da Antonio Iraci | Mar 15, 2022
Raf e Julie, dopo l’ennesimo litigio, decidono non di comune accordo di separarsi dopo anni di convivenza. Nel rincorrere per strada la compagna, Raf cade e si frattura un gomito. Ricoverata d’urgenza al pronto soccorso dovrà passarci tutta una notte prima di poter essere dimessa, mentre Parigi è invasa da un caos fuori controllo, sia all’interno della struttura ospedaliera sia fuori per le strade della città: i gilet gialli hanno trasformato una protesta contro la politica presidenziale in una vera e propria guerriglia urbana.
Nella vasta cinematografia di Catherine Corsini, punteggiata da film di notevole successo più volte premiati in festival internazionali, non manca mai un riferimento al sociale e alle problematiche di interesse comune, con particolare riferimento all’universo femminile. In Parigi, tutto in una notte (titolo originale La fracture perché in effetti di una frattura, soprattutto sociale, si parla) la regista francese cerca di riassumere, nell’arco temporale di una notte in un pronto soccorso di un ospedale parigino, i malesseri di una città, meglio ancora di una nazione, sull’orlo di una crisi economica e ideologica. Lo spettatore si trova così ad essere coinvolto, quasi in tempo reale, in un coacervo di situazioni che potrebbero sembrare paradossali ma che, ahimè, rispecchiano in toto il reale. Infermieri e medici costretti a turni massacranti per carenza di personale, gente ammassata nei corridoi che si contende una barella d’emergenza, farmaci esauriti… Questa la scena che viene rappresentata, mentre fuori i gilet gialli danno vita ad una vera e propria rivoluzione armata. E sullo sfondo della crisi sentimentale tra due donne, la regista affronta in maniera diretta ma con una buona dose di superficialità, tutta una serie di problemi che affliggono la Francia. Forse un pretesto per mettere in luce quanto c’è di contradditorio e di irrisolto nella società di oggi, dove i bei discorsi e le promesse dei politici non fanno più presa sulla gente costretta a guadagnarsi la vita con i lavori più stressanti. Valeria Bruni Tedeschi, oramai naturalizzata francese, interpreta in maniera perfetta la parte della squinternata Raf, isterica tanto quanto basta ma che in fondo, tra un delirio e l’altro, riesce anche a provare complicità, e non solo compassione, per l’umanità che la circonda. A lei, più che a Marina Foïs nel ruolo di Julie, si deve la discreta riuscita del film anche se talvolta la sua interpretazione eccede assumendo, forse volutamente, atteggiamenti sopra le righe al limite del caricaturale.
Il risultato ottenuto potrebbe lasciare perplessi: una accozzaglia di situazioni male assortite per denunciare tutto e nulla al tempo stesso. Il film, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, è stato premiato ai Cesar ed ha ottenuto due candidature ai Lumiere Awards.
data di pubblicazione:15/03/2022
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da Antonio Jacolina | Mar 15, 2022
Jean-Louis (Laurent Lafitte) avvocato parigino e sua moglie Valérie (Karin Viard) sono una coppia borghese benestante senza figli. Sposati da anni, lottano contro la routine della loro relazione. Un giorno il cuore di Jean-Louis cessa di battere, eppure lui è cosciente, parla, si muove. Né la moglie né il suo miglior amico Michel (Vincent Macaigne) sanno trovare una spiegazione. Solo la Guru/Maestra di Vita cui sua moglie si rivolge trova una soluzione per salvarlo: “risalire alle Origini! là da dove viene!… al sesso di sua madre!”…
Laurent Lafitte, attore ed umorista ben apprezzato in Francia, firma il suo debutto nella regia con questo suo audace film che è stato presentato a Cannes 2020 ma non è poi purtroppo uscito nelle nostre sale, a causa del Covid. Si tratta di una commedia adattata da una piéce teatrale di successo che trae spunto anche dal titolo dal celebre e discusso quadro di Courbet esposto al Museo d’Orsay di Parigi. Una commedia tanto provocante, scabrosa e graffiante quanto anche surrealista, buffa e tenera che si interroga sorridendo e ridendo su argomenti, pudori, tabù e segreti di famiglia.
Un film di sicuro abrasivo, provocante e controverso che affronta certi tabù nell’unico modo con cui possono essere affrontati: facendo ridere, fra lo chic ed il trash, con gags continue che divertono mentre toccano proprio gli angoli più oscuri della psiche umana.
Il regista è bravo a giocare ed a provocare senza mai però cadere nella volgarità, usando una buona dose di humour nero (quasi britannico) in salsa francese. Un film fatto su misura per turbare ridendo gli spettatori. Dopo un avvio forse un po’ troppo laborioso si succedono situazioni spassose, senza mai tempi morti, in un crescendo nell’assurdo e nel burlesco. Tutto il meccanismo del film è ben oliato, la sceneggiatura è ben scritta, buffa, incisiva e provocante senza però mai cadere nella grossolanità. La messa in scena è più che discreta, il ritmo sempre incalzante, i dialoghi sono gustosi ed irriverenti quanto basta, le situazioni assurde,sconcertanti ed esilaranti.
Quel che però fa poi la vera differenza di classe e di qualità è il trio di protagonisti. Un cast di attori brillanti che incarnano alla perfezione i loro ruoli sempre con eleganza e stravaganza. Ottime anche le coprotagoniste: l’anziana madre e Nicole Garcia nel cameo della psico/guru. Deliziose entrambe.
L’Origine du Monde è un film che si potrà apprezzare o che potrà forse anche lasciare sconcertati, ma ciò non di meno resta pur sempre un piccolo film che di sicuro farà ridere ed anche riflettere.
Una gradevole e vivace commedia, sicuramente audace ma non certo scandalosa, proprio come audace ma non certo scandaloso è il quadro di Courbet!
data di pubblicazione:15/03/2022
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da Antonio Iraci | Mar 12, 2022
Mary vive da anni con Ahmed, di origini pakistane, nei pressi di Dover sulla Manica. Per amore, prima di sposarsi, si è convertita all’Islam accettando con convinzione le regole e le tradizioni che la religione comporta. Dopo la morte improvvisa dell’uomo, Mary scopre per caso nel suo portafoglio il documento d’identità di una certa Genevieve che vive a Calais. Chi sarà mai questa donna francese a lei del tutto sconosciuta? Cosa ha a che fare con suo marito?
Nato e cresciuto in Inghilterra, Aleem Khan è uno scrittore e regista di estrazione anglo-pakistana. Con il suo film di esordio After love, si propone di risalire alle proprie origini religiose e culturali parlando dell’incontro-scontro tra due donne che si contendono lo stesso uomo musulmano. Dopo essersi conosciute, circostanza abilmente architettata dalla prima mentre ritenuta fortuita dall’altra, sarà un continuo rimbalzare di scoperte e di prese di coscienza. Il tutto per ricostruire la figura di un uomo che per anni era riuscito a vivere una doppia vita, anche se con una certa dose di onestà interiore. La sua morte improvvisa sarà motivo di sconforto per entrambe e soprattutto per il figlio, avuto con Genevieve che dimostra un grande attaccamento al padre ed una aperta dissonanza con la madre.
Quello che rende il film un piccolo capolavoro è proprio l’equilibro perfetto che si viene a creare nel contrapporre due donne abituate a vivere realtà completamente diverse in mondi tradizionalmente opposti. Mary, dopo la morte del marito, inizia ad esplorare la propria identità costruita sulla base di proprie scelte che aveva fatto per amore: è sicuramente una donna europea in tutto ma che si converte per essere accettata dall’entourage del proprio uomo. Diventando un’altra persona, ora come potrà affrontare da sola un’esistenza che in fondo non le appartiene per natura ma solo per scelta? Nello scoprire il lato oscuro di suo marito dovrà imparare, suo malgrado, ad accettare l’altra donna ed entrare in sintonia con quel figlio che lei stessa non era stata capace di dargli. Altro elemento fondamentale della scena riguarda le famose bianche scogliere di Dover, elemento catalizzante che riesce a unire due sponde contrapposte ma paradossalmente vicine. Mary e Genevieve, come Dover e Calais, appartengono a due realtà apparentemente diverse: entrambe hanno in comune l’elaborazione di un lutto al quale erano del tutto impreparate. Joanna Scanlan interpreta egregiamente il ruolo di Mary, anche con il proprio corpo, non dovendo ricorrere spesso alle parole esprimendosi solo con piccoli gesti e con uno sguardo dolce e triste al tempo stesso. Nathalie Richard è invece Genevieve, donna nervosa e impulsiva che invano cerca di conquistare l’affetto del figlio adolescente Solomon (Talid Ariss), anche lui alla scoperta di una propria identità religiosa, oltre che sessuale.
Già da qualche tempo nelle sale, sarà difficile recuperare After love: in un plot di poche pretese si ritrovano un’eleganza e un rigore cinematografici che oggi solo poche pellicole possiedono
data di pubblicazione:12/03/2022
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da Daniele Poto | Mar 12, 2022
(Teatro Il Parioli – Roma, 4/13 marzo 2022)
Pièce piena di colpi di scena da non rivelare in un continuo accendersi di spoiler e di rivolgimenti di realtà. Dato che il teatro è anche artificio tutto è concesso all’autore!
A 92 anni Glauco Mauri, il più anziano attore italiano sulla scena (ma potrebbe anche essere un record mondiale di longevità attoriale, chi può dirlo?) non ha paura di cimentarsi con la nuova drammaturgia contemporanea, ben in linea con la nuova linea impressa al teatro di Roma Nord da Piero Maccarinelli. Meno De Filippo, meno Pirandello, più spazio all’eterogeneità. Non c’è da tuffarsi sulla trama che è un continuo florilegio di sorprese rispetto alla quieta apparenza del primo tempo. In avvio lo sviluppo sembra lineare. Un cronista non di primo pelo ha avuto l’onore di vedersi concessa un’intervista da un Premio Nobel nell’eremo della propria isola. Conversazione continuamente interrotta tra i dissapori dei due affabulatori. Persino inframmezzata da qualche colpo di pistola. Il dialogo non procede se non tra sussulti, equivoci e incomprensioni. Ma le parole con cui si chiude la prima scansione sono propedeutiche alla forte accensione e ripartenza della seconda. L’affiatato connubio Mauri-Sturno mette in campo tutta la propria sinergia empatico-mimetica e il dramma deflagra. Ci basti dire che sullo sfondo c’è l’ologramma di una donna misteriosa, sospesa tra i due, a vario titolo. Una seducente esplosione di virtualità campeggia accanto al reale e all’esistente vibrante della discussione. Sprazzi di volgarità, di solidarietà, con qualche intemperanza verbale. I due alla fine non saranno mai stati così unito e, contemporaneamente divisi. Chi vedrà lo spettacolo potrà capirci. E il titolo, che corrisponde al plot, è un riff musicale che ogni tanto viene acceso e riprodotto in scena. I giochi a due sono i preferiti di Schmitt anche se questa volta i protagonisti sono uomini e la comparsa sullo sfondo la donna che è il tramite della coppia, peraltro non sospetta di pulsioni omosessuali.
data di pubblicazione:12/03/2022
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da Antonio Iraci | Mar 11, 2022
Luciano, reduce della grande guerra dalla quale è tornato quasi come un eroe e con una gamba irrimediabilmente compromessa, gestisce un ristorante proprio sulla piazza principale di Ascoli Piceno. Ci troviamo in piena ascesa della dittatura quando anche in Italia iniziano i rastrellamenti, da parte delle squadre d’azione, per individuare ebrei e oppositori al regime. Un giorno si presenta Anna a chiedere lavoro come cameriera tuttofare. Una volta entrata a far parte dello staff, la ragazza piano piano svelerà la sua vera identità e quasi fortuitamente sconvolgerà per sempre la vita dell’uomo che l’aveva assunta.
Giuseppe Piccioni, regista e sceneggiatore ascolano non è molto conosciuto al pubblico anche se ha firmato opere di un certo livello come Fuori dal mondo che nel ’99 vinse peraltro il David di Donatello come miglior film. In L’ombra del giorno ha scelto come protagonista Riccardo Scamarcio, ruolo che peraltro l’attore ricopre con grande professionalità e credibilità. Siamo ben lontani dall’immagine di quel ragazzo attraente che aveva subito conquistato chi lo avevano visto per la prima volta ne La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana o, più recentemente, in Mine Vaganti, uno tra i film meglio riusciti di Ozpetek. Ora abbiamo di fronte un uomo maturo, sia pure ancora quarantenne, che imbolsito e claudicante riesce ancora a ipnotizzare e affascinare lo spettatore con il suo sguardo ammiccante e severo al tempo stesso. Ci troviamo in pieno periodo fascista: la voce reboante di Mussolini invade le piazze per annunciare l’ingresso dell’Italia in guerra accanto a Hitler, la gente si guarda sbalordita e non si azzarda a manifestare, sia pur con velati sottintesi, il proprio dissapore. La presenza di Anna (una brava Benedetta Porcaroli) diventa presto il punto focale della scena: docile ma determinata sarà proprio il suo ruolo a polarizzare l’attenzione e a coinvolgere emotivamente lo spettatore via via che si procede nella narrazione. Il film ci riporta, sia pur alla lontana, a Ettore Scola e al suo indiscusso capolavoro Una giornata particolare: stessa ambientazione storica e stesso pathos psicologico di chi deve vivere nell’ombra perché i tempi sono diventati duri e non è più possibile vivere la propria vita alla luce del giorno. Il regista ci offre un film sicuramente di alto spessore, con un cast di primissimo ordine e un’ambientazione tanto perfetta, sulla celebre piazza principale di Ascoli Piceno, da sembrare quasi un set cinematografico ben ricostruito. L’atmosfera che fa da sfondo alla storia è malinconica, quasi a rafforzare le incertezze di chi non crede più, o forse non ha mai veramente creduto, a quello che invece si impone come certezza o indiscussa verità. Il film sarebbe precipitato inevitabilmente nella banalità se non fosse stato supportato da un’ottima sceneggiatura, curata dallo stesso regista insieme a Gualtiero Rosella e Annick Emdin, e dalla recitazione di attori ben conosciuti in ambito teatrale quali Lino Musella, Vincenzo Nemolato e Antonio Salines, cui il film è dedicato perché venuto a mancare poco prima dell’uscita nelle sale. L’ombra del giorno è un lavoro da non sottovalutare che ci parla di un’epoca infelice della nostra storia, ma lo fa con consapevolezza e rigore proprio per non togliere drammaticità a quanto di fatto si stava vivendo in quegli anni, tra molte ombre e falsità.
data di pubblicazione:11/03/0222
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da Daniele Poto | Mar 9, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 4 marzo/3 aprile 2022)
Ambiziosissimo tentativo di riassunto di un romanzo fluviale in trenta tableaux d’epoca. Scenografia senza risparmio con generosa prestazione di un irripetibile cast di 18 attori più una ventina di figuranti.
Un plauso al coraggio per il tentativo di un’opera difficilmente traducibile. Chi si tuffa nell’impresa va lodato, compresi gli spettatori per tre ore di messinscena con un secondo tempo decisamente più adrenalinico rispetto al primo di sostanziale preparazione. Gavetta, preparazione e presa del potere di Mussolini fino all’altezza del conflittuale assassinio di Matteotti che getta un’ombra pesante sulla sua legittimità. Quadri garbati e significativi di un’epoca con risorse a filmati, immagini, acute caratterizzazioni di D’Annunzio, Sarfatti, Balbo, Bombacci. Spettacolo che non può dire tutto ma fa scelte decise e riassunti con una capacità di captatio visiva notevole. Chiarito il contesto, inevitabile che predominino i sovratoni più che i dialoghi, l’assertività più che la dialettica tra i personaggi anche se il botta e risposta con Nenni è notevole. Però se il teatro è sviluppo di contraddizioni Popolizio non manca il bersaglio. Il suo Mussolini è più invasivo diretto, spietato rispetto alla relativa pacatezza del Duce di Ragno, più riflessivo, introiettato, incline alla malinconia. Popolizio restituisce la durezza e la crudeltà di un regime che, impostosi inizialmente per via elettorale, non tarda a confermarsi con violenze mortali e con scorciatoie umilianti, come l’utilizzo schernente dell’olio di ricino. Fuor di retorica la descrizione di un’Italia che fu, a tratti Italietta ma con un consenso inquietante. Quando c’è l’occasione per disarcionare Mussolini il Parlamento eloquentemente tace spalanco gli argini alle scelte al disastro che seguirà. Con le leggi razziali e l’adesione al diktat invasivo di Hitler.
data di pubblicazione:09/03/2022
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Mar 7, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 6 febbraio/8 maggio 2022)
Massimiliano Ghilardi, specialista archeologo classico e direttore dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in questa rassegna di lezioni sulle civiltà del mondo antico, ha il compito di presentare i vari interventi fungendo, in maniera a volte ironica e divertente, anche da moderatore. L’incontro viene introdotto da Claudio Strinati che ha parlato dell’Ara Pacis Augustae, capolavoro della scultura romana costruito per celebrare il ritorno di Augusto dalle sue campagne in Spagna e in Gallia. Il monumento dopo vari restauri era stato protetto da una struttura, su progetto dell’Architetto Morpurgo, inaugurata da Mussolini nel 1938 a conclusione dell’anno augusteo. Nel 2000, in pieno giubileo, l’allora sindaco di Roma Rutelli affidò la progettazione di un vero e proprio museo, che dovesse contenere al suo interno l’Ara Pacis, allo studio di architettura statunitense Richard Meier & Partners Architects. Inaugurato il 21 aprile del 2006, suscitò subito grandi discussioni e critiche perché ritenuto troppo moderno e in contrasto con il contesto storico in cui è inserito. Il prof. Paolo Carafa, dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, ha parlato di Augusto, primo imperatore romano che dopo la sua morte fu subito considerato figlio di Dio. Per le sue riforme e per la cura che egli dedicò all’assetto urbanistico della città volle considerarsi, al pari di Romolo, come il fondatore di una nuova Roma e trasmettere così al mondo intero l’immagine di sé come figura fondamentale, a capo di un impero che avrebbe controllato il bacino del Mediterraneo e buona parte dell’Europa. A seguire l’intervento di Francesca Cenerini, dell’Università degli Studi di Bologna Alma Mater Studiorum, che ha parlato della posizione delle donne nel mondo classico romano e di come avessero guadagnato le loro prime conquiste sociali per il riconoscimento, al pari degli uomini, di poter possedere proprietà private e gestire vere e proprie attività commerciali. Tutto ciò si desume chiaramente da alcune iscrizioni su importanti monumenti dove viene indicato specificatamente che l’opera era stata edificata con il danaro privato di una matrona e quindi senza utilizzo di mezzi finanziari pubblici. Emanuela Prinizivalli, dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, ha invece intrattenuto il pubblico sulla funzione specifica delle donne all’interno del nascente cristianesimo. Secondo quanto si apprende dalle diverse lettere di San Paolo, la loro attività era molto importante per la evangelizzazione dei pagani e spesso ricoprivano anche la funzione di diaconus, al pari degli uomini, per la distribuzione dell’elemosina e per l’organizzazione spirituale generale delle prime forme di ecclesia, comunità seguaci di Gesù di Nazareth. La giornata si conclude con l’intervento di Andreas M. Steiner che ha ricordato la figura di Giacomo Boni, archeologo e architetto italiano nonché senatore del Regno d’Italia, al quale si deve tra l’altro la progettazione di Villa Blanc a Roma, oggi di proprietà della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli (Luiss). Prossimo appuntamento per domenica 20 marzo dove si parlerà del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento e dell’area di Paestum.
data di pubblicazione:07/03/2022
da Daniele Poto | Mar 5, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 1/6 marzo 2022)
Uno Ionesco a torto considerato minore, che marca la differenza con Beckett. Assurdo? Fino a un certo punto. Splendida coppia di attori e scenografia agghiacciante e impattante.
Se ci fosse un Oscar per la migliore stagione teatrale nel secondo anno di pandemia avremo pochi dubbi su a chi attribuirlo per densità di spettacoli, qualità e quantità. Non era in partenza seducente la sfida al botteghino nel nome di Ionesco ma è stata una scommessa vinta a giudicare dai minuti di applausi nella rodata replica a cui abbiamo assistito, con la fantastica coppia di interpreti quasi a celiare con il pubblico in nome di un idillio e di un’empatia stabilita fin dalla prime battute. Eppure al primo apparire sembravano due mostri artefatti i coniugi che si presentavano in un orizzonte spettrale con decine di sedie disposte in precario equilibrio. Poi si stabilisce la sintonia con il pubblico e la scena ci arricchisce, grazie alla loro recitazione ma anche grazie all’evocazione di personaggi inesistenti che fanno, se possibile, vivacemente salotto e amplificano la dialettica del duetto. Il salto nel vuoto finale è spettacolare e sancisce la perfetta rispondenza della recitazione con luci e suoni all’interno di uno spettacolo. Crudele meccanismo teatrale rappresentante la solitudine, la minorità sociale anti-convenzionale e, in definitiva, di marchio anti-borghese. Ionesco squassa i luoghi comuni con la forza di un argomentare semplice e pacato. Non è un caso che Federica Fracassi abbia vinto il premio “Le maschere del teatro italiano” per questa interpretazione in combinato disposto per la scenografia con Nicolas Bovery. I protagonisti potrebbero essere nostri anonimi vicina di casa, fuori dalla storia e da ogni possibilità di contare nonostante la costante allusione a un discorso che potrebbe avere la virtù di cambiare il mondo. Metafisica di un grande disperante vuoto da riempire.
data di pubblicazione:05/03/2022
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Mar 5, 2022
(Teatro Lo Spazio – Roma, 3/6 marzo 2022)
In scena al teatro Lo Spazio un lavoro che punta lo sguardo su un giovane Hitler, sulla sua follia annunciata. Gli occhi che lo osservano sono quelli dell’amico Gustav e quelli della signora Zakreys, la padrona della stanza dove i due sono in affitto. Una fredda analisi del dittatore che cambiò tragicamente il mondo, che ancora oggi lascia muti e sconcertati.
Purtroppo è una storia vera quella raccontata da Antonio Mocciola, al debutto romano con Adolf prima di Hitler, tratta dal romanzo biografico di Gustav Kubizek Il giovane Hitler che conobbi. Il racconto si concentra sul periodo in cui Hitler non era ancora diventato il dittatore che conosciamo, sugli anni della giovinezza e della formazione. Gustav Kubizek (Francesco Barra) è uno spettatore inerme e inconsapevole del delirio di potere che lentamente fa breccia nell’animo dell’amico. Ha le idee chiare sul suo futuro (si affermerà come direttore d’orchestra) ma sarà anche il testimone che racconterà la genesi di un personaggio dai tratti diabolici e inquietanti, ambigui e contraddittori di cui è anche preda e cavia. La sua attenzione è puntata con apprensione su Adolf Hitler, interpretato da Vincenzo Coppola, la cui fisicità definisce in maniera impressionante il racconto.
Adolf appare infatti come un ragazzo dalla corporatura minuta e dalla salute cagionevole, ossessionato dai suoi stessi incubi. A nulla servono i tentativi di Gustav di lenire i tormenti dell’amico. Egli odia prima di tutto sé stesso. Nel gioco di sguardi che il testo più volte fa emergere, i suoi occhi sono puntati sul vuoto contenuto in una cornice sospesa sulla scena. La regia di Diego Sommaripa si sposa perfettamente al testo. Lungi dall’essere un foglio bianco sul quale tracciare opere di bellezza, quello spazio nero incorniciato nel nulla diventa la proiezione di una mente oscurata dall’odio, dalla frustrazione, nel quale si riversano gli ideali di illusoria perfezione che tormentano un uomo già da subito spietato, rude e sadicamente dominante. Vuole piegare la società alla sua perversa visione e per questo è ossessionato dal voler capire. Riprogetta ponti e strade per un ipotetico Reich, frequenta i luoghi di aggregazione delle persone per intercettarne i disagi. Osserva da fuori i palazzi del potere politico con il desiderio di impadronirsene, e quelli religiosi, come la sinagoga e le chiese, con il desiderio di distruggerli.
Tuttavia, è la stessa società in cui vive a nutrirlo. Ne è espressione un altro personaggio, la signora Zakreys (Chiara Cavalieri), l’affittuaria che non vuole ebrei nella sua casa, troppo tardi pentita di non aver saputo aiutare Gustav a fermare la follia di Adolf. La stanza che i due amici hanno affittato nell’appartamento della signora è il contenitore di una bomba destinata a esplodere. L’azione sembra ferma, si limita alla descrizione di ricordi che tornano alla mente, ma allo stesso tempo si avverte la pressione di un’esistenza avvelenata pronta a incendiare tutto con il suo rancore. Il peso della coscienza che tormentata Adolf è perfino visibile nel suo corpo, esplicitamente nudo sulla scena, gravato dalla sua stessa persona.
Il racconto di Antonio Mocciola lascia sgomenti e sconcertati, soprattutto perché certi avvenimenti si sarebbero potuti evitare se solo un gesto coraggioso o una parola avessero potuto impedire lo scatenarsi della pazzia di un simile individuo. E lo sconcerto si amplifica se si guarda quello che sta accadendo in questi giorni ai confini dell’Europa, dove qualcuno sta riportando il mondo ottant’anni indietro, fatalmente vicino al momento della nostra narrazione.
data di pubblicazione:05/03/2022
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da Daniele Poto | Mar 4, 2022
Teatro Anfitrione – Roma, 19 febbraio/13 marzo 2022)
Deliziosa farsa vintage di quella che non si tentano più con tanti attori, tanti costumi con un profumo irresistibile di vaudeville e di passatismo nel teatro giusto per la rappresentazione. E un abbondante pizzico di nostalgia.
Sergio Ammirata a 85 anni non si è stancato di animare la compagnia La Plautina che per quasi un mese intero (fatto più unico che raro) tiene banco nell’abituale parterre casalingo del teatrino di San Saba. Calore e partecipazione meritata per un testo che viene da lontano, addirittura da due secoli fa. E brava la compagnia a approfondire uno spunto da barzelletta per 80 minuti di rappresentazione. La coloritura e gli eccessi sono all’ordine del giorno in questa pochade in cui ovviamente l’ importante è calcare la mano. Si rappresenta una morte scomoda. Tutti i variegati personaggi si sono abituati alla morte dell’amico, ora non più così amico da morto. Così il ritorno in scena è una parentesi scomoda e imbarazzante. Meglio il ritorno a miglior vita, un ritorno al passato che fa comodo a tutti. Ovviamente l’innesco è propedeutico a una riflessione pessimistica sullo stato dei rapporti tra gli esseri umani, improntati a una finta solidarietà che si scioglie per incanto di fronte alla straordinari emergenza. Ammirata non gigioneggia ma trasmette un solido mestiere alla compagnia in cui, incredibile dictu, ricompare Mirella Banti, apprezzata attrice di cinema alla prese con un’inaspettata riconversione. E poi ad animare la serata la coda di canzoni napoletane chiamando sul palcoscenico a viva forza anche spettatori più o meno intonati per una proposta decisione riuscita. La dedica di fine recita è ovviamente nel segno di Patrizia Parisi, animatrice in loco di tanti spettacoli oltre che fedele partner di Ammirata.
data di pubblicazione:04/02/2022
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