da Paolo Talone | Mag 13, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 10/15 maggio 2022)
Torna in scena al Vascello lo spettacolo vincitore della Biennale Teatro 2020. Un’ironica, intelligente e originale riflessione sul senso della censura nell’arte e la dimostrazione dell’abilità creativa di un giovane talento della scena italiana contemporanea.
Giudicato dalla critica internazionale miglior spettacolo alla Biennale di Venezia Teatro nel 2020, Glory Wall di Leonardo Manzan è la prova tangibile delle infinite possibilità creative del teatro, della bellezza del gioco e del coraggio di giovani artisti, capaci di misurarsi con esperimenti non convenzionali, abili nell’uso dei molteplici linguaggi della scena.
Tutto parte dalla richiesta di Antonio Latella – allora direttore del Festival – di creare uno spettacolo che avesse per tema la censura. Il titolo che aveva dato alla Biennale 2020, Nascondi(no), ragionava appunto sui criteri e le regole che stabiliscono ciò che deve essere visto e ciò che invece deve rimanere nascosto, in particolare sulla mancata visibilità che hanno gli artisti del nostro teatro, in Italia e all’estero. La richiesta del direttore al giovane regista suonava però paradossale e provocatoria: “fai uno spettacolo sulla censura. Sentiti libero!” Libertà di espressione e censura non sono compagne ed è proprio sull’assurdità di questo assunto che nasce Glory Wall.
Un muro bianco copre per intero tutta la scena, impedendo allo spettatore di vedere oltre, di vedere il palcoscenico. Parafrasando sul glory hole (la pratica che permette a due persone di incontrarsi per compiere atti sessuali, mantenendo l’anonimato grazie a dei fori praticati nella parete), questa barriera mette in relazione in modo insolito pubblico e artisti. La forma della platea disposta a gradoni davanti all’arco scenico del teatro Vascello (il cui Centro di Produzione teatrale La Fabbrica dell’Attore ha prodotto lo spettacolo) non fa che rendere ancora più diretta e coinvolgente l’interazione fra i due soggetti. Da una parte gli attori non visti recitano mostrando solo le braccia, compiendo azioni dai buchi praticati nel muro. Dall’altra il pubblico, invitato da una voce fuori campo a partecipare attivamente all’azione. Si crea così un gioco divertente che riflette sul senso della censura e dell’autocensura nel gesto creativo, su quello che è lecito dire o tacere, su quello che si può mostrare o velare. Si citano pensatori come Pier Paolo Pasolini, il marchese De Sade, Giordano Bruno, ma anche artisti come Magritte, Jacques-Louis David, Michelangelo o i più recenti Cattelan e Bansky, colpiti in vario modo dalla censura. Per poi arrivare a sentire le ragioni stesse del regista, che in fondo afferma l’inutilità stessa della censura lì dove il prodotto – in questo caso il teatro – non interessa e non sconvolge più nessuno ed è per questo condannato a rimanere nascosto come da un grande muro, che non si sposta e non crolla.
data di pubblicazione:13/05/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mag 8, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 28 aprile/15 maggio 2022)
La Tempesta, dramma che segnò l’addio alle scene di William Shakespeare e universalmente riconosciuto quale potente riflessione sulla libertà di scegliere se vendicarsi o perdonare, è il nuovo atteso spettacolo di Alessandro Serra in scena al Teatro Argentina di Roma (foto di Alessandro Serra).
La Tempesta di Shakespeare è uno dei grandi classici del teatro, un viaggio burrascoso nei sentimenti e nel sovrannaturale, nei territori del potere e dell’odio, ma anche nei lidi del perdono e della rinascita. Il dramma, ambientato su di un’isola imprecisata del Mediterraneo, racconta le vicende di Prospero, il vero duca di Milano, che vive in esilio e che trama per riportare sua figlia Miranda al posto che le spetta, utilizzando illusioni e manipolazioni magiche. Mentre suo fratello Antonio e il suo complice, il re di Napoli Alonso, stanno navigando sul mare di ritorno da Cartagine, il mago invoca una tempesta che rovescia gli incolumi passeggeri sull’isola. Attraverso la magia e con l’aiuto del suo servo Ariel, uno spirito dell’aria, Prospero riesce a rivelare la vera natura di Antonio, a riscattare il re e a far innamorare e sposare sua figlia con il principe di Napoli, Ferdinando.
La vicenda complessa e articolata è tutta incentrata sulla figura di Prospero, il quale, con la sua arte, tesse trame con cui costringe gli altri personaggi a muoversi secondo il proprio volere.
Alessandro Serra realizza una perfetta macchina teatrale, che esalta le scelte registiche, la gestione dello spazio scenico, le relazioni attori ambienti. Un quadrato di legno definisce l’essenza di tutta la vicenda e gestisce e coordina tutte le azioni e tutti i personaggi.
Serra poi riesce a creare con i giochi di luce, una serie di spazi fisici e concettuali con l’ausilio anche di enormi pannelli scorrevoli sul fondale che evocano retropensieri paralleli e sovrapposti un po’ come tutte le figure della tragedia shakespeariana che ruotano attorno alla figura ed alle arti magiche di Prospero, affidato alla solida interpretazione di Marco Sgrosso.
Gioca un ruolo decisivo anche la danza, che scandisce i passaggi della trama, attraverso la figura – forse la più forte dell’intero spettacolo – dello spirito Ariel, interpretato da Chiara Michelini. Tutte interessanti le altre interpretazioni dei naufraghi, alle prese con brame di potere e paure e pentimenti, la figura di Calibano e dei suoi compari.
A tratti lo spettacolo sembra quasi non prendere troppo sul serio l’evoluzione degli eventi, esaltando il lato leggero delle cose. La sensazione è che ciò che conta e che lascia il segno in questa Tempesta stia oltre il teatro, oltre il dialogo in una dimensione più grande, quella, per citare ancora Ariel, dello spirito del teatro.
Alla fine resta, naturalmente, anche il messaggio morale dello spettacolo, ovvero la rinuncia di Prospero alla vendetta. Con la vita che va avanti e l’amore di Miranda e Ferdinando che rigenera e promana fiducia al nuovo corso delle cose.
data di pubblicazione:08/05/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mag 5, 2022
(Teatro Sala Umberto – Roma, 4/15 maggio 2022)
Partita a quattro con un progetto didascalico e sorpresa finale che non spoileremo. Spettacolo collaudato con qualche difetto strutturale di fondo.
Tre sorelle come in Cechov. Ma una in carrozzella. Per colpa di un’altra. Ma due del quadrettto di famiglia non sanno, anche se sembrano intuire. Poi compare in scena l’unico uomo, una sorta di potenziale angelo vendicatore buneliano. Con un’oscura missione che potrebbe sembrare un ricatto. In ballo un premio definito immeritato, a scelta della sorella colpevole. Ma l’alternativa del potenziale miracolo sarà restituire la piena mobilità alla parente in carrozzella, ricompensare con la vita i due bambini periti per l’incidente da lei stessa provocato oppure soddisfare la propria malattia patologica con una colossale vincita al Superenalotto? Su questo pratico materiale dilemma, un po’ onirico, un po’ reale, si dipana la trama in una scena spoglia dove la disabilità è incarnata dai movimenti della carrozzella. In un coro di chiara fama (la Ferzetti è la moglie di Favino, la Scalera è stata Imma Tataranni, Bellocchio è discendente di illustre famiglia) la rivelazione è proprio la più giovane e meno conosciuta Marra che incarna la disabile. Convincenti i suoi toni rispetto ai momenti di disagio, rispetto al testo, degli altri interpreti. In effetti la drammaturgia si auto-battezza da sola in un crescendo largamente prevedibile, riscattata dalla imprevedibile fuga finale. Spettacolo su inguaribili sensi di colpa, una tragedia italiana con tanti risvolti. Metafisica la possibilità di riscatto dalla colpa. Dialoghi con ampi momenti di vuoto con la pretesa di rendere significativi silenzio e pause. La conferma che alla nuova drammaturgia italiana, volenterosa, manca sempre qualcosa per un pieno e realizzato approdo al un teatro di serie A.
data di pubblicazione:05/05/2022
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Mag 5, 2022
Si preannuncia una nuova serie di polizieschi ambientati in Francia a firma di Pierre Martin. Dietro questo nome che più “francese” non può essere, si cela in realtà ancora una volta, un autore tedesco che con questo pseudonimo ha già firmato dieci gialli di gran successo in Germania. Tutti ruotano attorno alla figura di Madame le Commissaire, il Commissario Isabelle Bonnet, alla Provenza, alla Costa Azzurra ed alle indagini. Il vero “giallo” sarebbe in realtà poter scoprire se questo nuovo “nom de plume” nasconda sempre lo stesso scrittore tedesco che firmandosi Jean Luc Bannalec ha già inanellato successi e successi con le inchieste del Commissario Dupin in terra di Bretagna e di cui abbiamo già recensiti i primi tre volumi. Le affinità narrative sono veramente tante ed è quindi facile pensare a lui come primo sospettato, potrebbe però anche essere sua moglie che sviluppa il coté femminile di una ricetta vincente. Oppure un’altra scrittrice che si è inserita nel ricco filone? Vedremo. Sia quel che sia, la ricetta “indagini poliziesche, contesti ed atmosfere incantevoli e poi cucina e colore locale”, vale a dire “mistero e turismo” funzionano ancora molto bene, soprattutto se lo sfondo è quello francese, la Provenza in particolare, se le trame sono poi anche costruite con garbo, intelligenza, vivacità ed ironia e se ancor più l’io narrante ed indagante è una donna.
Al centro di questo primo romanzo (dei due appena pubblicati in italiano) è, per l’appunto, Isabelle Bonnet ex capo della squadra antiterrorismo di Parigi che, costretta ad un periodo di riposo per ritemprarsi dopo le ferite riportate nello sventato attentato al Presidente Francese, torna in un delizioso paesino provenzale, nell’entroterra della Costa Azzurra. Invece che riposarsi, si trova, per ordini superiori, coinvolta nelle indagini su un delitto avvenuto proprio nella piccola cittadina. Abituata a ben altro, sembrerebbe una temporanea sinecura per un banale delitto di provincia. La realtà si scopre essere ben diversa e l’inchiesta si fa intrigata e coinvolgente.
Questo primo capitolo ci presenta una protagonista tanto insolita e riluttante quanto altresì interessante e ben caratterizzata nelle sue sfaccettature e psicologie. Un’ancor giovane donna “vissuta”, brillante, volitiva e disinibita. Il libro ha il leggero fascino del poliziesco classico basato sul ragionamento investigativo piuttosto che sull’azione o sull’intreccio. Quasi un’inchiesta vecchia maniera ove l’interesse è tutto sui fatti, sulle deduzioni, sulle indagini e sui luoghi … la Provenza.
Come dicevo il “rimando” ai libri di Bannalec ed al suo commissario Dupin sorge spontaneo, stesso stile da buon vecchio giallo, indagine e lento processo di disvelamento della realtà frutto di logica ed intuizione. Però tanto il commissario Dupin è “maigrettianamente” serio e rigido, tanto è invece dinamica, duttile, intuitiva ed ironica madame le commissaire Bonnet.
Dunque un gradevole poliziesco con personaggi tutti ben caratterizzati e reali nelle loro sfaccettature ed azioni, un buon intrigo ed un’ottima ambientazione. Un piccolo polar ben scritto, un romanzo di puro intrattenimento a tratti anche ironico e dal ritmo pacato che, senza pretese particolari, mantiene le sue promesse: agganciare il lettore fino al finale brillante e non scontato ed offrire qualche ora di svago. Sarà interessante vedere come evolverà Madame le Commissaire.
data di pubblicazione:05/05/2022
da Daniele Poto | Mag 4, 2022
Il sottotitolo completa un’informazione che potrebbe apparire sibillina, La storia, i delitti, i retroscena, l’ultima testimonianza del capo della Banda della Magliana. Da Romanzo Criminale in avanti la figura di Maurizio Abbatino è perentoriamente venuta a galla nell’immaginario iconico, forte della propria violenza e di un carisma che le fiction hanno ulteriormente ribadito. Questo è un libro-intervista ma ricco di approfondimenti e vicoli illegali infiniti. Vedi le connessioni con la mafia e la massoneria, non escluso il circolo della P 2. Per accorgersi della centralità della Banda, dal primo sequestro per auto-finanziamento di Grazioli fino ai legami con i servizi segreti e con i tanti misteri della storia italiana degli ultimi quaranta anni. Abbatino, uscito dai ranghi della protezione, fa la figura oggi di una sorta di irredente pecora nera di sistema la cui testimonianza non è stata convenientemente messa a fuoco. E l’autrice lo interroga sulla strage di Bologna, sulla sparizione di Emanuela Orlandi, sul delitto Pecorelli, sulla tante sentenze aggiustate anche grazie all’opera di prezzolati specialisti. Dalle origini della banda come espressione di un quartiere ai legami con i gruppi di Testaccio e Val Melaina, con una serie di regolamenti di conti senza pietà. Un racconto crudo e spiegato di violenza, di un codice dell’onore perverso che ha attraversato la storia politica italiano e non solo quella, limitata, della cronaca nera. Abbatino racconta i segreti dell’organizzazione, le oscure trame di compiacenze in un romanzo verità che vale anche la possibilità di una grande riscatto etico, di un esercizio di memoria. E alla fine ti chiedi se non siano più pericolose le parabole di killer come Giuseppucci o Diotallevi e non invece il compassato cinismo di un politico come Andreotti, scampato a probabili condanne solo grazie all’esercizio della prescrizione. Quel periodo evidentemente non è ancora alle spalle perché tutti i conti con la giustizia non sono stati fatti o, ancora peggio, sono stati truccati.
data di pubblicazione:04/05/2022
da Giovanni M. Ripoli | Mag 1, 2022
Continua sul grande schermo la saga dei Crawley, questa volta alle prese con un’inaspettata eredità, una villa in Costa Azzurra e l’arrivo di una troupe cinematografica che affitta la dimora di famiglia.
Dopo 52 episodi televisivi e un primo film per il cinema, la vena di Julian Fellowes il fortunato e lungimirante creatore della saga, qui in veste di sceneggiatore, inevitabilmente comincia a perdere qualche colpo. Fellowes, nel tempo (le sei stagioni della serie tv) ha avuto la capacità di costruire
ingranaggi quasi perfetti, ha saputo creare e descrivere personaggi, diversi tra loro (nobili, borghesi, valletti e cameriere) tutti destinati ad emozionare e intrigare pubblici di differenti latitudini. La serie, pluri- premiata che partiva dalla data del naufragio del Titanic (1912) nel film in questione arriva a cogliere il passaggio dal cinema muto a quello del sonoro (il crepuscolo degli anni ‘20). Occorre rilevare che il meccanismo perfettamente oliato per i tempi e le cadenze seriali , perde qualcosa sul grande schermo sia pure in una trama sviluppata in oltre due ore. I personaggi sono meno caratterizzati, seppure ancora una volta splendidamente sorretti dalle ottime interpretazioni dei “soliti” bravissimi attori. I dialoghi, a volte, sono un po’ scontati, se non involontariamente risibili e le idee , vedi il film nel film, non sempre del tutto originali e convincenti. Naturalmente, non è il caso di andare troppo per il sottile, seppure inferiore ai precedenti episodi, la nuova era di Downton Abbey per la regia di Simon Curtis, rimane un’avventura godibile e di facile fruizione. Il pubblico e chi scrive si è troppo affezionato negli anni a Lord Crawley (Hugh Bonneville), alla bella, algida e timorata Lady Mary Talbot (Michelle Dockery) e naturalmente alla spumeggiante e ironica Lady Violet, contessa madre di Grantham (Maggie Smith), per tacere dell’ineffabile maggiordomo capo Mr.Carson (Jim Carter) e dei tanti altri co-protagonisti, per non incuriosirsi ed apprezzare misuratamente le collaudate dinamiche corali messe in atto anche in questa pellicola..
Il precedente film del 2019, diretto da Michael Engler, era costato 13 milioni di euro e ne aveva incassati ben 190 a testimoniare la grande affezione del pubblico ai personaggi della serie tv britannica più famosa e premiata di sempre. E’ assai probabile che lo stesso, o anche in misura maggiore, avverrà per Downton Abbey del 2022, probabile definitiva conclusione della saga. Sulla trama non mi soffermo ma tranquillizzo che sia pure “all’acqua di rose” tutte le problematiche inespresse nelle precedenti puntate troveranno facili e adeguate soluzioni con qualche piccolo colpo di scena che risparmio ai lettori. Inutile dire che le musiche, le scenografie, così come i costumi ,per la gioia delle signore, il cast e l’inevitabile lieto fine, rappresentano comunque la garanzia di uno spettacolo già collaudato e nel complesso gradevole.
data di pubblicazione:01/05/2022
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da Rossano Giuppa | Apr 29, 2022
(Teatro India –Roma, 26/30 aprile 2022)
Biancofango presenta al Teatro India di Roma ABOUT LOLITA, diretto da Francesca Macrì e prodotto dal Metastasio di Prato e da Fattore K. Una drammaturgia originale che riscrive il mito di Lolita e l’immagine della ragazzina in costume da bagno che guarda senza pudore la macchina da presa, ricercando quel che è rimasto nell’immaginario collettivo del personaggio nato dalla penna di Vladimir Nabokov e reso immortale da Stanley Kubrick. In un campo da tennis, fisico e metaforico, va in scena il drammatico scambio di colpi tra sensi di colpa, fallimenti, l’attrazione della giovinezza in età adulta (foto di Piero Tauro).
ABOUT LOLITA è stato presentato in prima assoluta alla Biennale di Venezia 2020 e rappresenta il primo passo di un dittico dedicato al tema di Lolita.
Il romanzo scandalo di Nabokov e la trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick, entrata nella cultura di massa per dare una forma e senso all’ossessione di un uomo maturo per una ragazza pre-adolescente e nel contempo descrivere una persona giovanissima sessualmente precoce che appare comportarsi in maniera seduttiva nei confronti di uomini più grandi, individuano la densa e drammatica eredità da cui parte la rielaborazione di Biancofango. Totalmente ambientata in un campo da tennis, riprende solo alcuni momenti del testo nabokoviano ed alcuni fotogrammi del film cult riattraversandoli entrambi e abbandonandoli per viaggiare dentro il mito di Lolita, per esplorare la triangolazione pericolosa di una ragazzina troppo curiosa e due uomini, per inoltrarsi nei territori proibiti del piacere e del desiderio, in un equilibrio precario l’immaginato e l’agito.
Uno spettacolo che è esasperazione della nostalgia della giovinezza e della sua sconvolgente sessualità, il proibito ed il peccato. Accanto a Lolita impersonata da Gaia Masciale, si ritrovano i personaggi di Humbert e Quilty – rispettivamente Francesco Villano e Andrea Trapani. Giocare a tennis con Lolita diventa giocare con il fuoco, è sudare e fraintendere, desiderare fino a sentirsi male ed in colpa, è provare insieme, dolore e piacere, beatitudine e tortura. Il tutto si consuma sulla terra battuta di un rettangolo di gioco, tra una partita, spasmodici allenamenti alla battuta e chiacchiere tra un cambio di campo e l’altro. C’è il patrigno maturo, paranoicamente geloso, possessivamente legato alla ragazza, che agli occhi degli altri fa passare per sua figlia ed un amico di vecchia data, attore spaesato anch’egli soggiogato dalla ragazzina che rilegge la propria vita e carriera attraverso i protagonisti de Il Gabbiano di Cechov e che poi rinuncia a qualsiasi approccio quando si accorge di non riuscire a tenerne il passo ad una decisa Lolita che prova a giocare con i due uomini, ma che non è in grado di fare i conti con se stessa, tra chewing gum, caramelle e canzoni di Tiziano Ferro.
I dialoghi che si intrecciano tra i protagonisti hanno il sapore di un’affannosa ricerca: dell’amore, del sesso, della consapevolezza, della crescita, della maturità arrivata troppo presto, delle occasioni perdute. Il tutto scandito da frasi e citazioni.
La drammaturgia di Francesca Macrì (che firma anche la regia) e Andrea Trapani non è un adattamento ma un’indagine su cosa sia rimasto di Lolita nel nostro immaginario. Lolita è proprio il frutto proibito, e soprattutto sono i mille stimoli al piacere che tentiamo ripetutamente, in nome di un supposto costrutto sociale, di soffocare e di censurare.
Punti cruciali dello spettacolo rimangono certamente gli scambi di sguardi, ritmi e movimenti esasperazioni del quotidiano, lo sfibrante allenamento-amplesso, la fatica della partita fatta di urla e gemiti, espedienti interessanti per dare suono e immagine al desiderio e alla disperazione. I riferimenti di partenza appaiono però talmente distanti e perfetti da vanificare lo sforzo di riscrittura drammaturgica che appare talvolta un po’ banale e poco coinvolgente.
data di pubblicazione:29/04/2022
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Apr 26, 2022
James (Rupert Friend) politico in carriera, ministro ed amico, fin dai tempi di Oxford, del Primo Ministro Britannico e Sophie (Sienna Miller) sua devota moglie, conducono con i figli, una vita tranquilla e privilegiata. Tutto va però in pezzi quando la breve relazione del marito con la sua assistente viene a conoscenza della Stampa. Ancora peggio poi quando c’è anche una denuncia di stupro da parte della stessa ex amante. Scatta il processo in cui la rappresentante dell’accusa, l’inflessibile Kate (Michelle Dockery) farà di tutto per evidenziare la verità dei fatti …
David E. Kelley creatore di Serie di successo come Big Little Lies e The Undoing unitamente a Melissa J. Gibson (House of Cards) hanno apprezzabilmente adattato per la televisione il buon romanzo omonimo. Come nelle sue precedenti produzioni anche questa volta Kelley ripropone al centro della narrazione il mondo delle classi più abbienti, delle élites sociali e politiche, quel mondo di privilegiati disabituati a sentirsi dire di NO! I loro scheletri si celano nei loro ricchi armadi: bugie, omissioni e manipolazioni sottilmente violente delle Verità e delle altrui Volontà.
La Mini Serie si articola su sei episodi di ca. 40 minuti, tutti ben dosati e può essere quindi divorata quasi in un sol boccone. In un’epoca di Post Me Too il tema di fondo della Violenza e del Consenso trova un’eco particolare e si incentra sia sul punto di vista della moglie ignara e devota che prende progressivamente coscienza delle conseguenze dello scandalo sulla coppia, sia sul contemporaneo impegno della rappresentante dell’accusa di mettere in evidenza durante il dibattito processuale il tema dello stupro e quello delle tante possibili sfumature della Verità a seconda della diversa interpretazione di un SI’ o di un NO. Più il processo procederà più si svelerà l’intima natura del giovane politico e ciò che egli effettivamente è sotto la superficie accattivante del suo passato e delle sue relazioni: un uomo che sa, da sempre, manipolare senza scrupoli la realtà per i suoi fini.
Un Mini Serie di sicuro accattivante ma, che, sia ben chiaro, va letta e valutata non con parametri cinematografici ma piuttosto con la sola ottica delle produzioni televisive che si rivolgono per definizione ad un pubblico generalista, transgenerazionale e di gusti facili. Produzioni quindi che hanno una propria tipicità di narrazione, di ambientazione e di definizione dei ritmi e della messa in scena. Prodotti ove i caratteri seguono canoni convenzionali molto semplici ed in cui le sfumature ed i percorsi psicologici troppo sottili non sono affatto previsti.
Tutto ciò chiarito, si può osare dire che Anatomia di uno Scandalo è un buon mélange fra Thriller e Legal Drama, intimo ed accattivante che mantiene le sue promesse e che punta più che sulla suspense sulla finezza della sceneggiatura, sulla sobrietà dei colpi di scena, su una buona regia e su una realizzazione visiva ricca di virtuosità tecniche. Il ritmo è quello proprio delle Serie e quindi i tempi sono dilatati ma un buon montaggio riesce a mantenerlo pur sempre intrigante e coinvolgente. La trama poi è lineare e ben definita e assume un respiro più ampio quando si entra nell’aula del Tribunale in un balletto rituale di scontri verbali per definire la sottile linea di frontiera di quando scatta il dissenso. I dialoghi pur non proprio cesellati alla perfezione non sono però mai banali e sono ben resi dalla più che discreta qualità degli interpreti. Sienna Miller è sempre bella, impeccabile, intensa ed umana, Michelle Dockery (la Lady Mary di Downton Abbey) di contro si conferma attrice interessante.
In conclusione, pur con qualche difetto sulla definizione delle psicologie, con qualche difficoltà di riuscire a trasmettere le emozioni degli eventi narrati e pur con un uso eccessivo dei flashback, la Serie intrattiene con efficacia e spinge lo spettatore a cliccare su “episodio seguente”. L’orizzonte delle altre offerte pur numeroso è d’altra parte di così scarso appeal che la nostra Mini Serie non può non distinguersi.
data di pubblicazione:26/04/2022
da Paolo Talone | Apr 23, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 19/24 aprile 2022)
La classe di Vincenzo Manna è un contenitore di forti emozioni. Un’analisi ricca e dettagliata sulla condizione delle giovani generazioni e il mondo della scuola. Una scrittura drammaturgica fresca e attenta alle sfide che la società pone.
Ai fini del raggiungimento della promozione, un irruente gruppo di ragazzi viene trattenuto tutti i pomeriggi per quattro settimane in un’aula fredda e disordinata di un istituto tecnico superiore per un corso di recupero di crediti scolastici. I sei studenti della classe sono stati tutti sospesi per motivi disciplinari. Hanno radici diverse per religione e cultura.
Andrea Paolotti è Albert, un professore potenziato – figura professionale nata con la riforma della buona scuola – che svolge una didattica alternativa. Il suo ruolo è quello di riequilibrare una classe problematica di ragazzi segnati dal disagio, dalla delusione, rabbiosi e desolati. Riesce tra non pochi sforzi a guadagnarsi un po’ della loro fiducia fino a impegnarli in un concorso europeo il cui tema è “Giovani e adolescenti vittime dell’Olocausto.”
Gestisce la scuola un superpreside, il personaggio interpretato da Claudio Casadio, rigido e concentrato sugli obiettivi da raggiungere più che sulle esistenze dei ragazzi. Un preside imprenditore, che paragona i suoi studenti a un gruppo di galline chiassose, che hanno le ali ma non sanno volare, e che nella sua visione hanno l’unico merito di saper percorrere grandi distanze in poco tempo ma solo se è la paura a muoverle.
L’assetto scenografico di Alessandro Chiti segue il realismo estremo e cruento adottato dalla scrittura nell’analisi sociale. La classe ha una sola finestra che si affaccia su un campo profughi, chiamato con disprezzo “Zoo”, una sorta di campo di detenzione dal quale parte una rivolta che costringe la scuola a una chiusura anticipata. Un disastro sociale che mette ulteriormente alla prova la crescita dei giovani studenti, costretti a farsi spazio in un mondo difficile che emargina chi è diverso. L’aula diventa così una scatola ricolma di emozioni disordinate e violente, amplificate dalle sonorità rock di Paolo Coletta.
Il testo di Vincenzo Manna sembra sondare l’abisso della più cupa indigenza per vedere se, dopotutto, si possa trovare una ragione di speranza e riscatto. Forse i volatili quando escono dal guscio si somigliano tutti. Possono sembrare galline, ma sicuramente tra di loro c’è chi è destinato a diventare aquila. Come i giovani attori selezionati per questo lavoro (Valentina Carli, Edoardo Frullini, Federico Le Pera, Caterina Marino, Andrea Monno e Giulia Paoletti), talenti di grande energia ed entusiasmo.
data di pubblicazione:23/04/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 21, 2022
(Teatro Sala Umberto –Roma, 20/24 aprile 2022)
Rivisitazione post-cinquantennale di uno spettacolo che diede scandalo e ancora lo dà. Cercando a piè sospinto l’oscenità e il trash. Del resto la pubblicità della locandina non lascia adito a dubbi: censurato, ironico, spudorato.
Chi avrebbe potuto immaginare Marisa Laurito come unico volto femminile nel ruolo che fu di Pupella Maggio per una proposta che fu oggetto di oltraggio al pudore. La provocazione è manifesta e sfuma piacevolmente in toni leggeri quando le battute sono pronunciato da un travestito che dispensa perle di saggezza tra le vampe di una denunciata stupidità. Il resto rivela i suoi limiti quando mette troppa carne al fuoco. Dopo due ore di recitazione gli intellettualismi sul razzismo dell’afro-americano risultano un sovrappiù che è valore un sottratto più che aggiunto alla combinazione alchemica di quattro piuttosto desolanti esistenze. La notte di Capodanno è la cartina di tornasole di un resoconto esistenziale fatto di fragilità, di sesso, di isolamento, con il fondale di una Napoli raggelante. Definite “quattro persone naturali e strafottenti” che intereagiscono anche con una violenza oggi più che mai politicamente scorretta. La simulazione dell’atto sessuale è il prologo a una vera e propria violenza maschile, accusata con una rassegnazione docile che oggi stupirebbe. In platea per la prima una platea omogenea al tema ricca di gaytudine. Si può immaginare retrospettivamente lo sconcerto di mezzo secolo prima quando certe tematiche erano inaffrontabili, ben prima dell’avvento mainstream di Annibale Ruccello e del suo consolidato mito. Consonanza del plot a parte, meritano un vivo applauso gli attori immersi in parti estremamente impegnative. Chi confinava la Laurito in ruoli leggermente comici ora sarà costretto a ricredersi mentre Anzaldo si conferma come uno dei prototipi attoriali più interessanti del nuovo teatro italiano. L’ultima parola pronunciata (“Spettacolo”) è la metafora della finzione a cui si è assistito.
data di pubblicazione:21/04/2022
Il nostro voto:
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