da Antonio Iraci | Feb 3, 2022
L’ascesa e la caduta di Stan, uomo con un misero passato (contadino sì, ma con i denti dritti) che per puro caso entra a far parte di un luna park ambulante. Dotato di una spiccata intelligenza e grazie anche alla sua avvenenza fisica, riesce ben presto a imparare il mestiere di “indovino” che lo porterà a diventare il Grande Stanton, seducendo la ricca società newyorkese con i propri imbrogli. Per lui, abile manipolatore, sarà facile dimostrare di possedere doti soprannaturali di telepatia, chiaroveggenza, divinazione e, soprattutto, di essere capace di studiare i poteri occulti della mente umana.
Da Guillermo del Toro, che tutti ricordiamo per il successo ottenuto con il film La forma dell’acqua (Leone d’oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e due Oscar nelle categorie miglior regista e miglior film), ci si aspettava in effetti da tempo il ritorno a quel noir psicologico che ha caratterizzato buona parte della sua filmografia. La fiera delle Illusioni è tratto da un romanzo di William Lindsay Gresham e del quale già esiste una versione cinematografica del 1947, con la presenza di Tyron Power, a quel tempo considerato il divo hollywoodiano per antonomasia. Nella versione di Del Toro si rimane sicuramente subito impressionati dalla prima scena, in cui compare Stan (Bradley Cooper) impegnato a dar fuoco alla casa paterna per chiudere drasticamente un passato, che scopriremo essere per lui molto doloroso. Il plot che segue è piuttosto tortuoso, ricco di sorprese che costantemente accompagnano il protagonista in una escalation di falsità, e quindi di illusioni quando, da misero accattone, riesce a conquistare il consenso dell’alta società newyorkese appartenente ad un paese in procinto di tuffarsi nella tragedia della seconda guerra mondiale. La pellicola di Guillermo del Toro ci porta all’interno del lato più oscuro e torbido dell’uomo: in essa troviamo un mix perfetto di realtà e finzione, immaginazione e verità, psicanalisi e illusione ed ogni personaggio da manipolatore si ritroverà poi a essere a sua volta manipolato, divenendo lui stesso vittima del proprio inganno. Singolare come il regista riesca a passare da scene macabre, proprie del mondo dei cosiddetti freaks che sfruttano le proprie alterazioni fisiche per guadagnarsi da vivere, a scene patinate, ambientate in interni stile art déco, con quella ricercatezza estetica tipica degli anni Quaranta. Oltre a Cooper come protagonista principale, che sin dall’inizio riesce ad incarnare la figura di un uomo ambizioso e senza scrupoli pur di raggiungere i suoi obiettivi ma, al tempo stesso, di essere fragile e irrisolto con un passato rancoroso ancora da elaborare, il film può contare su un cast eccezionale: a partire dall’affascinante e bravissima Cate Blanchett nel ruolo della psicanalista Ritter, donna fatale e spietata, anche lei vittima di un trascorso quanto mai misterioso; e poi ancora su Toni Collette, Rooney Mara, Ron Perlman, Mary Steenburgen, oltre ai grandi Willem Dafoe, Richard Jenkins e David Strathairn.
La fiera delle Illusioni è una film di alto spessore sia per il tratto psicologico dei singoli personaggi, sia per le inquadrature e i tagli di scena. Dopo aver già ottenuto dei riconoscimenti, non ci sarebbe da stupirsi se anche i due attori principali riuscissero a conquistarsi una nomination agli Oscar 2022.
data di pubblicazione:03/02/2022
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da Paolo Talone | Feb 2, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Atteso recupero di stagione per il capolavoro del drammaturgo americano Tennesse Williams. Un tram che si chiama desiderio racconta il lento tramonto a cui si avvicina Blanche, erede di una ricca proprietà ormai andata perduta. Un giorno bussa alla porta della sorella Stella, che nel frattempo si è fatta una vita sposando Stanley, un americano di origini polacche.
I toni grigi e la rigida geometria della scena mettono tutti d’accordo. Il grigio è il colore del cattivo umore, delle giornate tristi e delle ombre che per metafora cadono sul fallimento di un sogno. Grigia è l’esistenza che Stella ha scelto di vivere al fianco di Stanley Kowalski, un semplice operaio dal fisico robusto ma sessualmente attraente, dai modi bruti e prepotenti. Per estensione anche gli amici della coppia, Eunice e Steve, che abitano al piano di sopra del modesto appartamento di due camere, somigliano a loro, segnale di una realtà sociale condivisa e lontana dall’ideale perso che ancora affascina Blanche. L’esistenza di quest’ultima invece si può a buon diritto definire ingrigita. Da una parte è costantemente nostalgica, nei modi e nei ricordi fino al suo modo di parlare, della bellezza di un passato – vissuto nella tenuta di Belle Reve – che ormai non esiste più; dall’altra è ormai avanti con l’età, invecchiata negli sbagli e divorata dai sensi di colpa. Sua è infatti la responsabilità della morte del marito, suicidatosi dopo il rifiuto della moglie che aveva appena saputo della sua omosessualità; sua la colpa di essersi fatta cacciare dalla scuola dove insegnava per aver avuto relazioni illecite con i suoi studenti. Per questo motivo arriva a casa della sorella per chiedere ospitalità. È qui che si scontra con la durezza e il machismo di un cognato, cresciuto con altre regole. Dopotutto l’ambientazione del racconto si svolge in un paese appena uscito dall’ultimo grande conflitto mondiale. Stan è infatti un reduce della guerra, indossa ancora la piastrina metallica al collo e gli scarponi militari, che non manca di appoggiare sul letto apprestato per la povera Blanche. Daniele Pecci (Stan), petto in fuori e testa china in avanti come per ruggire e a dire chi è che comanda, conferisce al personaggio proprio quella brutale animalità che lo porterà a vincere su Blanche. L’unica che può tenergli testa – almeno in questa versione – è la moglie. Lungi dall’essere remissiva, la Stella di Giorgia Salari combatte e affronta il marito con grinta e rabbia. Non è affatto una donna sottomessa, come ci aspettavamo che fosse, e non perdona al marito la sua crudeltà. La Blanche di Mariangela D’Abbraccio si distingue in tutto da questa nuova società nella quale, nolente, si imbatte. Il suo è un modo di parlare – e di recitare – che ha un sapore antico. A lei non piace questa realtà, lo dice, e allora non le rimane che fare la parte della donna che nonostante tutto si sforza di accettare il cambiamento. Sembra innaturale il suo modo di parlare, che marca con forza le sillabe accentate delle parole, ma è in qualche modo conforme al suo personaggio in bilico tra l’isterismo e la disperazione. Cadrà vittima di sé stessa e della sua fragilità. Il merito della regia di Pier Luigi Pizzi è quello di aver reso con fedeltà un classico intramontabile come questo, pur offrendone una visione originale e contemporanea. L’idea di tagliare dal testo ogni riferimento diretto alla geografia del posto dove si svolgono i fatti – Stan dirà appunto che un “cittadino di questo paese” e non “un americano al cento per cento” – conferisce al dramma un respiro globale e condivisibile.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 2, 2022
(Teatro De’ Servi – Roma, 20 gennaio/6 febbraio 2022)
Per uno strano incidente al suo computer, Clara ottiene il potere di tornare indietro nel tempo e correggere così le sue scelte. Ctrl Z – indietro di una mossa è una commedia esilarante e fresca, affidata a quattro giovani e affiatati attori.
Annabella Calabrese e Daniele Esposito mettono in scena una pièce divertente, che si avvale di un meccanismo comico ben strutturato, di un’idea coerente e di un finale di commedia che dopotutto lascia edificati.
Clara (Annabella Calabrese) è una fotografa con la passione degli scatti nei teatri di guerra; i volti dei bambini sono i soggetti che preferisce. Vorrebbe vivere di questo, ma nessuna redazione le offre la possibilità di firmare un contratto. Siamo nell’Italia dei nostri giorni e per vivere bisogna inventarsi un lavoro. Per pagare l’affitto si trova costretta a far sparire rughe e a gonfiare seni in postproduzione sulle foto del matrimonio della procace e dirompente signora Swanstagger, che Anna Lisa Amodio porta in scena con coinvolgente energia.
Ad aiutarla nel lavoro due inseparabili compagni: Pinuccio, il suo vecchio computer ancora miracolosamente funzionante, e Jacopo, il suo compagno di vita, videomaker con il desiderio di realizzare un giorno un documentario sui sogni degli anziani. Tipica italiana è anche la famiglia di provenienza di Clara, padre madre sorelle e immancabile nonna che si aspettano dalla ragazza che si sposi e faccia dei figli … come del resto fanno tutti prima o poi. Nulla di tutto questo nei programmi di Clara! Così quando Jacopo le chiede di sposarlo, con una grottesca e impacciata proposta di matrimonio che l’attore Andrea Standardi riempie di tenerezza, a mezza bocca gli risponde di sì. Ed è questo uno dei momenti della vita in cui, se si potesse, si vorrebbe tornare indietro e rispondere altro.
Ma siamo a teatro, nel luogo per eccellenza dove tutto è possibile, come l’entrata in scena di Maria (la napoletanissima Giovanna Cappuccio), la vicina/amica avvocato divorzista di professione, disperata per essere stata lasciata dal suo fidanzato, che nella foga di raccontare il suo dramma fa cadere su Pinuccio un bicchiere di vino. Sarà per le onde elettromagnetiche o per il cortocircuito causato dai solfiti, sta di fatto che Pinuccio si anima e come una forza divina concede il potere a Clara di poter tornare indietro nel tempo e cambiare così le sue scelte. La commedia inizia a questo punto la sua cavalcata verso una serie infinita di gag che riportano i personaggi in avanti e indietro, fino a che Clara non sceglierà di fare la cosa più giusta: quello che desidera veramente.
Il linguaggio preso dalla realtà rende tutto molto credibile e riconoscibile. Siamo talmente circondati dalla tecnologia che il passaggio a una realtà metafisica come questa sembra addirittura prossimo. Ma l’ossatura del testo ha nel meccanismo comico della ripetizione il suo punto di forza e insieme si avvale di interpreti eccellenti che sanno trovare nella sinergia e nel divertimento la loro armi più affilate. Se sulla scena tornano continuamente indietro, nella carriera artistica sono certamente destinati ad andare avanti accompagnati dal prezioso dono dell’amicizia e della comicità.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Feb 2, 2022
Stati Uniti, anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, Tammy Faye (Jessica Chastain) ed il suo carismatico marito Jim Baker (Andrew Garfield) si fanno spazio nel mondo dei televangelisti affascinando l’America profonda e creando dal nulla un network televisivo che estende i suoi interessi in molteplici attività. Un business che va ben al di là della diffusione delle parole di Fede. Chi manipola? Chi è manipolato?Tutto è ambiguo! Fino a quando …
Esce oggi nelle sale cinematografiche il film con cui si è aperta l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma. Diciamolo subito, non resterà certo negli annali, ma potrà essere semmai ricordato essenzialmente per l’ottima interpretazione della Chastain in uno di quei ruoli “totali ed immersivi” che in America spesso portano dritti, dritti all’Oscar. La Critica autorevole pronostica già una nomination per la sua intensa interpretazione.
La Chastain dà infatti vita e sostanza al percorso esistenziale ed alla personalità atipica, fragile e, nel contempo, determinata di Tammy Faye disegnando un ritratto eccezionale ed affascinante di una donna dal carattere dai tanti risvolti. Scompare letteralmente sotto il trucco per riapparire poi come Tammy Faye a suo totale agio recitativo. È in scena costantemente e tutto il film poggia sulla sua magnifica interpretazione che, a tratti, sembra quasi intenzionalmente sfiorare la caricatura. L’attrice riesce però a discostarsene con un solo sguardo, uno sguardo intenso che fa emergere tutta la fragilità ed i tormenti interiori che si nascondono nel fondo di un personaggio complesso le cui esperienze familiari giovanili hanno influenzato le sue attese, la sua religiosità. Una Fede ed una personalità che restano fortemente ingenue ed infantili perchè condizionate da nodi irrisolti. Un essere umano che pur dietro un look ed atteggiamenti eccessivi e caricaturali, merita simpatia piuttosto che pietà e disprezzo, e… ogni volta, gli occhi della Chastain lavorano magistralmente per ricordarcelo! Una performance recitativa ed interpretativa veramente rimarchevole, tutta centrata sul contemperamento degli eccessi della personalità con l’interiorità espressiva
Nel cast oltre ad Andrew Garfield, il carismatico marito, ed allo stuolo di eccezionali secondi e terzi ruoli, va segnalata poi anche Cherry Jones (nei panni della mamma di Tammy) che con la sua capacità recitativa fa da contrappunto di concretezza nel delirio di illusioni. La regia, supportata da una buona sceneggiatura, è sapiente ed equilibrata e dimostra una buona capacità di direzione artistica in un film tutto centrato sulle esuberanze recitative. Pur rasentandolo spesso, evita abilmente di cadere nel kitsch e in altre possibili sbavature
Basato su un documentario di egual titolo il film è un classico dramma biografico costruito sulla storia della coppia di telepredicatori. Un ritratto però troppo lusinghiero e compassionevole, un’ambiguità maggiore avrebbe meglio rispecchiato la realtà, e, soprattutto, avrebbe dato alla narrazione anche un tocco di complessità e realismo maggiore. Sullo sfondo, ma non marginale, la religione dei telepredicatori come business, il ruolo dei circoli religiosi, veri organismi corporativi che operano secondo le regole delle grandi imprese capitaliste. I conflitti di idee, di interessi, le relazioni politiche, il controllo delle masse, delle donazioni, dei voti e le collusioni con il Potere.
data di pubblicazione:02/02/2022
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da Antonio Iraci | Feb 2, 2022
Era uscita di scena senza preavviso da molti anni (colpa di una misteriosa malattia degenerativa, probabilmente Alzheimer) e questo repentino eclissarsi in un silenzioso esilio, ha finito suo malgrado per consolidare la dimensione del mito in un personaggio che, per il suo afflato con il grande pubblico e per la sua esuberanza espressiva, non ha mai assunto l’aristocratico distacco della diva. Unica e inimitabile, fin dagli inizi si colloca fuori dai cliché ritenuti vincenti per il successo: la sua straordinaria ma non convenzionale bellezza e la sua voce insolita, afona e dissonante, si riveleranno adeguate ad esprimere con credibilità le istanze di un cinema più moderno e sperimentale, attraversato dalle inquietudini di personaggi complessi e tormentati, che si muovono in spazi borghesi, tra paesaggi rarefatti. Esemplare e memorabile la tetralogia dell’incomunicabilità di Antonioni. Musa di un cinema d’arte dunque raffinato e stilizzato per la gioia di studiosi e cinephile, grazie all’intuizione di Monicelli che le affida il ruolo della “ragazza con la pistola”, spiazza e sorprende il grande pubblico rivelando una straordinaria vena brillante e perfino comica. Inizia così un nuovo percorso della sua carriera, eclettico e costellato di successi, che la consoliderà come la grande interprete della “Commedia all’italiana” contendendo il ruolo di protagonista (ruolo fino ad allora di appannaggio maschile) accanto a mostri sacri come Sordi, Gassman, Tognazzi e Mastroianni, diretta da registi come Scola, Monicelli, Risi, Loy, Comencini … e perfino Bunuel! Se ne è andata a 90 anni, lentamente si è allontanata quasi a volerci preparare al suo definitivo distacco, ma resterà per sempre nell’immaginario del grande pubblico, consacrata all’immortalità del grande cinema.
data di pubblicazione:02/02/2022
da Daniele Poto | Feb 2, 2022
(Teatro India – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Monologo di una scrittrice dai pensieri devianti, quasi una confessione a cuore aperto con perfetta immedesimazione tra regia, drammaturgia e voce recitante.
La sinergia teatrale tra le due Lucie (Calamaro e Mascino) fa pensare che il monologo sia stato scritto a misura della brava interprete che per un’ora nella prima davanti a una platea giovane e sinceramente entusiasta doma gli astratti fuori di una scrittrice in crisi, orfana di un successo che le arrise e che ora vede sfumare gli incipit in vicende di scarso respiro. La monologante si esprime con ruolo maschile e con l’affabulazione attoriale che le è propria interrogando a volte retoricamente il pubblico. Evocando i fantasmi dei parenti oppure scrittori masticati con difficoltà come Derrida o Deleuze. Una patina di snobismo che la fa partire ma arrivare mai. Lacerti di frasi impressioniste, brandelli di storie ma la narrazione completa le sfugge dal basso di una crisi che la tocca nella sua sfera intima, magicamente rivelata al pubblico. La drammaturgia della Calamaro è ficcante anche se a volte il testo e il senso perde di tensione e coesione (comprensibilmente non facile da mantenere dopo lo scoppiettante inizio). L’abbattimento simbolico e quasi finale della biblioteca è la metafora di un’insuperabile impotenza creativa. E il finale è come sospeso su due parole che rimandano al flusso incomprensibile dell’esistenza, del suo senso e della sua conclusione. “Ma perché? La Mascino è insieme divertente e commovente in questa recitazione rotta, vagamente dissociata e schizoide rappresentandoci onde del disagio contemporaneo. Particolarmente rilevante in una professione creativa non incasellabile in schemi rigidi. Chissà quanti scrittori mainstream possono riconoscersi in questo corrosivo quadretto. La scenografia essenziale va in tinta (bianca omogenea all’abbigliamento della magrissima protagonista. Spettacolo di vuoto più che di pieni, di un’angoscia, se si può dire, allegramente rappresentabile.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 1, 2022
Un nitido cronologico omaggio al Maestro delle musiche da film attraversando gloriosamente cinquanta anni di cinema, dal trash alle pellicole d’arte con una cifra stilistica inconfondibile.
Raramente si esce appagati da una sala come dopo questi 150 minuti di emozionante viaggio dentro il mondo di una persona che non riesce difficile definire artista. Film documentario (e non sembri una contraddizione) che è una sorta di intarsio di scatole concentriche. Dentro c’è la storia di mezzo secolo di cinema ma anche altrettanti anni di sviluppo musicale di un’arte artigianale. E, quello che più, conta l’evoluzione di un mito italiano. E che sorpresa trovare l’eco di Morricone (un cognome che gli americani proprio non riescono a pronunciare correttamente) nei concerti dei Clash, nei Metallica, nell’entusiastica considerazione di un Bruce Springsteen. Gruppi e cantanti apparentemente su galassie diverse. Morricone appare in tutte le sue sfaccettature. Nella sua contrastata gavetta, proveniente da famiglia umile, con padre trombettista, alle prime collaborazioni in compartecipazione. Collaborazioni tutt’altro che schifiltose anche con il cinema di serie B, prima di fare il salto di qualità con Sergio Leone. Con il rimpianto, per il divieto di quest’ultimo, di non aver potuto lavorare fianco a fianco di Kubrick per Arancia Meccanica (vincoli contrattuali). È costata sette anni di lavoro in giro per il mondo questa creazione che trasmette energia. Ma c’è anche lo sfaccettato Morricone di Nuova Consonanza, con le scorribande nella musica sperimentale, il Morricone direttore d’orchestra, l’umile ma indipendente discepolo di Petrassi. Sempre alle prese con un cronico e mai vinto complesso d’inferiorità per non aver abbracciato in toto la carriera di compositore, inventando una strada con un metodo personale e, per certi versi, irripetibile. Tornatore ha avuto l’umiltà di dedicarsi a un mito italiano, ricco di nomination, con la conquista assoluta dell’Oscar raggiunta con Tarantino, un tardivo omaggio a quanto aveva seminato con un ricco curriculum.
data di pubblicazione: 01/02/2022
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da Antonio Iraci | Gen 31, 2022
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 25/30 gennaio 2022)
Le sorelle Rosaria e Addolorata, titolari di una modesta merceria in un quartiere popolare di Napoli, amano autodefinirsi “signorine”. Sono infatti due attempate zitelle non certo per libera scelta, quanto piuttosto per un crudele capriccio del destino che le ha rese entrambe claudicanti. Una convivenza non facile la loro ai limiti della sopportazione reciproca, ma che tuttavia con il passare degli anni sembra invece rinsaldare una simbiosi perfetta, destinata a mantenersi intatta anche dopo la morte.
Pierpaolo Sepe è un regista teatrale napoletano noto agli appassionati di teatro per aver firmato oltre sessanta regie. Proprio in questi giorni ha messo in scena un lavoro ideato da Gianni Clementi dal titolo quanto mai allusivo “Le signorine” con la partecipazione di due attrici di grande spessore recitativo quali Isa Danieli e Giuliana De Sio. Nel mondo di oggi, dove lo spettatore è sottoposto sempre più a stimoli visivi e acustici e dove oramai si è visto tutto ciò che c’era da vedere e sentito tutto quello che c’era da sentire, è sicuramente stimolante ritornare a forme di spettacolo semplici, senza più imporre ogni forma di esagerato stupore. La commedia di Clementi ci offre, mutatis mutandis, un teatro alla De Filippo dove va in scena il quotidiano e dove tra il serio e il faceto ci viene da pensare alla realtà in cui siamo obbligati a barcamenarci. Così come per le due sorelle, destinate ad una forzata convivenza pur essendo diverse per temperamento: la più grande legata al senso del dovere e al disperato bisogno del risparmio, in vista di un futuro quanto mai incerto, mentre l’altra ogni tanto attratta dalle piccole trasgressioni e, nell’illusione delle telenovelas, fiduciosa che prima o poi anche a lei capiterà di catturare l’attenzione di un uomo. Un rimbeccarsi continuo per poi chiedersi quale è e quale sarebbe stato il senso della loro vita se non fossero state colpite dalla malattia che le ha rese zoppe sin da bambine. Qui entra in gioco la napolineità di questa commedia, leggera e profonda nello stesso tempo perché, tra l’incalzare delle battute, ci fa riflettere sul senso di ciò che viviamo e sul senso di quella globalizzazione che ci ha reso paradossalmente schiavi di una tanto sbandierata uguaglianza sociale. Molto brave le due attrici in scena che, pur muovendosi in uno spazio claustrofobico, sono riuscite a dare un’immagine interna ed esterna di una realtà effettivamente vissuta. Folto il pubblico in sala, divertito da una forma teatrale all’antica e partecipe di quella atmosfera rilassata che era propria dell’avanspettacolo di un tempo.
data di pubblicazione:31/01/2022
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da Antonio Jacolina | Gen 29, 2022
Taciturno, solitario, Bill Tell (Oscar Isaac) è un reduce dall’Iraq, da poco uscito da un penitenziario militare. Fugge da un passato che lo tormenta, è un’anima persa che cerca di espiare le colpe e redimersi. Passa da un Casinò all’altro accontentandosi di vincere poco, mettendo a frutto il talento di “contatore di carte” che ha perfezionato nei 10 anni di carcere. Incontra casualmente Cirk (Tye Sheridan), un giovane sofferente e sbandato, e lo prende sotto le sue ali protettive. Ma il Destino ha già segnato le carte…
Schrader appartiene alla Storia del Cinema Americano. E’ uno sceneggiatore leggendario (suoi gli script dei primi capolavori di Scorsese: Taxi Driver, Toro Scatenato e L’ultima tentazione di Cristo) ed è anche regista discontinuo. Oggi, a 75 anni, ci regala un bel film – di sicuro uno dei suoi migliori dai tempi di American Gigolò – che, presentato a Venezia, è uscito in sala e sulle piattaforme televisive.
Non stiamo parlando di un film qualsiasi! Il Collezionista di Carte è una pellicola quasi vintage, quasi fuori del tempo e, nella forma, nei colori e nella sostanza, quasi anni ’70. Un prodotto che, ad immagine del suo impenetrabile protagonista, rifiuta ogni spettacolarità e si muove in atmosfere e ambiti molto introspettivi. Al centro, senza glamour, luce e lustrini, ci sono i casinò, il grigiore del gioco, la monotonia dell’attesa che si scoprano le carte. “Tutto è nell’attesa, finché non avviene qualcosa”, dice la voix off di Bill Tell. L’attesa del momento della Verità! Così nel Gioco, così nella Vita.
Tutto l’universo di Schrader, il suo cinema, le sue storie, sono in quelle parole: attesa, tensione, acme finale, colpa, espiazione, redenzione. Il regista continua a confrontarsi con gli stessi temi da sempre, senza però essere mai ripetitivo perché ogni volta esamina nuove e diverse sfaccettature del problema.
Tante, ovviamente, le somiglianze con Taxi Driver, tante le somiglianze tra De Niro ed Isaac. L’attore incarna il suo enigmatico personaggio con un talento magnetico, con una forza contenuta e repressa, ammirevole e geniale. La sua prestazione meriterebbe senz’altro una nomination ai prossimi Oscar. Intorno a lui un cast di ottimi co-protagonisti: il giovane e bravo Tye Sheridan, Tiffany Haddish e – in un cameo – l’amico di sempre, Willem Dafoe.
Quel che, però, rende particolare il film è una regia elegante e contenuta che mantiene sapientemente un ritmo lento in attesa della catarsi, giocando su due registri: quello iniziale del “film di giocatori e di casinò” e quello centrale, in cui gli spettatori vengono portati nel mondo di un uomo traumatizzato e di un cuore nelle tenebre. Il tutto supportato da una sceneggiatura definita al millimetro, da una messinscena sobria, quasi claustrofobica, rafforzata da una fotografia che gioca con le oscurità e da una colonna sonora originale, di grande bellezza ed efficacia.
Schrader è però bravo a salvarsi dal rischio della mera vacuità estetica e riesce a dare alla narrazione una dimensione tanto umana quanto politica. In filigrana, infatti, dietro al dramma del protagonista, c’è anche un’America con tutte le sue ipocrisie, le sue colpe e le sue macerie morali e sociali.
data di pubblicazione:29/01/2022
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da Maria Letizia Panerai | Gen 26, 2022
Tommaso (detto Tom) e Zoe stanno insieme da dieci anni: lui scrive romanzi con alterne fortune, lei è una Dirigente nel campo dei videogiochi ed è una donna decisa nel lavoro ma che non rinuncia alla sua femminilità; la loro storia è ad un bivio ma ad accorgersene è solo Zoe che comincia a non sopportare più tutte quelle cose di Tommaso che, molti anni prima, la avevano fatta innamorare. Ma la paura di lascarsi è più forte della voglia di stare insieme: un giorno decide di scrivere alla posta del cuore di una rivista femminile, e confessa il proprio disagio chiedendo consigli su come lasciare il suo compagno. Le risposte, da qualcuno che si firma con lo pseudonimo di Marquez, non tarderanno ad arrivare…
E bravo Edoardo Leo! Il suo film Lasciarsi un giorno a Roma (come recita anche la canzone di Niccolò Fabi sui titoli di coda), seppur sia approdato al cinema in maniera anomala dopo aver debuttato il 1° gennaio su Sky e in streaming su Now, sta riscuotendo anche nelle sale un discreto successo. L’attore, alla sua quarta esperienza da regista, per omaggiare gli spettatori che decidono ugualmente di andare al cinema al tempo del Covid, ha deciso furbescamente di raggiungerli in alcune sale della capitale alla fine della proiezione (cosa si deve fare per campare!), per farsi “intervistare” su curiosità ed aneddoti riguardanti la pellicola.
Lasciarsi un giorno a Roma, già dal titolo, parla di un amore che finisce ma l’ironia e la romanità di Leo, che ne è anche interprete assieme a Marta Nieto e ad una coppia d’assi come Claudia Gerini e Stefano Fresi, rende la pellicola leggera, spassosa, quasi come certe commedie francesi che noi italiani non sappiamo proprio fare. Nel film non c’è happy and ma neanche dramma, c’è solo la consapevolezza, neanche troppo amara, che a volte per una coppia nel momento della crisi può essere più “sano” prendere strade diverse che ri-provarci. E poi c’è Roma in tutta la sua “grande bellezza”, che diventa la splendida cornice a tutta la vicenda “…come se fosse un grande teatro romantico… Dopo il lockdown Roma era deserta, e io ho visto un’altra città, pulita, meravigliosa… come una città super romantica, simile quindi a Venezia, Parigi, New York”.
Il film di Leo ha il pregio innegabile di essere vero, o quanto meno credibile, così come lo sono i personaggi, i dialoghi e le loro storie, e questo lo rende gradevole, divertente e lieve, con una sceneggiatura particolarmente attenta alle figure femminili, tutte ben tratteggiate nel loro mix perfetto di forza e fragilità al fianco di uomini che purtroppo a volte, dovendo rinunciare alla loro comfort zone, hanno come primo istinto quello di scappare più che di fermarsi a riflettere.
Potremmo dire che “ridendo e scherzando” il regista, sulle note di una fantastica versione piano e voce di Sempre e per sempre di Francesco De Gregori, ci suggerisce un modo sicuramente contemporaneo di vivere il rapporto di coppia, nel rispetto delle diversità di ognuno ma anche adeguandosi ai mutamenti individuali ed ambientali che la vita ci prospetta. Un film ingenuo e coraggioso al tempo stesso che intrattiene con un po’ di novità.
data di pubblicazione:26/01/2022
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