ORO BRETONE – SCOMPARSA A GUERANDE  di Jean-Luc Bannalec – ed. ISBN 2021

ORO BRETONE – SCOMPARSA A GUERANDE di Jean-Luc Bannalec – ed. ISBN 2021

Oro Bretone è l’ultimo dei tre libri di J. L. Bannalec finora tradotti in italiano e recentemente “rilanciati” per i tipi ISBN. In realtà, dal suo esordio nel 2012 ad oggi, l’autore ha pubblicato con successo crescente ben 9 romanzi con al centro le inchieste del suo Commissario Dupin. Non sappiamo quindi come siano nel frattempo evoluti il romanziere ed il suo personaggio, possiamo solo constatare per ora, sul filo di questi suoi primi tre racconti, che sia lo scrittore sia Dupin hanno indubbiamente e progressivamente assunto una loro ben definita personalità, le storie sono narrate con mano sempre più sicura e realistica, il ritmo e l’azione hanno una crescente dinamicità ed efficacia e … la Bretagna, pur restando il magico sfondo di tutte le indagini, è divenuta sempre meno banalmente cartolina illustrata e sempre più parte delle storie stesse.

In quest’ultima terza inchiesta Dupin si trova, suo malgrado, coinvolto in una sparatoria e poi costretto ad operare fuori dalla sua zona; a Guérande. La vicenda gira infatti attorno all’Oro Bianco delle sue saline naturali, celebri per il fleur de sel. Un caso dalle caratteristiche molto diverse e molto più dinamico e d’azione dei precedenti. Un’indagine in cui poi si inserisce autorevolmente (mettendo quasi in ombra lo stesso Dupin) un nuovo personaggio femminile dalla forte personalità,  efficiente, dinamico, intelligente, sornione e determinato: la Commissaria Sylvaine Rose con cui “il nostro” deve fare squadra per poter risolvere le ricerche in corso.

Intelligentemente Bannalec evita la banalità di una relazione fra i due Commissari e privilegia invece il gioco degli opposti o delle somiglianze nella diversità, fra i due e fra i loro diversi ma pur sempre efficaci  metodi di indagine. Dall’incontro le qualità di Dupin non si perdono affatto, anzi, al contrario, la sua figura ne guadagna in personalità, umanità e simpatia. Narrativamente la coppia funziona molto bene e se ne giovano sia il ritmo che diviene più serrato ed avvincente, sia la costruzione ed evoluzione della storia e le sue atmosfere.

In conclusione le inchieste del Commissario Dupin sono una piacevole scoperta/riscoperta, una gradevole lettura e dei buoni piccoli polizieschi. Le storie sono indipendenti l’una dall’altra ma, di sicuro, leggerle in sequenza le rende ancor più avvincenti. Dupin si conquisterà sicuramente anche in Italia il suo pubblico perché di libro in libro diviene più simpatico: un orso un po’ rude, burbero e poco comunicativo ma che è intuitivo, empatico, fascinoso senza saperlo e che sa anche apprezzare le cose belle della vita. E poi c’è la Bretagna … ricca di angoli meravigliosi, di ristorantini, bar sfiziosi, piccoli hotel … affascinante che viene voglia, potendo, di visitarla o di tornare a visitarla.

data di pubblicazione:15/10/2021

IL PALLONE DI STOFFA di Walter Pedullà- Rizzoli editore, 2020

IL PALLONE DI STOFFA di Walter Pedullà- Rizzoli editore, 2020

Più eloquente del titolo che rimanda al calcio giovanile, alla povera infanzia calabrese, illuminante è il sottotitolo: Memorie di un nonagenario. Perché Water Pedullà, esimio critico letterario, festeggiando un’età invidiabile, rivela il suo tonitruante Confesso che ho vissuto. E, in effetti, nella sua esistenza ha cumulato molte vite: professore emerito alla Sapienza, presidente della Rai, primo responsabile del Teatro di Roma, critico letterario de L’Avanti. Sempre in prima fila per battaglie sperimentali nel nome del Partito Socialista ma versione lombardiana, non proprio surrogato ideologico di Craxi. Un fiero combattente della vita che qui ci ricorda la lunga e sofferta gavetta, fino all’affermazione accademica sulla scia del grande e indimenticato maestro Giacomo De Benedetti. Novanta anni raccontati con grande lucidità di pensiero e con qualche pensiero acuminato. Inevitabile momento di bilanci per chi ha avuto tanto dalla vita ma parallelamente ha dato con generosità e slancio, sempre proteso verso il limite dell’ostacolo. Da Siderno ai Palazzi-bene della capitale ma sempre con il sorriso sulle labbra, pronto a demolire il mito sovietico e la labilità di certi irresistibili romanzieri italiani. Pedullà è stato un maestro per disvelare i frutti buoni del novecento italiano. Nel riscoprire Landolfi, nel valorizzare Pizzuto, nell’assecondare le pulsioni del Gruppo ’63 e le vena dell’avanguardia. Critico che era amico e frequentava gli scrittori, primo fra tutti il corregionale Saverio Strati. Insieme uomo di potere e di barricate, estrema sintesi dialettica per un intellettuale che ha sempre difeso con coerenza le proprie tesi, anche correndo il rischio di essere defenestrato da cariche importanti. La godibile lettura ci fa entrare in un mondo personale ricco di aneddoti, di emozioni, di amarezze, di risvolti, di piccoli ma apprezzabili colpi di scena. Con la chiave della militanza e dell’impegno sempre debitamente in primo piano. Un ampio florilegio di citazioni riassunte nell’indice di nomi permetterà di orizzontarsi in una mappa esistenziale complicata.

data di pubblicazione:15/10/2021

THE EYES OF TAMMY FAYE di Michael Showalter, 2021

THE EYES OF TAMMY FAYE di Michael Showalter, 2021

Stati Uniti, anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, Tammy Faye (Jessica Chastain) ed il suo carismatico marito Jim Baker (Andrew Garfield) si fanno spazio nel mondo dei televangelisti affascinando l’America profonda e creando dal nulla un network televisivo che estende i suoi interessi in molteplici attività. Un busines che va ben al di là della diffusione delle parole di Fede. Chi manipola? Chi è manipolato?Tutto è ambiguo! Fino a quando …

Pandemia Anno Secondo! Ma, nonostante tutto, la Festa del Cinema di Roma torna per la 16ma volta consecutiva! Certo, a primo acchito, sembra essersi un po’ persa, complici i tanti vincoli imposti dal Covid e l’obbligo di prenotazione on line dei film con relativa assegnazione automatica dei posti, quella bella atmosfera da Kermesse e di Festa, di improvvisazione e di scelte istintuali tipiche di un Festival, di una Festa di popolo, quasi “de noantri” come era poi Roma. Ci si andava per vedere film ma anche per ammirare attori ed attrici e per farsi notare fra la folla. Oggi, almeno per ora, ci sono solo i film! E … non è affatto poco! pensando a quanto abbiamo temuto di perderlo!

Il film con cui si è aperta la nuova edizione, diciamolo subito, non resterà certo negli annali, ma potrà essere semmai ricordato essenzialmente per l’ottima interpretazione della Chastain in uno di quei ruoli “totali ed immersivi” che in America spesso portano dritti, dritti all’Oscar. La Critica autorevole dà infatti già per scontata, almeno una sua nomination per la sua intensa interpretazione.

La Chastain dà infatti vita e sostanza al percorso esistenziale ed alla personalità atipica, complessa, fragile e, nel contempo, determinata di Tammy Faye disegnando un ritratto eccezionale ed affascinante di una donna dal carattere dai tanti risvolti. La Chastain scompare letteralmente sotto il trucco e le protesi per riapparire come Tammy Faye a suo totale agio recitativo. E’ in scena costantemente e tutto il film poggia sulla sua magnifica interpretazione che, a tratti, sembra quasi intenzionalmente sfiorare la caricatura, riuscendo però a discostarsene con un solo sguardo intenso che riesce a far emergere tutta la fragilità ed i tormenti interiori che si nascondono nel fondo di un personaggio complesso le cui esperienze familiari e personali giovanili hanno influenzato le sue attese, la religiosità e la Fede. Una Fede che resta in sostanza, fortemente ingenua ed infantile condizionata da nodi irrisolti. Un essere umano che pur dietro un look ed atteggiamenti eccessivi e caricaturali, merita simpatia piuttosto che pietà e disprezzo, e … gli occhi della Chastain lavorano magistralmente per ricordarcelo! Una performance recitativa ed interpretativa veramente rimarchevole, tutta centrata sul contemperamento degli eccessi della personalità con l’interiorità.

Basato su un documentario di egual titolo il film è un classico dramma biografico sulla storia della coppia di telepredicatori, un ritratto forse troppo lusinghiero e compassionevole, un’ambiguità maggiore avrebbe infatti meglio rispecchiato la realtà, ma, soprattutto, avrebbe dato alla narrazione anche un tocco di complessità e realismo maggiore. La regia, supportata da una forte sceneggiatura, è sapiente ed equilibrata, evita di cadere nelle possibili sbavature od eccessi e dimostra una buona capacità di direzione artistica in un film centrato tutto sulle esuberanze recitative e sa ben evitare, pur rasentandolo, il kitsch.

Sullo sfondo, ma non marginale, la religione dei telepredicatori come business, il ruolo dei circoli religiosi, veri organismi corporativi che operano secondo le regole delle grandi imprese capitaliste. I conflitti di idee, di interessi, le relazioni politiche, il controllo delle masse, delle donazioni, dei voti e le collusioni con il Potere. Oltre ad Andrew Garfield il carismatico marito, ed allo stuolo di eccezionali secondi e terzi ruoli, va segnalata poi anche Cherry Jones (nei panni della mamma di Tammy) che con la sua capacità recitativa fa da contrappunto di concretezza nel delirio di illusioni.

data di pubblicazione:14/10/2021








PENG  di Marius Von Mayenburg, traduzione di Clelia Notarbartolo, regia di Giacomo Bisordi, con Fausto Cabra, Gianluigi Fogacci, Sara Borsarelli, Giuseppe Sartori, Anna C, Colombo, Francesco Giordano, con la partecipazione di Manuela Kustermann

PENG di Marius Von Mayenburg, traduzione di Clelia Notarbartolo, regia di Giacomo Bisordi, con Fausto Cabra, Gianluigi Fogacci, Sara Borsarelli, Giuseppe Sartori, Anna C, Colombo, Francesco Giordano, con la partecipazione di Manuela Kustermann

(Teatro Vascello – Roma, 24 settembre /10 ottobre 2021)

Un progetto dinamitardo di teatro sovversivo/adrenalico. Due ore tirate allo spasimo per un adeguato impegno fisico di una compagnia omogenea e polivalente. Teatro situazionista e non letterario per due ore di un sano se non istruttivo “lasciatemi divertire”.

Esplodono anche colpi da arma da fuoco in scena (avviso per i più impressionabili) segno che lo spettacolo può riservare qualunque sorpresa. Dagli intermezzi pubblicitari della padrona di casa Manuela Kustermann al pubblico ludibrio di una secchiata di concime in testa riservata alla donna vittima. Del resto lo slogan dominante dell’autore è la massima “il teatro dovrebbe essere un luogo in cui non sentirsi al sicuro”. Difatti lo spettatore avvampa di fronte alle scatole cinesi in finta diretta alla “Grande fratello” sadica e stizzosa dove l’infante Peng è il protocollo di una nuova logica di controllo, auspicando il momento in cui i giovani prendano il sopravvento sui genitori politicamente corretti. Peng, creatura di laboratorio scenico, è completamente all’opposto. Spietato, dissacrante, morboso nella sua voglia di affermazione. Una grandiosa parodia dell’esistente europeo che cerca di ribadire i valori mentre non riesce ad affermarli. Così la donna strapazzata è un essere da rilegare in cantina che si esalta solo nei quiz dove (naturalmente) sarà la peggiore a vincere perché all’avversaria non sarò dato modo di esprimersi. Due ore di svolgimento convulso e senza una trama riassumibile. E, viva la faccia, con grande spreco di materiale nei fai da te in cui gli attori ribaltano scenografie, piani d’incontro, prospettive. Lo spiazzamento è la regola della casa. Nell’occasione il teatro contiene la televisione e il video cinematografico in un affastellamento al quadrato e persino al cubo della fruizione artistica. Il teatro di Monteverde ha investito molto su questa proposta anticonvenzionale che esprime una grande durata in cartellone rispetto all’abituale programmazione. Scelta ripagata da un pubblico plaudente e entusiasta anche per la grande profusione di fisicità dei componenti. Non è un caso che lo script sia venuto nel periodo di massimo imbarazzo per la presidenza-Trump.

data di pubblicazione:07/10/2021


Il nostro voto:

L’UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU’ di Luigi Pirandello, regia di Giancarlo Nicoletti, con Giorgio Colangeli, Valentina Perrella, Cristina Todaro, Alessandro Giova, Alex Angelini, Giacomo Costa, Giuseppe Carvutto

L’UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU’ di Luigi Pirandello, regia di Giancarlo Nicoletti, con Giorgio Colangeli, Valentina Perrella, Cristina Todaro, Alessandro Giova, Alex Angelini, Giacomo Costa, Giuseppe Carvutto

(Teatro Sala Umberto – Roma, 28 settembre/1 ottobre 2021)

Pirandello in salsa vintage. Regge la storia e in parte anche il linguaggio in una rilettura mainstream che non si preoccupa del politicamente corretto e non si pone il problema di criticare l’evidente misoginia del testo, tutto sbilanciato sul versante maschile. Non sperimentazione ma scapigliata rilettura del testo.

Il romanissimo Giorgio Colangeli, premio David di Donatello per il cinema, è un verace e sempre più godibile mattatore teatrale per due ore di rappresentazione che, peraltro, non sono affidate all’one man show. Un Pirandello laterale su uno stuzzicante tema in cui galoppa per l’occasione un sottotesto stuzzicante ed ammiccante. Che scenicamente guarda soprattutto alla trasformazione della Perrella (attrice) Perella (personaggio) da una scialba donnetta, messa incinta dal protagonista e quasi inconsapevole di quello di cui è insieme carnefice a e vittima, in una provocante dark lady rivestita di un rosso attillata, truccata per l’occasione dal suo manipolatore. Dunque quello che era una dramma del suo tempo diventa un vaudeville per l’ovvio limite di credibilità attuale. Pirandello come Feydeau? Non proprio. Rimane una solida trama di impianto siciliano con una superfetazione sul ruolo delle governanti e sull’accentuazione caricatura del ruolo giovani. Solo così del resto si poteva avviare lo svecchiamento e godere come di un sorridente giallo lo scioglimento verso il finale positivo. Il signor Paolino si salverà perché potrà attribuire al marito dell’amante il figlio che nascerà dal suo seme, evitando una tragedia familiare che ai tempi di Pirandello avrebbe provocato uno sconquasso e che invece ora si deliba con serenità. Gli uomini tengono in pugno la situazione ma, alla fine, il potere della seduzione femminile e di un misterioso prodotto in un dolce al cioccolato (oggi sarebbe il viagra, sic!) muove come un deus ex machina la lieta conclusione del plot. Nell’occasione bravi i caratteristi dei ruoli minori.

data di pubblicazione:06/10/2021


Il nostro voto:

NOSTRI FANTASMI di Alessandro Capitani, 2021

NOSTRI FANTASMI di Alessandro Capitani, 2021

Un giovane vedovo, che ha perso il lavoro, si nasconde col figlio nel sottotetto della ex abitazione spaventando chiunque tenti di abitarla. Con il bambino architetta una serie di situazioni (si fingono fantasmi) tali da terrorizzare gli aspiranti inquilini e indurli a lasciare presto la casa. L’arrivo di una giovane mamma israeliana con relativa figlioletta complicherà non poco le cose, anche per l’arrivo indesiderato del violento padre della bambina…

 

Ci si lamenta spesso e a ragione della debolezza delle sceneggiature dei film italiani: mancanza di idee, ricorso alla volgarità gratuita, trame ridotte a semplici sketches, presenza di attori che ripetono sempre se stessi. Godiamoci allora questo piccolo, diverso, I nostri fantasmi, sbucato dalla sezione Autori dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia che, a dispetto della solita miope distribuzione vanta diverse frecce al suo arco. Per cominciare, ha un avvio intrigante: sembra un horror ma non lo è! Ha una storia abbastanza nuova e originale (la coppia che si nasconde nel sottotetto col papà che illude il figlio trattarsi di un gioco fra loro, i buoni e gli altri, gli invasori, i cattivi) che si dipana in diverse direzioni, tutte plausibili. C’è un’attenzione a problematiche, purtroppo sempre attuali: la disoccupazione, il razzismo, la violenza domestica, la rabbia sociale. Tematiche, peraltro, sfumate all’interno di un plot narrativo che ha un suo ritmo minimale, cadenzato, mai esagerato o urlato. È confortato dalla presenza di attori perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli: Michele Riondino (Valerio), un padre credibile, scarno e misurato pur se devastato da problemi terrificanti (mantenere un figlio, senza una casa, senza un lavoro, con i servizi sociali pronti a sottrargli il minore); Hadas Yaron (Miryam) la dolce ebrea, mamma di una piccina, in fuga da un marito possessivo e manesco, interpretato dall’accigliato e bravo Paolo Pierobon. Nei panni di un vicino, colonnello in pensione burbero-ma-comprensivo, Alessandro Haber, fa il suo.

A completamento dei meriti della pellicola di Alessandro Capitani, regista e co- sceneggiatore (già vincitore di un David di Donatello nel 2016 per il cortometraggio Bellissima) di questo gioiellino c’è da segnalare la sceneggiatura, (condivisa da Capitani con la già collaudata Francesca Scialanca e l’esordiente Giuditta Avossa) sincera, tenera, ma mai buonista, come pure il commento musicale di Michele Braga e l’attenta fotografia di Daniele Ciprì. Senza gridare al capolavoro, una piccola ventata di aria pulita nell’asfittico panorama del cinema autoriale di casa nostra.

data di pubblicazione:05/10/2021


Scopri con un click il nostro voto:

UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA, regia e drammaturgia di Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley

UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA, regia e drammaturgia di Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley

(Teatro Quirino – Roma, 24 settembre/3 ottobre 2021)

Il Teatro Quirino riapre le porte al pubblico con un prologo di 8 spettacoli in attesa della nuova stagione che riprenderà a novembre. Lorenzo Gleijeses è Gregorio Samsa, un artista della danza tormentato nella ricerca della perfezione, incastrato nelle sue più nascoste ossessioni.

 

Frutto di un complesso lavoro iniziato diversi anni fa a Hostelbro in Danimarca, lo spettacolo di Lorenzo Gleijeses e Mirto Baliani – entrambi figli d’arte – è cresciuto giovando del contributo creativo dei due massimi rappresentanti dell’Odin Teatret, Julia Varley e Eugenio Barba, quest’ultimo alla sua prima regia fuori dalla celebre compagnia da lui fondata.

Gregorio Samsa, il cui nome richiama chiaramente il personaggio della Metaforfosi di Kafka, è un danzatore di quarant’anni impegnato nelle prove di uno spettacolo che a breve avrà il suo debutto. Trascorre le giornate ripetendo instancabilmente i movimenti che daranno vita a una danza delirante di cui è il protagonista. Isolato volontariamente nel suo mondo creativo, interagisce con oggetti elettronici e suoni provenienti dall’esterno. Le voci che popolano la sua solitudine sono quelle del regista/maestro che lo guida nella fase creativa, del padre anche lui artista che lo spinge a mostrare i risultati, della fidanzata stanca di essere trattata con distacco e della psicologa a cui si rivolge per continuare la terapia di ricerca e conoscenza che lo assilla. Il confronto tra il mondo interiore del personaggio e questi interventi che piombano sulla scena dall’esterno, nella forma della voce fuoricampo, permette di fare chiarezza sull’idea che è alla base del lavoro. Ma anche le coordinate di spazio e tempo sono necessarie per comprendere la vicenda. Il pubblico viene fatto accomodare sul palcoscenico a pochi passi dal luogo dell’azione del performer. Questa condivisione dello spazio genera una trasmissione di energia che altrimenti sarebbe impossibile stando in platea. Le tavole del palco vibrano sotto i passi della danza e trasmettono quella sensazione di delirio e ossessione nella quale è incastrato il protagonista. La luce palpabile e emozionale di Mirto Baliani fa il resto. Ma lo spazio è anche mentale, il luogo dell’intimità dell’artista, sacrificato allo sguardo invasivo dello spettatore. Il tempo invece pare restringersi e allargarsi tra il ritmo serrato con cui Lorenzo Gleijeses ripete gli infiniti passi della sua danza e una quotidianità sempre uguale che non ha uno scopo se non l’infinito e l’irraggiungibile.

Lorenzo Gleijeses è pura energia pulsante, vitalità e tormento. Questo spettacolo è una prova di resistenza incredibile che richiede un immenso sforzo sia mentale che fisico, ma anche capacità di dialogo con la materia sonora e luminosa di cui è composto. Un ottimo lavoro per ricominciare una stagione, per riprendersi lo spazio dell’arte e del teatro.

data di pubblicazione:01/10/2021


Il nostro voto:

SEDUTA IN QUEL CAFFÈ di Elisabetta Sciabordi, regia e adattamento di Mariella Pizziconi

SEDUTA IN QUEL CAFFÈ di Elisabetta Sciabordi, regia e adattamento di Mariella Pizziconi

(Teatro Porta Portese – Roma, 29/30 settembre 2021)

Un sontuoso ritorno a teatro nel segno del dominio della parola. Tutto esaurito per la prima come ai vecchi tempo per un consolidato successo.

La pandemia non è stata solo solitudine, raccoglimento e frustrazione ma ha rappresentato anche un solido innesco creativo per l’ispirazione di Elisabetta Sciabordi, polivalente attrice/scrittrice/lettrice. Seduta in quel caffè in un giorno non a caso perché il 29 settembre di Equipiana memoria. Un motivo di Lucio Battisti la cui aura non si è persa nel corso degli anni. L’autrice scrive, medita, congettura, fantastica dai tavolini di un bar immaginario che, non a caso, prende il nome di Corona. E non nel senso della birra messicana ma della bufera epidemica che ha attraversato l’umanità. E traccia ritratti sapidi del vago, del seduttore, delle mille facce della commedia umana che può transitare in un bar. Bozzetti impressionisti animati dalla verve tutta napoletana di Marina Vitolo e inframmezzati dal duo voce/chitarra in un grande ripasso della canzone melodica italiana e non solo dell’ultimo cinquantennio, spingendosi fino all’interpretazione de “O Sarracino”. Uno spettacolo leggero, brioso e insieme profondo di 75 minuti per un pubblico attento e partecipe. Il cocktail lettura, recitazione, musica non produce una majonese impazzita ma un prodotto coerente e di rara godibilità. Viene da pensare ai Bar di Benni con trasmutazione romana perché anche qui non manca il riferimento alla golosità della pasta e a particolari sindromi da cornetto. Difatti la Sciabordi, per chi la conosce, è un esempio di bon vivant. Una particolare citazione per la voce femminile. La dottissima cantante si produce in fuori copione particolarmente apprezzabili.

data di pubblicazione:30/09/2021


Il nostro voto:

UNO SGUARDO RARO: IL CINEMA A SERVIZIO DELLA RICERCA

UNO SGUARDO RARO: IL CINEMA A SERVIZIO DELLA RICERCA

Con un intenso programma di proiezioni ed incontri tra Roma e provincia, la Nove Produzioni torna per il sesto anno consecutivo a trattare il difficilissimo tema delle malattie rare attraverso la potenza della macchina da presa. Altissimi i patrocini che supportano questa meravigliosa ed importante iniziativa nata dalla volontà di Claudia Crisafio e Serena Bartezzati, “due sognatrici” come esse stesse si definiscono sul programma di un Festival nato per raccogliere da tutto il mondo film che parlano delle sfide di chi convive con una malattia rara.

Ed il loro “sogno” ancora una volta si è avverato: sono stati oltre 200 i corti partecipanti alla corrente edizione e sottoposti all’attenta selezione dalla giuria tecnica del RARE DISEASE INTERNATIONAL FILM FESTIVAL che il prossimo 17 ottobre 2021 alla Casa del Cinema di Roma, nella giornata conclusiva della settimana di appuntamenti che avranno inizio il 9 ottobre p.v., annuncerà i nomi dei vincitori della VI edizione di Uno sguardo raro, concorso internazionale di cortometraggi sul tema delle malattie rare.

Argentina, Italia, Turchia, Iran, Qatar, Venezuela, Egitto, Belgio, Brasile, United Kingdom, Usa, India sono i paesi di provenienza dei cortometraggi finalisti e di quelli meritori dei premi speciali, tutti partecipanti con raffinatissime opere cinematografiche brevi che hanno per denominatore comune l’intento di sottolineare l’importanza della ricerca. A pronunciarsi sui corti vincitori dell’ edizione 2021 sarà una giuria di qualità presieduta da Gianmarco Tognazzi e composta da un pull di eccellenze in ambito medico sanitario quali Guglielmo Lorenzo di Telethon, Margherita Gregori, Vice Presidente della Federazione Italiana Malattie Rare onlus, Domenica Taruscio, Direttore del Centro Nazionale Malattie Rare, Stefania Collet dell’Osservatorio Malattie Rare oltre che prestigiosi nomi di spicco dello sport e spettacolo tra i quali l’attrice Maria Amelia Monti, l’autore Edoardo Erba, il regista Lorenzo Santoni e Fabrizio Zappi, Vice Direttore Rai Fiction o di atleti e dirigenti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano quali Stefano Pantano e Cecilia D’Angelo cui si aggiunge la giovanissima “influencer” d’origine salernitana Benedetta De Luca, autentica testimone di cosa significhi per un portatore di malattie rare lottare per i propri diritti. Fuori programma ma non meno importante per pregio dei protagonisti, sarà la consegna di un premio speciale a Paola Tiziana Cruciani e Lorenzo Lavia per l’interpretazione del corto diretto da Tiziana Martini “E’ stato solo un click” sulla diffusissima tematica della demenza senile, patologia certamente non catalogabile come malattia rara ma ovunque troppo frequente. In attesa del verdetto della Giuria di Qualità che proclamerà i vincitori delle tante categorie del Premio UNO SGUARDO RARO 2021, coloro che vorranno vedere i corti finalisti potranno facilmente accedere alla piattaforma unosguardoraro.tv dove potranno esprimere il proprio giudizio iscrivendosi alla Giuria Popolare.

Per ulteriori informazioni o per conoscere il calendario delle proiezioni, degli incontri e degli appuntamenti è consigliato visitare il sito www.unosguardoraro.org.

data di pubblicazione:28/09/2021

TRE PIANI di Nanni Moretti, 2021

TRE PIANI di Nanni Moretti, 2021

Tre piani di una palazzina nel Quartiere Prati di Roma, tre storie familiari che vengono scosse dal loro abituale “torpore” da una deflagrazione notturna, tre donne che dovranno decidere della loro vita: Nanni Moretti ci pone di fronte all’importanza di operare delle scelte, a volte dolorose ma necessarie. Un inno all’assunzione delle proprie responsabilità per costruire un nuovo assetto di crescita individuale.

 

 Al terzo piano di una palazzina vive una coppia di giudici, Vittorio (Nanni Moretti) e Dora (Margherita Buy); una notte vengono svegliati dal rumore causato da un brutto incidente: Andrea (Alessandro Sperduti), il loro figlio ventenne, rientrando a casa in macchina a forte velocità investe ed uccide una donna, per poi schiantarsi contro una parete in vetrocemento di un locale-studio al piano terra del suo stesso palazzo, sotto gli occhi increduli dei proprietari Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) e della loro bambina. Lucio e Sara vivono al primo piano di quella stessa palazzina, lavorano entrambi e sovente affidano la loro figlioletta Francesca a Giovanna e Renato, una coppia di anziani (Anna Buonaiuto e Paolo Graziosi) che hanno un appartamento sullo stesso pianerottolo. Al secondo piano invece vive Monica (Alba Rohrwacher) ed anche lei quella notte assiste all’incidente: è sola perché suo marito Giorgio (Adriano Giannini ) come spesso accade è all’estero per lavoro; la donna, in procinto di partorire la sua prima figlia Beatrice, sta aspettando un taxi che la porti in ospedale proprio nel momento in cui Andrea a tutta velocità travolge la passante e sfonda con la sua auto lo studio di Lucio e Sara. Quell’incidente rappresenterà un evento che scombinerà tassello dopo tassello l’apparente equilibrio di queste tre coppie e tutte, da quel momento, prenderanno lentamente consapevolezza della propria infelicità.

Moretti tratteggia, con uno stile registico scarno, tre coppie infelici ma che sembrano non sapere di possedere la possibilità di scegliere per cambiare lo stato delle cose e trasforma in immagini tre storie intime, riscrivendo con Federica Pontremoli e Valia Santella, le vicende narrate nell’omonimo libro di Eshkol Nevo, trasferendo l’adattamento cinematografico da Tel Aviv a Roma.

Tre piani è uno schiaffo in pieno viso, che genera sgomento perché Moretti maneggia la storia in maniera diretta ed asciutta, senza alcun accenno a quell’ironia a cui ci ha da sempre abituati. Le figure maschili sembrano essere più a fuoco nell’accezione negativa delle loro mancanze, ben blindati nella loro rigidezza, nei loro egoismi e nelle loro paure, rispetto a quelle femminili che, seppur a fatica, saranno tutte capaci di scegliere tra il perdono, l’abbandono ed il cambiamento.

È un film decisamente complesso, di quelli a “lievitazione lenta”, in cui il malcontento che aleggia sin dal primo fotogramma tende a diradarsi man mano che si rompono gli schemi in cui sono intrappolate le coppie protagoniste, generando scelte finali non prevedibili.

data di pubblicazione:28/09/2021


Scopri con un click il nostro voto: