dell’ineluttabilità della fine lo scrittore ha scommesso sul proprio futuro con questo manifesto. Che rivela fiducia nella sensibilità dell’arte, della testimonianza concreta di come anche una risata può salvare il mondo. Opera libera che è manifestazione di pensiero nell’affastellarsi di sketch situazioni in cui fiction, saggistica, vita vissuta e teatro si confondono, un po’ come succede nei libri di Piccolo. Piccole e grandi percezioni di vita filtrate dal senso di precarietà. Il libro è pieno di inneschi, di trame accennate che avrebbe meritato ancor più pieno sviluppo. Però, contemporaneamente, è un libro esaustivo oltre che l’ultimo regalo che Torre ci ha fatto. Rimangono di lui i reading degli amici (Aprea, Mastandrea) che continuano a farne vivere ricordo e memoria senza retorica. Siamo vivi finché qualcuno leggerà le nostre cose (parafrasi del pensiero di Baricco). In questo senso Torre è più che mai vivo e attuale nel pensiero riverberato del suo milieu. Il senso di libertà di questo materiale informa è testimoniato da una scrittura attenta ma poco sorvegliata, libera dal dovere della consegna e da obblighi contrattuali. Dunque un’intimità diaristica tanto più apprezzabile quando l’autore senza pudore rivela anche io propri buchi neri e le proprie lacune, in un esercizio quanto mai funzionale di autocoscienza creativa al servizio della letteratura. Se n’è andato a meno di cinquanta anni Torre lasciandoci spunti validi per un’infinita di ripercorribili trame. Radici seminali piantate un po’ ovunque, ironizzando su una società italiana (e sui suoi strani personaggi) ricca di contraddizioni ma non per questo meno interessante.
data di pubblicazione:12/01/2022
da Antonio Jacolina | Gen 11, 2022
Proseguono le avventure della giovane Emily (Lily Collins) quintessenza dell’americana media. Ormai stabilitasi a Parigi, la ragazza si trova un po’ più a suo agio anche se non riesce ancora a padroneggiare bene il francese né tantomeno ad abituarsi a pieno alle diverse abitudini e comportamenti dei francesi e dei parigini in particolare. Triangoli amorosi, gelosie, equivoci e nuovi incontri … Continua il confronto/scontro di culture, fra stereotipi zuccherosi e situazioni talora anche divertenti.
Diciamocelo subito, Emily in Paris è una feel good serie per eccellenza. Va vista quindi con molta leggerezza e soprattutto va giudicata con coerente animo leggero. Difatti è una serie volutamente esagerata ed intenzionalmente superficiale e lontana dalla reale Realtà! Proprio questo vuole essere il carattere distintivo di tutta la produzione. Buffa, improbabile, piena di banalità e cliché, ma, ciò non di meno, sottile e raffinata.
Certo, come sovente avviene, nelle opere seconde ci sarà nello spettatore un po’ di delusione. Se nella prima serie c’era qualcosa di molto originale e frizzante, pur nell’uso abbondante dei luoghi comuni, un qualcosa, quel qualcosa, che aveva poi affascinato il pubblico (complice l’adorabile freschezza di Emily/Lily), oggi, una Stagione dopo, la freschezza sembra essere molto diminuita, si scivola sovente nel banale e si ricorre all’abusato giochino del triangolo amoroso o alle gelosie, ma non mancano però sprazzi saporiti e piccanti che rendono ancora abbastanza gradevoli ed accettabili, nel loro complesso, questi nuovi brevi 10 episodi.
Darren Star continua infatti imperterrito a miscelare abilmente e furbescamente le sue ricette di successo: un po’ di Sex and the City, un pizzico di Il Diavolo Veste Prada, una puntina di Amélie, e poi tanta, tanta Aria di Parigi. Ecco così sfornata la sua solita commediola romantica, leggera leggera, con contorno di cliché e confronto fra raffinatezza ed ingenuità. Le produzioni di Star (lo abbiamo detto a suo tempo) potranno pur essere accusate di essere solo confezioni spumeggianti ed intercambiabili, ma, di sicuro, non sono mai noiose o mal fatte.
Un po’ più centrata sulle personalità dei personaggi e meno sugli stereotipi, questa nuova stagione pur non mantenendo sempre il mordente della precedente continua però ad essere ben diretta, tecnicamente ben fatta e ben interpretata. Le due protagoniste, Parigi e Lily Collins, danno il loro meglio, la prima con tutta la sua bellezza ed il suo charme, la seconda con la sua freschezza sbarazzina. Entrambe rendono bene tutto lo spirito frivolo e leggero di questa piccola commediola frizzante. A tal proposito sia ben chiaro: Emily non è certo spumeggiante come uno Champagne Grand Cru, al massimo è uno Spumante che si lascia bere gradevolmente. Le sue bollicine non ci rendono ebbri ed allegri ma riescono a darci comunque una piccola breve euforia pur sempre piacevole. Nulla di più! Ma, ai tempi del Covid, non è poi male allontanarsi un po’ dal quotidiano con stile ed eleganza. Ovviamente si intravvede già una Terza Stagione prossima ventura.
data di pubblicazione:11/01/2022
da Rossano Giuppa | Gen 5, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 27 dicembre 2021/6 gennaio 2022)
In scena al Teatro Argentina di Roma La vita davanti a se’, versione teatrale tratta dal romanzo omonimo di Romain Gary, già sullo schermo con protagonista Sophia Loren, con Silvio Orlando nelle vesti di protagonista, regista e sceneggiatore. Il bravissimo e coraggioso Orlando ci conduce dentro le pagine dello straordinario romanzo , diventando Momò, un bimbo arabo di 10 anni, abbandonato e segnato da un’infanzia triste e difficile (foto di Salvatore Pastore).
La vita davanti a sé è la storia di Mohammed, soprannominato Momò, ragazzino arabo allevato e cresciuto in un appartamento al sesto piano di una palazzina fatiscente nel quartiere di Belleville a Parigi da Madame Rosa, una vecchia signora ebrea scampata ai campi di concentramento, che per vivere si occupa di crescere i figli delle prostitute che per legge non possono tenerli con sé ricevendo mensilmente un mandato di pagamento per il loro mantenimento.
Momò è intelligente, intraprendente ed assetato di affetto in mezzo ad altri bambini abbandonati come il piccolo Moise, tra il gestore di prostitute Monsieur N’Da Amèdèe, il dottor Katz che cura Madame Rosa e minaccia di portarla in ospedale, Madame Lola ex boxeur senegalese divenuto prostituta richiestissima nelle banlieux parigine.
Un giorno bussa alla porta un omino che è appena uscito dal manicomio criminale dove è stato rinchiuso per molti anni con l’accusa di omicidio: si tratta del padre di Momò che vuole riaverlo con sé. Madame Rosa si oppone e l’uomo muore per una crisi cardiaca. Ma la salute della donna peggiora e di lì a poco morirà tra le braccia di Momò che la veglierà per giorni interi dopo averla cosparsa di profumo e truccata un’ultima volta.
Il romanzo è stato più volte adattato per il cinema e il teatro. Nel 1977 è stato infatti trasposto nell’omonimo film per la regia di Moshè Mizrahi con una immensa Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, Oscar come miglior film straniero nel 1978. Su Netflix ne è stata proposta un’altra versione sceneggiata da Ugo Chiti e Edoardo Ponti che ne cura anche la regia proprio con Sophia Loren nei panni di Madame Rosa.
La vita davanti a sé ha la potenza dei grandi romanzi che hanno la capacità di prestarsi a diverse interpretazioni e Silvio Orlando riesce a coglierne tutte le sfumature e l’attualità. La convivenza tra diverse culture, il dolore e la precarietà di una vita che non trova equilibri facili e scontati, le controversie dei ceti sociali più poveri, l’emigrazione, la prostituzione, l’istinto di sopravvivenza.
Il racconto diviene un io narrante attraverso lo straordinario lavoro di adattamento e regia condotto, in grado di immergere lo spettatore nel racconto con leggerezza ed ironia, restituendo tutti i sentimenti di un bambino adulto a dispetto dell’età e del dramma che vive, consapevole si delle difficoltà della vita e bisognoso di affetto, ma già grande nei pensieri e nelle azioni.
Una scelta efficace proprio perché il romanzo diventa quasi magico attraverso la carrellata di tutti personaggi interpretati o evocati in scena ed attraverso un uso magistrale della parola e della musica, grazie alla scelta intelligente di avvalersi di grandi musicisti dell’Orchestra Terra Madre che con le loro armonie etniche hanno enfatizzato i momenti salienti della rappresentazione che si è conclusa con un fuoriprogramma che ha visto un ensemble con lo stesso Silvio Orlando al flauto.
data di pubblicazione:05/01/2022
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Dic 30, 2021
Sei mesi e 14 giorni è il tempo che resta alla Terra prima della devastante collisione con una cometa casualmente scoperta dagli astronomi Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence. Inizia da parte dei due una corsa contro il tempo per convincere prima la Presidente degli USA (Meryl Streep) e poi l’opinione pubblica ad organizzare una qualche reazione. Sulla ragione scientifica prevalgono però la stupidità, gli intrighi della Politica, la capacità manipolatoria e gli interessi dei Media televisivi e della Grande Industria. Nessuno sembra credere agli allarmi poi, però, prevarranno altre opzioni …
Adam McKay, regista e sceneggiatore statunitense, vincitore nel 2015 dell’Oscar per la Migliore Sceneggiatura con il suo La grande scommessa, è un autore originale e poliedrico. Dalle iniziali commedie dalla comicità un po’ grossolana e demenziale è passato con successo ai più recenti film impegnati come, per l’appunto, La grande scommessa e Vice – L’uomo nell’ombra (2019), mantenendo sempre la sua peculiarità stilistica di saper dipingere gli Stati Uniti in modo satirico e caustico, denunciandone vizi e devianze. Con quest’ultimo suo lavoro ritorna con esiti apprezzabili ai suoi primi anni e, giocando abilmente con i codici del genere catastrofico e disaster-movie, ci regala una commedia feroce ed al vetriolo. Una farsa cupamente divertente con la quale stigmatizza gli effetti perversi della stupidità collettiva sul Sistema, l’alienazione delle masse tramite i Social, la superficialità dei politici, la seduzione manipolatoria dei Media e dei falsi Guru dell’Industria.
Lo spunto iniziale, serio e tragico, sotto l’abile scrittura e la dinamica regia di McKay si trasforma ben presto in una coinvolgente e graffiante satira della politica americana e dell’America stessa che appare divisa tra coloro che “guardano su” e coloro che “non guardano su”. Masse credulone e manipolabili di cospirazionisti, negazionisti e populisti, tutti alla fine egualmente strumenti di opposti interessi. Una tragicomica allegoria ove la Cometa, in realtà, potrebbe essere il crescente cambiamento climatico o anche il virus ed il messaggio essere l’incapacità di reagire collettivamente davanti a una crisi comune perché tutti noi siamo accecati dai filtri creati dagli egoismi e dagli interessi degli opposti Poteri.
Al cinefilo non sfuggiranno i richiami ad illustri precedenti come Il Dottor Stranamore, Mars Attacks, Armageddon, 1941, La Guerra dei Mondi e Quinto Potere e tanti altri ancora, meno autorevoli e nobili. La personalità della direzione di McKay, il suo ritmo narrativo, il montaggio serrato, le modalità di recitazione imposte agli attori, supportate da un’ottima sceneggiatura, producono un film del tutto originale, forse non perfetto ma sicuramente buono. Un film ottimamente interpretato dalla coppia di protagonisti e, con loro ed attorno a loro, un cast di altre stelle, il fior fiore di Hollywood, tra cui spiccano, oltre a Meryl Streep, la splendida Cate Blanchett e Timothée Chalamet.
Don’t look up è una satira surreale e folle che, pur tra qualche eccesso e qualche tratto prevedibile, risulta divertente. Un all star movie ambizioso, assurdo, malinconico ma anche comico e intelligente. Un buon prodotto di intrattenimento che ci fa riflettere. Come sempre ci sarà chi lo apprezzerà e chi lo detesterà anche se, ricordatevelo, circolano già pronostici per una serie di sue candidature agli Oscar.
data di pubblicazione:30/12/2021
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da Maria Letizia Panerai | Dic 23, 2021
Blanco (Javier Bardem), è il titolare dell’omonima azienda spagnola di bilance industriali. Leader nel settore, la Basculas Blanco è famosa in tutto il paese per l’alta qualità dei suoi prodotti, ma anche per la magnanimità e la professionalità del suo proprietario che, orgoglioso dei risultati di produttività raggiunti, ha dedicato un’intera parete del salone di casa ai riconoscimenti accumulati negli anni in modo che tutti i suoi ospiti possano vederli.
L’unica targa mancante è il premio di Eccellenza Imprenditoriale e Blanco, pur di aggiudicarselo, stimola ripetutamente i dipendenti a seguire il suo esempio, professandosi il principale rappresentante di un lavoro duro improntato sui principi di “equilibrio e fedeltà”. L’uomo è disposto a tutto pur di accedere al prestigioso attestato, adattandosi a risolvere qualsiasi tipo di problema dei propri dipendenti affinché rimangano sempre concentrati sui propri ruoli senza distrazioni.
Scelto per rappresentare la Spagna agli Oscar 2022, il film si avvale della presenza costante e centrata di Javier Bardem nella veste insolita di questo capo goffamente onnipresente, quasi tentacolare, ruolo molto lontano dalla precedente filmografia di questo splendido interprete. Abile manipolatore delle vite degli altri, Blanco tenta in ogni modo di controllare e manovrare quelle dei propri dipendenti senza alcuna remora ma solo per il proprio tornaconto; ma inevitabilmente qualcosa andrà per storto e, alla vigilia dell’ispezione da parte della commissione per aggiudicarsi l’ultimo agognato premio, Blanco dovrà far fronte ad una seria di piccoli e grandi disastri se vorrà raggiungere l’obiettivo.
Il film, dotato di qualche guizzo tragi-comico, nonostante sia stato preceduto da lusinghieri giudizi oltre che da un notevole battage pubblicitario sui nostri canali nazionali, non mantiene le promesse risultando nel complesso inappagante. Forse perché Fernando León de Aranoa, regista di Perfect Day e Escobar, con Il capo perfetto si è concentrato (a cominciare dal titolo ed avvalendosi di un autentico mostro sacro come Bardem) nel disegnare prevalentemente un personaggio macchinatore, privo di moralità, che riesce a superare qualsiasi limite etico pur di soddisfare i propri interessi, accecato solamente dalla logica del profitto.
La commedia, a tratti pungente e con qualche spunto di metafora come la bilancia posizionata all’ingresso della fabbrica che non è mai in equilibrio e solo Blanco troverà lo stratagemma giusto per allineare i piatti, è tuttavia “sbilanciata” (tanto per restare in tema) perché costruita esclusivamente intorno al suo protagonista senza una vera e propria storia lasciando nello spettatore, assieme ad una manciata di intermittente noia, il dubbio che forse si poteva fare di più.
data di pubblicazione:23/12/2021
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da Paolo Talone | Dic 21, 2021
(Teatro Belli – Roma, 16/19 dicembre 2021)
Ultimo spettacolo per l’edizione numero venti di Trend. La rassegna di spettacoli sulle nuove frontiere della scena britannica a cura di Rodolfo Di Giammarco si chiude con un testo complesso, ma stupendamente rappresentativo di una condizione comune: l’identità di una coppia che si costruisce e si distrugge nella quotidianità.
In questa versione di Play house la giovane coppia è interpretata in entrambi i ruoli da Francesco Montanari. I due amanti non hanno neanche un nome. Sono due entità che, così rappresentate, sembrano uscite da un ricordo che il tempo sembra riportare a galla. Vivono in un modesto appartamento. La loro vicina di casa pensa che abbiano una vita bellissima. Lui è saccente, pretende di sapere tutto, mentre lei desidera avere un figlio. Bisticciano, fanno pace, si amano, ma dubitano l’uno dell’altra. Giocano a fare marito e moglie – Play house in inglese – ma in questo gioco non ci sono vincitori né vinti, come canticchia tra sé Montanari sulle note di Arisa.
“Cosa avete capito?”, chiede al pubblico alla fine della sua performance l’attore. Cosa avremmo dovuto capire, viene da rispondere, o quale messaggio avremmo dovuto recepire rispetto al testo Martin Crimp, ma anche alla regia di Francesco Montanari? La prima impressione è quella di essersi trovati davanti allo sfogo delirante di una persona colpita da un forte dolore. L’energia emanata dal palco dall’unico interprete del dialogo in forma di monologo deflagra dalle battute iniziali e non si arresta mai fino alla fine. Come un respiro profondo le luci da fioche diventano intense per poi spegnersi al termine della fatica. Francesco Montanari è l’impalcatura stessa dello spettacolo. È suono, luce, scenografia. Le sue doti vocali e fisiche sono impressionanti. Riempie la scena al punto tale che l’unico elemento di arredo, una sedia posta al centro del palco, risulta ingombrante e superflua. Il percorso che segue Montanari è tracciato dal ricordo. Lo sforzo nel rievocare le emozioni è catartico, terapeutico. La memoria del vissuto della coppia viene segnata con un gessetto bianco sulla nudità del muro che fa da fondale al palcoscenico del teatro Belli. Viene fuori una mind map di appunti e memorie da osservare e riordinare. Ma il labirinto di Crimp è senza uscita, è una matassa aggrovigliata di pensieri ed emozioni in cui il bandolo è fuso con l’altra estremità del filo. È una psicosi dalla quale non si esce se non manifestandola, se non compiendo il solo atto di raccontarla. “Cosa avete capito?” è una domanda che non ha una risposta immediata. Forse il teatro, questo teatro, non è qualcosa da comprendere. Piuttosto è qualcosa da vivere. Un’esperienza che, in quanto teatro appunto, è da fare insieme, attore e spettatore. A colpire può essere un dettaglio, una sensazione, la risonanza con un’immagine che portiamo dentro. Ma non si può uscire dalla sala senza aver provato qualcosa, senza aver fatto i conti con un pensiero che ci abita.
data di pubblicazione:21/12/2021
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da Antonio Jacolina | Dic 19, 2021
La fittizia Clerville degli Anni ’60… Diabolik, il Re del Terrore in calzamaglia nera (Luca Marinelli), incontra per la prima volta Eva Kant (Myriam Leone), ricca ereditiera e proprietaria di un prezioso diamante. Gli eventi avranno però sviluppi inattesi. Si susseguono storie di furti, inseguimenti, evasioni e vendette che l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) cercherà di bloccare…
Diciamolo subito, il Diabolik dei Manetti Bros. è un film che sicuramente dividerà la Critica “paludata e non” ed anche il pubblico tra coloro (pochi?) che lo apprezzeranno e coloro (tanti?) che ne saranno invece delusi. Un film che sarà giudicato, senza vie di mezzo, un’operazione ben riuscita oppure un assoluto fallimento!
Si tratta in effetti di una trasposizione cinematografica destinata prevalentemente a tutti quelli che hanno amato, amano o almeno conoscono l’universo nato dalla fantasia delle sorelle Giussani nel 1962 e le avventure di Diabolik che ebbero un enorme successo popolare nell’Italia di quel decennio e oltre, segnando la storia del fumetto. Non aspettatevi perciò un film con ritmi, tempi, tensione, recitazione dei film di genere o degli action-movie americani, resterete sconcertati e delusi. Al contrario, vi troverete in una perfetta trasposizione vintage, filologicamente aderente ai personaggi ed al mondo degli albi originali, molto lontani quindi dai gusti del grande pubblico cinematografico attuale.
Un’operazione intelligente ma molto intellettuale, molto da cinefili e da appassionati dei fumetti d’epoca. Proprio per questo il film realizza alla perfezione quella sospensione dell’incredulità che è poi la stessa che si prova leggendo le storie di Diabolik.
I Fratelli Manetti sono evidentemente dei grandi fans delle Giussani e si sono assunti l’arduo e stimolante compito di realizzare (dopo l’unico, mitico tentativo di Mario Bava nel 1968, un insuccesso cult) una trasposizione cinematografica del tutto nuova – ma anche calligraficamente fedele – delle storie, dei personaggi, dell’agire e dialogare del fumetto. Un’operazione realizzata con una precisione minuziosa, quasi chirurgica, in tutti i dettagli, con oggetti, atmosfere, ricostruzioni e ambientazioni di interni e di esterni che assemblano differenti scorci di diverse città italiane.
Il ritmo del film non è sempre sostenuto ed a tratti è anche discontinuo ma tutto ciò è voluto, è una scelta ben precisa degli Autori! I tempi dilatati, la lentezza, i movimenti controllati, i dialoghi quasi didascalici o artificiosi, la recitazione degli attori quasi da fotoromanzo sono tali proprio per restituire intenzionalmente sul grande schermo tutto l’effetto delle tavole disegnate, quasi una bidimensionalità ricercata. Le atmosfere, i colori non-colori, gli ambienti urbani notturni, gli angoli bui ove si nasconde Diabolik sono proprio quelli degli albi, quelli di un immaginario nato sotto l’ispirazione dei polizieschi americani degli anni ’40 e ’50 e dei noir francesi, un mondo in bianco e nero. Un esercizio di stile per ricreare l’originale senza mai cadere in banali cliché.
Gli attori sono tutti nel ruolo e recitano secondo la logica e con movenze, espressioni e rigidità che rimandano ai fumetti. Bravo Marinelli, ottimo Mastandrea, ma su tutti primeggia la splendida ed enigmatica Myriam Leone, con palesi richiami alle bionde glaciali ed ambigue che tanto piacevano ad Hitchcock, di cui sono evidenti le citazioni.
Dunque Diabolik farà sicuramente discutere. Operazione riuscita, se la si vuole leggere come un omaggio a un certo tipo di noir, di storie a fumetti o a quei polizieschi italiani degli anni ‘60/’70. Fallita, invece, se si cerca nel film solo intrattenimento ed azione hollywoodiana.
Per chi ama il Cinema, credo che sia comunque un film che meriti di essere visto. Una volta accettati i suoi presupposti potreste anche apprezzarlo!
data di pubblicazione:19/12/2021
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da Daniele Poto | Dic 19, 2021
(Teatro Lo Spazio – Roma, 16/19 dicembre 2021)
Tosta drammaturgia contemporanea con un Labute che sa di Mamet. Duetti per due tempi con una gravidanza irrisolta di mezzo. Dialoghi ruvidi e realistici per una piéce godibile e di estremo charme attoriale.
Si può fare anche grande teatro con due soli attori, una scenografia scarna ma con la forte stampella di un testo potente da recitare. Bravo il regista Coutugno a sfruttare la logistica del teatro di San Giovanni ricavandone margini di movimento con l’ariosa scala e con il bar a cui si approvvigionano, bevendo finto gin, i due protagonisti. Scontri di coppia nel segno di una sofferta gravidanza. La prima sfuma per un procurato aborto, la seconda per il suicidio della madre in attesa. Fateci caso due vittime a tempo e un solo sopravvissuto: nel primo tempo la donna, nel secondo l’uomo fedifrago. L’avatiano Botosso predomina in avvio, la Boccoli giganteggia in chiusura con un attacco al coniuge che meriterebbe un prolungato applauso se non ci fosse una continuità teatrale da rispettare. Il disordine del titolo è l’elemento caratterizzante sulla scena. Perfetta interazione tra i protagonisti con scene che sanno di vero e l’attualità che irrompe. Nel primo caso l’attentato alle torri gemelle, più crepuscolare il secondo spunto: un tradimento scoperto a mezzo telefonino, oggetto feticcio dei nostri tempi, documentando drammatiche urgenze delle vite odierne. Comunque la distonia è l’elemento principale dello spettacolo, dunque innesco ideale per il conflitto fertile generatore di teatro. Si ride più che sorridere per il palese tentativo dell’uomo nel tentativo puerile di giustificare il proprio tradimento. Storie riviste e riviste ma credibili per l’acutezza del confronto dialettico tra i coniugi. Ed è anche perfetto l’incastro con le musiche di scena, con ogni probabilità scelte dallo stesso autore. Per la cronaca i titoli originali dei due tempi sono rispettivamente Land of death e Helter Skelter.
data di pubblicazione:19/12/2021
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