CARISSIMO SIMENON, MON CHER FELLINI – ed ADELPHI Piccola Biblioteca 2021

CARISSIMO SIMENON, MON CHER FELLINI – ed ADELPHI Piccola Biblioteca 2021

La Festa del Cinema di Roma proiettando in anteprima pochi giorni fa il breve documentario prodotto da Rai Movie Fellini e Simenon di Giovanna Ventura sull’amicizia dei due grandi del Cinema e della Letteratura, offre agli appassionati dell’uno o dell’altro l’opportunità di andare a rileggersi o ad acquistare il libricino prontamente ristampato da Adelphi e rimesso in libreria proprio per l’occasione.

Si tratta del breve carteggio intercorso fra i due artisti dal 1969 al 1989 anno di morte di Simenon. L’amicizia, o meglio, il legame culturale ed umano fra i due autori era in effetti nato già in occasione del Festival di Cannes 1960 quando Simenon, presidente della giuria, consegnò la palma d’oro a Fellini per la sua Dolce Vita. A prima vista nulla può apparire più antitetico dei due personaggi, perché nulla dei loro metodi e della loro produzione sembra apparentemente mostrare elementi di somiglianza; tanto il regista è onirico, effervescente, barocco e surreale, tanto lo scrittore è invece metodico, minimalista, organizzato ed austero. Come nacque allora il rapporto fra due artisti così diversi?

Leggendo le pagine di questa breve ma interessante raccolta epistolare si potrà comprendere che pur diversi come produzione, i due erano simili come uomini, Simili erano infatti le loro affinità psicologiche e spirituali. Entrambi erano soggetti a ricorrenti momenti di depressione, erano ossessionati dai ricordi d’infanzia, dal mondo circense, dall’immagine femminile e dalle stesse dinamiche creative caratterizzate ora da momenti di alta ispirazione ed ora da blocchi assoluti.

E’ Simenon che con acume particolare coglie il senso vero della filmografia di Fellini, lo compara con se stesso, affermando che entrambi indagano sull’essenza dell’essere umano e sulla capacità di cogliere una speranza nella rappresentazione della fallacità delle azioni e dei progetti umani. Uno opera con le parole, l’altro con le immagini. Ambedue risultano affascinati dai misteri della psiche ed interessati alla psicanalisi di Jung e quindi convinti della forte influenza del subconscio sulla loro produzione artistica e sui loro impulsi.

Il libretto è una vera opportunità, rapida e scorrevole di entrare nel mondo e nel privato di due personalità sensibili e curiose. Un’opportunità per gli appassionati di Simenon per scoprire l’uomo e le sue motivazioni artistiche e, con l’occasione, svelare anche l’uomo Fellini. Scopriremo un Simenon di 17 anni più anziano del regista che assume il ruolo di fratello maggiore pronto a trasmettere incoraggiamenti, esperienza e saggezza.

Non si tratta certamente di un capolavoro della letteratura epistolare, ma, ciò non di meno, il libretto è un documento interessantissimo, testimonianza sincera della reciproca stima professionale ed umana fra due sommi artisti che si articola fra rispetto, pudore di sentimenti, fratellanza umana e complicità. La singolarità è che i due pur impegnandosi a volersi incontrare ad ogni possibile occasione, nella realtà dei fatti in 20 anni si videro ben pochissime volte.

data di pubblicazione:10/11/2021

RAZZA POLTRONA di Fabrizio Roncone – Solferino 2021

RAZZA POLTRONA di Fabrizio Roncone – Solferino 2021

Una fotografia in movimento sull’attuale politica italiana, frugata nei due rami del Parlamento alla ricerca delle personalità più estemporanee, delle uscite fuori del coro, nella variopinta materia prima umana sfornata dalle elezioni. Roncone ha la penna leggera ma pur non soffermandosi sull’analisi, trapela una palese insoddisfazione istituzionale per il livello mediocre dei nostri rappresentanti. Il libro risente dell’attualità perché è una silloge degli articoli pubblicati sul Corriere della Sera, disposti per argomenti e non per cronologia, quindi con imprevedibili salti in avanti e indietro. Per sottrazione si capisce anche quale sia il rassicurante quadro di riferimento dell’autore. Ovviamente non la destra, non il Movimento Cinque Stelle ma il rassicurante Partito Democratico, sempre più partito di centro e della cosiddetta zona ZTL. Libro di folclorismi puri e non di ideologia frequentando ambienti che dovrebbero essere pregiati ma che, all’esplorazione, rivelano tutta la propria pochezza. L’avvento di Draghi forse restituisce dignità e speranza ma la percentuale degli elettori che vanno alle urne è lo specchio della delusione crescente del popolo italiano e una eloquente risposta a quello che gli viene propinato in sede parlamentare. Con la girandola dei continui cambi di partito dove il presunto vincolo di mandato è ormai purissima utopia. Si può dire che predomini il disincanto realista dell’autore. Fatti, fattacci, nefandezze, meschinità, rivalità e duelli: tutto quanto viene espresso per permettere al lettore di farsi un’idea compiuta sull’attuale livello della classe politica italiana. L’ultima illusione è stata quella fornita da Grillo ma una serie di esempi sfornati da Roncone è una doccia fredda su un’utopia che non si è tradotta in fatti concreti. La seconda Repubblica così è una serie di ritratti poco consolatori da sfogliare in cerca di un futuro politicamente più rassicurante. Se mai avremo l’occasione di coglierlo.

data di pubblicazione:09/11/2021

CHI HA UCCISO MIO PADRE regia di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

CHI HA UCCISO MIO PADRE regia di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

(Teatro India – Roma, 2/7 novembre 2021)

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini firmano la regia di Chi ha ucciso mio padre, tratto dall’omonimo testo letterario del giovanissimo scrittore Edouard Louis, andato in scena al Teatro India di Roma dal 2 al 7 novembre. Una lettera al padre in cui il figlio, interpretato Francesco Alberici, si mette di fronte a quell’uomo che per anni gli ha negato ogni confronto, eludendo in tal modo il confronto con sé stesso, un confronto scontro fra un figlio omosessuale e un padre ossessionato dal maschile, terrorizzato dalla consapevolezza di essere un perdente.

Il giovane scrittore torna al cospetto del padre che non vede da quando, quindicenne, aveva abbandonato il piccolo paese nel nord della Francia alla volta di Parigi, per fuggire da un’adolescenza di discriminazione e violenza e da piccola provincia omofoba e xenofoba quanto lo stesso padre. Ora i due sono lì, a qualche metro di distanza uno dall’altro in un grande spazio asettico e vuoto. Nel genitore, abbandonato anche dalla moglie, nel suo corpo di operaio invecchiato e vittima di un grave infortunio in fabbrica, si fanno largo stima e interesse per il figlio. Qualcosa è cambiato, perché? Una inattesa vicinanza che per Louis è e diviene anche un momento di riflessione sull’identità politica di un Paese sempre più a destra.

Il tornare da lui genera inizialmente nel ragazzo una rabbia sorda e profonda che cerca sfogo nei violenti calci dati a sacchi di spazzatura neri. Ma quei sacchi picchiati, calpestati e lacerati racchiudono i ricordi, raccontano il passato, l’infanzia, la spensieratezza e l’incomprensione, il baratro di una felicità non ottenuta. Louis si racconta, secondo un dialogo, per voce sola, tra l’esponente di classe operaia ormai condannata al declino ed il figlio omosessuale desideroso di far accettare la propria identità ad un padre ossessionato dal maschile e dalla consapevolezza di essere a sua volta un emarginato, un dominato, un perdente, proprio come le persone che più odia e a cui più teme di rassomigliare, gli arabi, le donne, gli effeminati. Ma è uno sguardo non più rabbioso, ma conciliante ed anche malinconico verso l’incapacità del padre a capire ed ad accettare, ma di certo non ad odiare. Si materializza così il VHS del film Titanic, regalo di compleanno chiesto da Eddy bambino al padre, che seccamente aveva risposto quanto fosse quello un film per femminucce, che non potevano essere dei regali da maschio e che se le cose stavano così, allora non avrebbe ricevuto alcun regalo. Tanta sofferenza ma anche la sorpresa di trovare poi la mattina del compleanno ai piedi del letto un bel cofanetto bianco, con su scritto “Titanic” in lettere dorate.

Il vero dramma non è pertanto la mancanza d’amore ma il dolore di non poter essere capiti da chi si ama per una sorta di buco culturale che non si colmerà mai. Il padre dello scrittore può soffrire per la sofferenza inferta al figlio e può soffrire perché ha fallito come marito, padre e lavoratore, perché non si è arricchito, non ha svoltato, non ha saputo dare un futuro sicuro alla sua famiglia, ma forse non capirà fino in fondo, con precisione, che il dolore di Edouard da grande, da figlio, da scrittore, sta soprattutto in questo dialogo mancante, nel suo sapere più di lui, che pure le ha subite sulla propria pelle, delle ingiustizie della vita.

Per la prima volta Deflorian/Tagliarini portano in scena un testo non scritto da loro, ma da un autore certamente affine alle tematiche trattate dai due registi ed interpreti, quali la relazione tra realtà e finzione o il rapporto tra individuo e società. Una drammaturgia performativa che guarda sempre di più alla letteratura. Tuttavia, è proprio la fedeltà al testo che permette di cogliere al meglio la qualità della drammaturgia scenica, fatta di sostanziali dettagli, di luci e respiri, di liason perfette ed efficaci tra scrittura ed interpretazione che permettono al bravissimo Francesco Alberici di raccontare il disagio familiare e generazionale in uno spazio sospeso e denso in cui riflettere.

data di pubblicazione:09/11/2021


Il nostro voto:

A NUMBER di Caryl Churchill, progetto e regia di Luca Mazzone, con Giuseppe Pestillo e Massimo Rigo, traduzione di Monica Capuani, produzione Teatro Libero di Palermo

A NUMBER di Caryl Churchill, progetto e regia di Luca Mazzone, con Giuseppe Pestillo e Massimo Rigo, traduzione di Monica Capuani, produzione Teatro Libero di Palermo

(Teatro Belli – Roma, 5/7 novembre 2021)

Il quinto spettacolo presentato sul palcoscenico del Teatro Belli per la ventesima edizione di Trend – nuove frontiere della scena britannica – è A number di Caryl Churchill. Una storia che racconta la relazione di un padre e un figlio, del loro passato e della ricostruzione della loro identità.

 

In questa pièce scritta nel 2002 – periodo in cui si discutevano le implicazioni etiche e culturali della clonazione di esseri viventi – Caryl Churchill porta in palcoscenico il dramma, colto al limite della sua consumazione finale, della relazione di un padre e un figlio. Il ragazzo scopre di avere dei cloni che girano per la città e chiede spiegazioni al padre, che conferma, con risposte balbettate e confuse, di aver fatto replicare in laboratorio il figlio che perse la vita in un incidente stradale insieme alla madre. In realtà il primogenito è ancora vivo e si presenta dal padre reclamando la sua unicità. La verità è che la madre del ragazzo si è suicidata e il padre, preso da sconforto perché persona vulnerabile, non seppe crescere un figlio problematico e psicologicamente fragile. Da qui l’idea di abbandonarlo e sostituirlo con una copia da poter educare da zero senza errori. Per vendicarsi del padre il figlio numero 1, il primogenito, uccide prima il suo clone e quindi sé stesso, gettando il padre nella più totale disperazione. Dall’esperimento però vennero alla luce altri cloni e uno di questi, ormai realizzato con un buon lavoro e una famiglia, incontra il padre. Trovandosi uno di fronte all’altro si scoprono somiglianze incredibili, nei gesti come nel vestire. Tuttavia, le risposte che il figlio da alle domande del padre non soddisfano il desiderio di questo di conoscerlo meglio, più a fondo. Un altro fallimento che fa comprendere come i figli non seguono necessariamente la strada che abbiamo programmato per loro e come la vita, anche quando è replicata, in realtà si dirige verso un corso individuale e irripetibile.

In questa versione di A number il padre, a cui dà corpo e voce Massimo Rigo, non ha nome. Così anche i figli, interpretati tutti da Giuseppe Pestillo, che rimangono solo un’entità numerica – come dunque suggerisce il titolo –, un esperimento di laboratorio. La scelta di Luca Mazzone sembra quella di voler presentare una relazione che conservi i caratteri di archetipo, uno specchio nel quale sia possibile trovare il riflesso di qualcosa che abbiamo vissuto, come genitori o come figli. Concorre a questa lettura anche lo spazio scenico, che risulta essere asettico, anonimo, e quindi capace di poter ospitare qualsiasi probabile scenario. Delimitato solo da un pavimento bianco e da una sedia, è come trovarsi davanti a un ring durante un incontro di pugilato dove seduti all’angolo, sotto la scarica di tanti colpi, si trovano ora il padre e ora i figli. L’uno che rivendica come proprietà la gestione dei figli visti come prodotti e gli altri che cercano una verità che di diritto, una volta cresciuti, gli è dato conoscere. E se l’idea che è alla base del dramma – i risvolti della clonazione nella relazione padre/figlio – e lo spazio in cui questo è raccontato sembrano allontanare la vicenda collocandola in un mondo surreale, è proprio il linguaggio a riportarci lì dove il testo vuole che siamo ovvero alla matrice fondante della nostra esistenza, al rapporto che ci lega indissolubilmente a qualcuno che ci ha preceduto, alla nostra unicità di figli e di esseri viventi e alla nostra sacra e inviolabile individualità.

data di pubblicazione:07/11/2021


Il nostro voto:

GOD’S NEW FROCK di Jo Clifford, diretto e interpretato da Massimo Di Michele, costumi Alessandro Lai, luci Emanuele Lepore, scrittura gestuale Dario La Ferla, traduzione Lorenzo Stefano Borgotallo

GOD’S NEW FROCK di Jo Clifford, diretto e interpretato da Massimo Di Michele, costumi Alessandro Lai, luci Emanuele Lepore, scrittura gestuale Dario La Ferla, traduzione Lorenzo Stefano Borgotallo

(Teatro Belli – Roma, 2/3 novembre 2021)

Farsi posto in una società che considera la diversità un abominio non è una missione semplice. Il monologo di Jo Clifford pone questa domanda spiazzante: se Dio ha creato l’uomo e la donna, ponendoli al centro di un equilibrio cosmico, che posto occupano nella creazione coloro che non si sentono né uno né l’altra?

 

 

La separazione della luce dalle tenebre è uno degli atti che, nel libro della Genesi, Dio operò all’inizio della creazione. Anche la scena pensata per God’s new frockla nuova tonaca di Dio – presenta questa netta dicotomia: un palcoscenico vuoto e buio, abitato da una creatura meravigliosa, William, la cui fisicità intercetta guizzi di luce che interrompono il nero totale tutto intorno. Ma ben più che la divisione fra tenebra e luce è quella tra uomo e donna a essere preponderante nel testo. E la Genesi biblica è lo spunto da cui parte Jo Clifford per riscrivere una storia che appartiene alla nostra educazione. Fin da bambini abbiamo imparato a fare distinzione tra maschio e femmina, dimenticando o peggio non considerando coloro che possono trovarsi nel mezzo, che hanno un pizzico di entrambi. Tanto vale prenderne coscienza senza giudicare o pretendere di non vedere e vivere appieno la propria natura, senza vergogna o paura. È questa la maggiore provocazione che esce dal testo, che Massimo Di Michele intercetta con consapevole ironia, spogliando il suo personaggio in giacca e cravatta e rivestendolo di uno scintillante abito bianco di strass e paillettes. È una trasformazione lenta e dolorosa, che recrimina attenzione e considerazione, ma che non arriva a essere irriverente. La gestualità ostentata dal William “pubblico” è controbilanciata da una tenerezza struggente che appartiene al personaggio nel suo privato. Così anche additando l’affossamento del Ddl Zan come l’ennesimo atto contro un cammino di conversione laico al buonsenso, Massimo Di Michele – attento ad attualizzare il testo anche rendendo omaggio a due artiste simbolo della lotta per i diritti Lgbtq+, Milva e Raffaella Carrà – non è mai sgarbato o fastidiosamente sfacciato, perché non c’è modo più bello di chiedere rispetto che portandolo.

Usciranno dal teatro con un abito nuovo e scintillante coloro che saranno in grado di accogliere la provocazione, consapevoli che la bellezza e la benedizione appartengono a ogni essere creato.

data di pubblicazione:05/11/2021


Il nostro voto:

MADRES PARALELAS di Pedro Almodóvar, 2021

MADRES PARALELAS di Pedro Almodóvar, 2021

Janis e Ana, due donne single ed entrambe incinte, seppur con le dovute differenze, accettano istintivamente la propria gravidanza come un dono e decidono di portarla a termine. Janis è una fotografa di successo e ha già quarant’anni: il suo orologio biologico la induce con decisione a non rinunciare a quella che potrebbe essere la sua ultima occasione di diventare madre; Ana invece è un’adolescente spaventata, con un vissuto da persona poco amata, ma con una inespressa carica di profonda dolcezza che neanche lei sa di possedere che la spinge, tra mille dubbi, verso quella creatura che porta in grembo.

 

 

In Madres paralelas, che ha aperto quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed in cui è stata premiata con la Coppa Volpi Penélope Cruz proprio per il ruolo di Janis, Pedro Almodóvar torna su un terreno a lui caro, mettendo al centro quell’universo femminile con cui è in perfetta sintonia attraverso il tema della maternità. Ritratto intenso e sensibile, il film parla soprattutto di “senso materno”, di solidarietà ed altruismo al femminile, attraverso la descrizione di due donne, a loro modo libere ed alla ricerca della propria verità, portatrici di un dono immenso, ineguagliabile ed unico che prescinde dalla loro età o dalla loro condizione sociale, ma che parla di famiglia e di vita.

I destini di Janis e Ana si incrociano nella stanza di un ospedale dove sono state ricoverate per partorire, e da quell’incontro non nasceranno solo le bambine che portano in grembo, ma anche un sentimento di profonda “sorellanza”. Le poche parole che le due donne si scambieranno qualche ora prima del parto e l’inevitabile intervento del fato “almodóvariano”, creeranno un vincolo talmente forte che troverà uno sbocco inaspettato ed alquanto imprevedibile. Il film sorprende lo spettatore non solo per i noti temi cari al regista, ma soprattutto perché la storia ad un certo punto da privata vira verso un ambito politico netto, dichiarato, che si pone al centro della vicenda, in cui il parallelismo del concetto di maternità in senso lato diventa più importante dei destini privati delle due protagoniste ed in cui la verità che ognuna di loro sta cercando affonda le proprie radici nella storia del loro paese.

Questo risvolto sorprendente rende Madres paralelas un film insolito e profondo, con un cast straordinario ed una scena finale potente che fanno la differenza, in cui la vicenda privata lascia il passo alla ingombrante memoria storica del paese. La pellicola pur mantenendo intatte tutte le caratteristiche della filmografia di Almodóvar, regala agli spettatori una sfumatura inedita e nuova che non fa che accrescere il valore di questo artista tanto amato, che proprio a Venezia molti anni fa iniziò il suo meraviglioso cammino. Da non perdere.

data di pubblicazione:03/11/2021


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PLAYING SANWICHES (IL GIOCO DEL PANINO) di Alan Bennett, interpretazione e regia di Arturo Cirillo, traduzione di Mariagrazia Gini, scena di Dario Gessati, costumi di Stefania Cempini, produzione Marche Teatro

PLAYING SANWICHES (IL GIOCO DEL PANINO) di Alan Bennett, interpretazione e regia di Arturo Cirillo, traduzione di Mariagrazia Gini, scena di Dario Gessati, costumi di Stefania Cempini, produzione Marche Teatro

(Teatro Belli – Roma, 29/31 ottobre 2021)

Terzo appuntamento per la rassegna di spettacoli della nuova drammaturgia inglese diretta da Rodolfo di Giammarco. Sul palco di Trend Arturo Cirillo è Wilfred, un uomo di mezza età inserviente in un parco pubblico, protagonista di “Playing sandwiches – il gioco del panino”, celebre monologo tratto dalla seconda serie dei Talking heads di Alan Bennett.

 

Nell’interpretazione di Arturo Cirillo, Wilfred appare come un uomo trasandato nell’aspetto e consumato dai pensieri. Lavora come addetto alla pulizia per una società di manutenzione di parchi e giardini. È intento a spazzare il terreno di gioco per bambini tra uno scivolo rosa e un muro pieno di scritte. I colori brillanti del luogo dove si trova contrastano di netto con la sua figura. La scena creata da Dario Gessati sembra la pagina di un libro illustrato per l’infanzia dove Wilfred si inserisce come uno scarabocchio fatto a penna, come quella scritta volgare che vandalizza la targa commemorativa del parco. Appare tormentato da una sconcertante solitudine, sia fisica che esistenziale. Non c’è nessun bambino a correre e a giocare intorno a lui nel parco, come del resto non c’è nessuno nella sua vita.

Nello stile di scrittura di Alan Bennett, personaggi in apparenza ordinari nascondono abominevoli verità ed è al pubblico che si rivolgono. Non fa eccezione Wilfred. Sotto la tuta blu da manutentore si cela un uomo responsabile di un terribile reato. Solo una confessione dolorosa potrà chiarire di cosa si tratta. Una prima indagine è condotta dal suo datore di lavoro, Mr Parlane, che tenta di ricostruire il suo stato di servizio, lacunoso in molti passaggi delle informazioni più banali sugli impieghi che ha ricoperto in passato. Mentre una seconda indagine, quella che il personaggio fa su sé stesso, ricerca le ragioni di una colpa che si incaglia nell’impossibilità di fornire una giustificazione. Arturo Cirillo sottolinea con attenzione questo secondo aspetto, oscurando il personaggio in attimi di riflessione e silenzio, dove appare chiaro che qualcosa dal passato torna a incastrarlo nel presente. Wilfred è un pedofilo e il lavoro nel parco gli offrirà l’occasione di ripetere il suo sbaglio ancora una volta ai danni di una bambina che lo aveva preso in simpatia. La verità è svelata e davanti a lui ora c’è solo la galera. Nell’isolamento della cella nella quale è rinchiuso si consumeranno i suoi ultimi pensieri. La solitudine, la lontananza dagli esseri umani, dalla società intera, sembra essere la soluzione ideale per evitare che cada di nuovo nell’errore. Eppure, questa condizione che appare come giusta, è in realtà la più sbagliata.

Una luce acida, verde di vomito e sporcizia, ora bagna l’altalena. Con questa immagine Arturo Cirillo congeda lo spettatore, ricordando che per quanto si possano ascoltare le ragioni di un carnefice a farne le spese comunque è un’infanzia violentata per sempre.

data di pubblicazione:30/10/2021


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MAISON MÈRE di e con Phia Ménard

MAISON MÈRE di e con Phia Ménard

(Teatro India – Roma, 26/31 ottobre 2021)

In un’atmosfera post atomica una figura femminile a metà tra il punk e il metal d’annata, armata di lance di ferro, contempla una struttura piatta e suggestiva di cartone che si rivela essere un cartamodello enorme che rappresenta una casa. La donna gli gira intorno. Lo osserva ed inizia una relazione con la struttura, dapprima eliminando furiosamente il superfluo e poi iniziando la costruzione e l’assemblaggio. Si apre così Maison Mère l’ennesimo interessantissimo lavoro della performer Phia Ménard che ne cura drammaturgia e regia, in scena al Teatro India di Roma dal 26 al 31 ottobre.

Armata di forza e intelligenza oltre che di semplice nastro adesivo, la donna prosegue l’opera di edificazione, con grande caparbietà, perché gli equilibri sono instabili. E’ uno sviluppo sorprendente, perché nell’immediato non si immagina quale possa essere la forma definitiva che la casa andrà a prendere; e pian piano cresce e si stabilizza al suolo trasformandosi in un tempio, proprio il Partenone, grazie ad una sega elettrica che le permette di trasformare le pareti in colonne. Ma una nuvola si addensa sulla scena, diventando sempre più oscura e minacciosa, generando una pioggia dapprima leggera e poi sempre più fitta ed insistente. La casa non ha capacità di resistere a lungo, cede inesorabilmente e si liquefa al pavimento.

Dopo una formazione in giocoleria con Jérôme Thomas, nel 1998 la performer Phia Ménard ha fondato la compagnia Non Nova mettendo sempre al centro dei propri lavori le questioni sociali quali l’identità, il genere, la difesa dei diritti dell’uomo. La Ménard ricostruisce un villaggio Marshall di cartone a dimensioni reali in memoria del nonno materno vittima a Nantes dei bombardamenti degli alleati nel 1943, facendo i conti anche con l’assurdità di quel famoso piano Marshall che gestiva la ricostruzione seguendo modelli di case prefabbricate. Ancora una volta sorprende con il suo linguaggio fatto di virtuosismi e di ripetitività, dal forte impatto e dalla diretta comprensione, trasformando gli elementi di scena in struttura. L’artista effettua una riflessione su distruzione e ricostruzione attraverso l’esperienza, la fisicità, tenendosi a debita distanza da qualunque altro significato. E quel Partenone gabbia, casa, edificio primordiale, che implode sotto il peso letale dell’acqua apre a riflessioni che si accavallano una sull’altra, vera forza di questo lavoro, così come la nuvola carica di pioggia e distruzione che è un monito per le persone che non devono perdere di vista i valori fondamentali di un’umanità che si va sgretolando giorno dopo giorno a favore di cinismo, interessi personali esterni alla polis e culto del denaro.

Crolla il Partenone simbolo di una Unione Europea che si frantuma giorno dopo giorno tra sovranismi e Brexit. Crolla la casa, archetipo di protezione e sicurezza, solidità e riparo, così come tutto crolla sotto il peso del tempo che ogni cosa ricopre, tutto cancella, crollo al quale si può solo assistere in disparte, con dolore e rassegnazione come fa la Ménard. Unica interprete in scena, l’artista costruisce la gigantesca casa di cartone senza esitazione, come una guerriera che affronta la battaglia. Niente sangue, solo sudore, quello della tensione tra un’architettura titanica e la sua costruttrice. Rimane il dubbio di chi sia. Una mortale o una figura mitologica? Una rifugiata dei nostri giorni o l’artefice della ricostruzione?

data di pubblicazione:30/10/2021


Il nostro voto:

STITCHING di Anthony Neilson, regia di Alessandro Federico

STITCHING di Anthony Neilson, regia di Alessandro Federico

(Teatro Belli – Roma, 25/27 ottobre 2021)

L’evoluzione di una coppia smarrita nel dolore dei propri ricordi. Un incidente da ripensare, esorcizzare in un gioco perverso e incomprensibile. Il dramma di Stu e Abby di Anthony Neilson sul palco del Belli per il secondo appuntamento di Trend – Nuove frontiere della scena Britannica – a cura di Rodolfo di Giammarco.

L’idillio iniziale mostrato da Stu e Abby, felici sotto le lenzuola, è interrotto bruscamente da una litigata, che avviene senza un motivo apparente. Dappertutto intorno a loro ci sono bottiglie di alcool e bicchieri di ogni forma. Siamo nella loro casa, siamo nella loro intimità. Momenti di complicità e tenerezza si alternano a bruschi scambi di opinioni e rinfacci. E poi un gioco perverso che li vede recitare la parte del cliente e della puttana, forse per distaccarsi dai propri sentimenti, forse per trovarsi estranei e dirsi che tra loro non c’è mai stato niente, non è stato mai costruito niente. Non capiamo molto, dobbiamo arrivare fino in fondo. È questo lo stitching – la cucitura delle parti – che dobbiamo fare nella nostra mente per recuperare l’immagine totale di questo dramma scioccante e imprevedibile scritto da Anthony Neilson. L’autore racconta questa storia come se tenesse tra le mani un cristallo prezioso e fragilissimo, che scaraventa a terra con la forza violenta del suo linguaggio esplicito e aggressivo. Il filo temporale del racconto si frantuma in mille pezzi, che la coppia Stu/Abby tenta di rimettere insieme attraverso i ricordi. Ma per quanto possano impegnarsi a ricostruire non riusciranno a recuperare un’immagine nitida e chiara di quello che erano prima del dramma. E il dramma sta nell’aver perso Daniel, il figlio che hanno voluto, che hanno cercato, che li ha mandati prima in crisi e poi li ha fatti ritrovare, il figlio che hanno deciso di tenere nonostante le paure.

Come regista, Alessandro Federico cuce uno spettacolo comprensibile nella sua complessità, conferendo alle luci uno straordinario potere narrativo e ritmico. Sul palcoscenico, come attore, funziona in coppia con Valentina Virando. I due attori non smettono di guardarsi negli occhi, di attendersi, di sfidarsi, di riprendersi e darsi il tempo. Uno spettacolo intenso che fonda nella struttura narrativa la sua potenza teatrale.

data di pubblicazione: 25/11/2021


Il nostro voto:

L’ARMINUTA di Giuseppe Boniti, 2021

L’ARMINUTA di Giuseppe Boniti, 2021

“Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere”. È l’estate del 1975: una tredicenne viene lasciata dal padre, senza troppe spiegazioni, presso un casale al centro di una campagna brulla, ed affidata ad una famiglia di contadini che scoprirà essere i suoi genitori biologici. Fortemente indigenti e con una nutrita prole, questi l’avevano ceduta a soli sei mesi di vita ad una coppia di cugini benestanti che non potevano avere figli e che, sino a quel momento, l’avevano cresciuta come fosse la loro bambina, in una bella casa in città, lontana da quella povertà rurale dell’entroterra abruzzese.

 

 

La giovane adolescente, con una valigia in mano, “restituita” dall’uomo che credeva essere suo padre a quella che invece è la sua vera famiglia d’origine, all’improvviso perde tutto il suo mondo, le sue amiche, la bella casa dove era cresciuta e si ritrova circondata dal silenzio e dall’indifferenza. Comincia dunque a patire il mutismo assordante di quella famiglia a lei estranea, diventando trasparente agli occhi degli adulti che l’avevano cresciuta e di quelli che l’avevano ceduta, come se tutti loro avessero perso la “memoria della sua esistenza”. Diviene invisibile. Come una rifugiata in terra straniera, la ragazza dovrà tentare di reinventarsi una nuova vita in un nucleo familiare, respingente e diffidente che, pur non appartenendole, è il suo. Solo la piccola Adriana, bambina sveglia e solare, a suo modo la accoglierà, traghettandola in quella vita che le è stata imposta senza alcuna spiegazione.

Unica pellicola italiana voluta da Monda in concorso ed applauditissima dal pubblico alla prima proiezione ufficiale durante la Festa del Cinema di Roma appena terminata, L’Arminuta di Boniti è un vero gioiello, rude e tenero al tempo stesso, che fa venire immediatamente voglia di leggere, per chi non lo avesse già fatto, l’omonimo potente romanzo di Donatella Di Pietrantonio, anche co-sceneggiatrice della pellicola. Molti sono i temi affrontati, da quello sui minori maltrattati o sradicati da adulti non responsabili, a quello sull’abbandono sovente collegato a maternità non consapevoli o non supportate da figure maschili idonee. Il film fa anche emergere certe terribili usanze praticate in alcune zone depresse del sud, in cui sino a qualche decennio fa venivano attuate “private” forme rudimentali di affido, per garantire ai numerosi figli di famiglie bisognose una vita migliore, soffermandosi soprattutto sugli strappi affettivi che privano le persone della propria identità (l’Arminuta non ha un nome, non ha un compleanno da condividere: è solo colei che viene restituita), e su quanto la conoscenza sia l’unico vero antidoto alla paura e al buio.

Il cast è eccezionale, ad iniziare da Sofia Fiore (l’Arminuta), struggente e dura al tempo stesso, suo malgrado temprata da quell’affetto materno negato, e la piccola Carlotta De Leonardis che impersona Adriana, bambina matura e disincantata ma che nonostante tutto ama ancora giocare e andare sulla giostra; un immenso Fabrizio Ferracane nel ruolo di un padre-padrone che non conosce il perdono e la comprensione, ma solo il silenzio e la forza delle proprie mani per infliggere punizioni, ed infine le due madri, ognuna infelice a modo suo, degnamente interpretate da Vanessa Scalera e Elena Lietti.

L’Arminuta è un piccolo grande film, di quelli che ci insegnano qualcosa, che ci allargano il cuore, che scalfiscono il muro dell’indifferenza e che ci inducono ad essere più aperti e generosi nei confronti dei più deboli.

data di pubblicazione:25/10/2021


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