LA VITA DAVANTI A SE’ con Silvio Orlando, riduzione e regia di Silvio Orlando

LA VITA DAVANTI A SE’ con Silvio Orlando, riduzione e regia di Silvio Orlando

(Teatro Argentina – Roma, 27 dicembre 2021/6 gennaio 2022)

In scena al Teatro Argentina di Roma La vita davanti a se’, versione teatrale tratta dal romanzo omonimo di Romain Gary, già sullo schermo con protagonista Sophia Loren, con Silvio Orlando nelle vesti di protagonista, regista e sceneggiatore. Il bravissimo e coraggioso Orlando ci conduce dentro le pagine dello straordinario romanzo , diventando Momò, un bimbo arabo di 10 anni, abbandonato e segnato da un’infanzia triste e difficile (foto di Salvatore Pastore). 

La vita davanti a sé è la storia di Mohammed, soprannominato Momò, ragazzino arabo allevato e cresciuto in un appartamento al sesto piano di una palazzina fatiscente nel quartiere di Belleville a Parigi da Madame Rosa, una vecchia signora ebrea scampata ai campi di concentramento, che per vivere si occupa di crescere i figli delle prostitute che per legge non possono tenerli con sé ricevendo mensilmente un mandato di pagamento per il loro mantenimento.

Momò è intelligente, intraprendente ed assetato di affetto in mezzo ad altri bambini abbandonati come il piccolo Moise, tra il gestore di prostitute Monsieur N’Da Amèdèe, il dottor Katz che cura Madame Rosa e minaccia di portarla in ospedale, Madame Lola ex boxeur senegalese divenuto prostituta richiestissima nelle banlieux parigine.

Un giorno bussa alla porta un omino che è appena uscito dal manicomio criminale dove è stato rinchiuso per molti anni con l’accusa di omicidio: si tratta del padre di Momò  che vuole riaverlo con sé. Madame Rosa si oppone e l’uomo muore per una crisi cardiaca. Ma la salute della donna peggiora e di lì a poco morirà tra le braccia di Momò che la veglierà per giorni interi dopo averla cosparsa di profumo e truccata un’ultima volta.

Il romanzo è stato più volte adattato per il cinema e il teatro. Nel 1977 è stato infatti trasposto nell’omonimo film per la regia di Moshè Mizrahi con una immensa Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, Oscar come miglior film straniero nel 1978. Su Netflix ne è stata proposta un’altra versione sceneggiata da Ugo Chiti e Edoardo Ponti che ne cura anche la regia proprio con Sophia Loren nei panni di Madame Rosa.

La vita davanti a sé ha la potenza dei grandi romanzi che hanno la capacità di prestarsi a diverse interpretazioni e Silvio Orlando riesce a coglierne tutte le sfumature e l’attualità. La convivenza tra diverse culture, il dolore e la precarietà di una vita che non trova equilibri facili e scontati, le controversie dei ceti sociali più poveri, l’emigrazione, la prostituzione, l’istinto di sopravvivenza.

Il racconto diviene un io narrante attraverso lo straordinario lavoro di adattamento e regia condotto, in grado di immergere lo spettatore nel racconto con leggerezza ed ironia, restituendo tutti i sentimenti di un bambino adulto a dispetto dell’età e del dramma che vive, consapevole si delle difficoltà della vita e bisognoso di affetto, ma già grande nei pensieri e nelle azioni.

Una scelta efficace proprio perché il romanzo diventa quasi magico attraverso la carrellata di tutti personaggi interpretati o evocati in scena ed attraverso un uso magistrale della parola e della musica, grazie alla scelta intelligente di avvalersi di grandi musicisti dell’Orchestra Terra Madre che con le loro armonie etniche hanno enfatizzato i momenti salienti della rappresentazione che si è conclusa con un fuoriprogramma che ha visto un ensemble con lo stesso Silvio Orlando al flauto.

data di pubblicazione:05/01/2022


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DON’T LOOK UP di Adam McKay – Netflix, 2021

DON’T LOOK UP di Adam McKay – Netflix, 2021

Sei mesi e 14 giorni è il tempo che resta alla Terra prima della devastante collisione con una cometa casualmente scoperta dagli astronomi Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence. Inizia da parte dei due una corsa contro il tempo per convincere prima la Presidente degli USA (Meryl Streep) e poi l’opinione pubblica ad organizzare una qualche reazione. Sulla ragione scientifica prevalgono però la stupidità, gli intrighi della Politica, la capacità manipolatoria e gli interessi dei Media televisivi e della Grande Industria. Nessuno sembra credere agli allarmi poi, però, prevarranno altre opzioni …

 

Adam McKay, regista e sceneggiatore statunitense, vincitore nel 2015 dell’Oscar per la Migliore Sceneggiatura con il suo La grande scommessa, è un autore originale e poliedrico. Dalle iniziali commedie dalla comicità un po’ grossolana e demenziale è passato con successo ai più recenti film impegnati come, per l’appunto, La grande scommessa e Vice – L’uomo nell’ombra (2019), mantenendo sempre la sua peculiarità stilistica di saper dipingere gli Stati Uniti in modo satirico e caustico, denunciandone vizi e devianze. Con quest’ultimo suo lavoro ritorna con esiti apprezzabili ai suoi primi anni e, giocando abilmente con i codici del genere catastrofico e disaster-movie, ci regala una commedia feroce ed al vetriolo. Una farsa cupamente divertente con la quale stigmatizza gli effetti perversi della stupidità collettiva sul Sistema, l’alienazione delle masse tramite i Social, la superficialità dei politici, la seduzione manipolatoria dei Media e dei falsi Guru dell’Industria.

Lo spunto iniziale, serio e tragico, sotto l’abile scrittura e la dinamica regia di McKay si trasforma ben presto in una coinvolgente e graffiante satira della politica americana e dell’America stessa che appare divisa tra coloro che “guardano su” e coloro che “non guardano su”. Masse credulone e manipolabili di cospirazionisti, negazionisti e populisti, tutti alla fine egualmente strumenti di opposti interessi. Una tragicomica allegoria ove la Cometa, in realtà, potrebbe essere il crescente cambiamento climatico o anche il virus ed il messaggio essere l’incapacità di reagire collettivamente davanti a una crisi comune perché tutti noi siamo accecati dai filtri creati dagli egoismi e dagli interessi degli opposti Poteri.

Al cinefilo non sfuggiranno i richiami ad illustri precedenti come Il Dottor Stranamore, Mars Attacks, Armageddon, 1941, La Guerra dei Mondi e Quinto Potere e tanti altri ancora, meno autorevoli e nobili. La personalità della direzione di McKay, il suo ritmo narrativo, il montaggio serrato, le modalità di recitazione imposte agli attori, supportate da un’ottima sceneggiatura, producono un film del tutto originale, forse non perfetto ma sicuramente buono. Un film ottimamente interpretato dalla coppia di protagonisti e, con loro ed attorno a loro, un cast di altre stelle, il fior fiore di Hollywood, tra cui spiccano, oltre a Meryl Streep, la splendida Cate Blanchett e Timothée Chalamet.

Don’t look up è una satira surreale e folle che, pur tra qualche eccesso e qualche tratto prevedibile, risulta divertente. Un all star movie ambizioso, assurdo, malinconico ma anche comico e intelligente. Un buon prodotto di intrattenimento che ci fa riflettere. Come sempre ci sarà chi lo apprezzerà e chi lo detesterà anche se, ricordatevelo, circolano già pronostici per una serie di sue candidature agli Oscar.

data di pubblicazione:30/12/2021


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IL CAPO PERFETTO di Fernando León De Aranoa, 2021

IL CAPO PERFETTO di Fernando León De Aranoa, 2021

Blanco (Javier Bardem), è il titolare dell’omonima azienda spagnola di bilance industriali. Leader nel settore, la Basculas Blanco è famosa in tutto il paese per l’alta qualità dei suoi prodotti, ma anche per la magnanimità e la professionalità del suo proprietario che, orgoglioso dei risultati di produttività raggiunti, ha dedicato un’intera parete del salone di casa ai riconoscimenti accumulati negli anni in modo che tutti i suoi ospiti possano vederli.

  

L’unica targa mancante è il premio di Eccellenza Imprenditoriale e Blanco, pur di aggiudicarselo, stimola ripetutamente i dipendenti a seguire il suo esempio, professandosi il principale rappresentante di un lavoro duro improntato sui principi di “equilibrio e fedeltà”. L’uomo è disposto a tutto pur di accedere al prestigioso attestato, adattandosi a risolvere qualsiasi tipo di problema dei propri dipendenti affinché rimangano sempre concentrati sui propri ruoli senza distrazioni.

Scelto per rappresentare la Spagna agli Oscar 2022, il film si avvale della presenza costante e centrata di Javier Bardem nella veste insolita di questo capo goffamente onnipresente, quasi tentacolare, ruolo molto lontano dalla precedente filmografia di questo splendido interprete. Abile manipolatore delle vite degli altri, Blanco tenta in ogni modo di controllare e manovrare quelle dei propri dipendenti senza alcuna remora ma solo per il proprio tornaconto; ma inevitabilmente qualcosa andrà per storto e, alla vigilia dell’ispezione da parte della commissione per aggiudicarsi l’ultimo agognato premio, Blanco dovrà far fronte ad una seria di piccoli e grandi disastri se vorrà raggiungere l’obiettivo.

Il film, dotato di qualche guizzo tragi-comico, nonostante sia stato preceduto da lusinghieri giudizi oltre che da un notevole battage pubblicitario sui nostri canali nazionali, non mantiene le promesse risultando nel complesso inappagante. Forse perché Fernando León de Aranoa, regista di Perfect Day e Escobar, con Il capo perfetto si è concentrato (a cominciare dal titolo ed avvalendosi di un autentico mostro sacro come Bardem) nel disegnare prevalentemente un personaggio macchinatore, privo di moralità, che riesce a superare qualsiasi limite etico pur di soddisfare i propri interessi, accecato solamente dalla logica del profitto.

La commedia, a tratti pungente e con qualche spunto di metafora come la bilancia posizionata all’ingresso della fabbrica che non è mai in equilibrio e solo Blanco troverà lo stratagemma giusto per allineare i piatti, è tuttavia “sbilanciata” (tanto per restare in tema) perché costruita esclusivamente intorno al suo protagonista senza una vera e propria storia lasciando nello spettatore, assieme ad una manciata di intermittente noia, il dubbio che forse si poteva fare di più.

data di pubblicazione:23/12/2021


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PLAY HOUSE di Martin Crimp, diretto e interpretato da Francesco Montanari con la collaborazione di Davide Sacco, traduzione Enrico Luttmann, produzione Narni Città Teatro

PLAY HOUSE di Martin Crimp, diretto e interpretato da Francesco Montanari con la collaborazione di Davide Sacco, traduzione Enrico Luttmann, produzione Narni Città Teatro

(Teatro Belli – Roma, 16/19 dicembre 2021)

Ultimo spettacolo per l’edizione numero venti di Trend. La rassegna di spettacoli sulle nuove frontiere della scena britannica a cura di Rodolfo Di Giammarco si chiude con un testo complesso, ma stupendamente rappresentativo di una condizione comune: l’identità di una coppia che si costruisce e si distrugge nella quotidianità.

 

In questa versione di Play house la giovane coppia è interpretata in entrambi i ruoli da Francesco Montanari. I due amanti non hanno neanche un nome. Sono due entità che, così rappresentate, sembrano uscite da un ricordo che il tempo sembra riportare a galla. Vivono in un modesto appartamento. La loro vicina di casa pensa che abbiano una vita bellissima. Lui è saccente, pretende di sapere tutto, mentre lei desidera avere un figlio. Bisticciano, fanno pace, si amano, ma dubitano l’uno dell’altra. Giocano a fare marito e moglie – Play house in inglese – ma in questo gioco non ci sono vincitori né vinti, come canticchia tra sé Montanari sulle note di Arisa.

“Cosa avete capito?”, chiede al pubblico alla fine della sua performance l’attore. Cosa avremmo dovuto capire, viene da rispondere, o quale messaggio avremmo dovuto recepire rispetto al testo Martin Crimp, ma anche alla regia di Francesco Montanari? La prima impressione è quella di essersi trovati davanti allo sfogo delirante di una persona colpita da un forte dolore. L’energia emanata dal palco dall’unico interprete del dialogo in forma di monologo deflagra dalle battute iniziali e non si arresta mai fino alla fine. Come un respiro profondo le luci da fioche diventano intense per poi spegnersi al termine della fatica. Francesco Montanari è l’impalcatura stessa dello spettacolo. È suono, luce, scenografia. Le sue doti vocali e fisiche sono impressionanti. Riempie la scena al punto tale che l’unico elemento di arredo, una sedia posta al centro del palco, risulta ingombrante e superflua. Il percorso che segue Montanari è tracciato dal ricordo. Lo sforzo nel rievocare le emozioni è catartico, terapeutico. La memoria del vissuto della coppia viene segnata con un gessetto bianco sulla nudità del muro che fa da fondale al palcoscenico del teatro Belli. Viene fuori una mind map di appunti e memorie da osservare e riordinare. Ma il labirinto di Crimp è senza uscita, è una matassa aggrovigliata di pensieri ed emozioni in cui il bandolo è fuso con l’altra estremità del filo. È una psicosi dalla quale non si esce se non manifestandola, se non compiendo il solo atto di raccontarla. “Cosa avete capito?” è una domanda che non ha una risposta immediata. Forse il teatro, questo teatro, non è qualcosa da comprendere. Piuttosto è qualcosa da vivere. Un’esperienza che, in quanto teatro appunto, è da fare insieme, attore e spettatore. A colpire può essere un dettaglio, una sensazione, la risonanza con un’immagine che portiamo dentro. Ma non si può uscire dalla sala senza aver provato qualcosa, senza aver fatto i conti con un pensiero che ci abita.

data di pubblicazione:21/12/2021


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DIABOLIK dei Manetti Bros., 2021

DIABOLIK dei Manetti Bros., 2021

La fittizia Clerville degli Anni ’60… Diabolik, il Re del Terrore in calzamaglia nera (Luca Marinelli), incontra per la prima volta Eva Kant (Myriam Leone), ricca ereditiera e proprietaria di un prezioso diamante. Gli eventi avranno però sviluppi inattesi. Si susseguono storie di furti, inseguimenti, evasioni e vendette che l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) cercherà di bloccare…

 

 

Diciamolo subito, il Diabolik dei Manetti Bros. è un film che sicuramente dividerà la Critica “paludata e non” ed anche il pubblico tra coloro (pochi?) che lo apprezzeranno e coloro (tanti?) che ne saranno invece delusi. Un film che sarà giudicato, senza vie di mezzo, un’operazione ben riuscita oppure un assoluto fallimento!

Si tratta in effetti di una trasposizione cinematografica destinata prevalentemente a tutti quelli che hanno amato, amano o almeno conoscono l’universo nato dalla fantasia delle sorelle Giussani nel 1962 e le avventure di Diabolik che ebbero un enorme successo popolare nell’Italia di quel decennio e oltre, segnando la storia del fumetto. Non aspettatevi perciò un film con ritmi, tempi, tensione, recitazione dei film di genere o degli action-movie americani, resterete sconcertati e delusi. Al contrario, vi troverete in una perfetta trasposizione vintage, filologicamente aderente ai personaggi ed al mondo degli albi originali, molto lontani quindi dai gusti del grande pubblico cinematografico attuale.

Un’operazione intelligente ma molto intellettuale, molto da cinefili e da appassionati dei fumetti d’epoca. Proprio per questo il film realizza alla perfezione quella sospensione dell’incredulità che è poi la stessa che si prova leggendo le storie di Diabolik.

I Fratelli Manetti sono evidentemente dei grandi fans delle Giussani e si sono assunti l’arduo e stimolante compito di realizzare (dopo l’unico, mitico tentativo di Mario Bava nel 1968, un insuccesso cult) una trasposizione cinematografica del tutto nuova – ma anche calligraficamente fedele – delle storie, dei personaggi, dell’agire e dialogare del fumetto. Un’operazione realizzata con una precisione minuziosa, quasi chirurgica, in tutti i dettagli, con oggetti, atmosfere, ricostruzioni e ambientazioni di interni e di esterni che assemblano differenti scorci di diverse città italiane.

Il ritmo del film non è sempre sostenuto ed a tratti è anche discontinuo ma tutto ciò è voluto, è una scelta ben precisa degli Autori! I tempi dilatati, la lentezza, i movimenti controllati, i dialoghi quasi didascalici o artificiosi, la recitazione degli attori quasi da fotoromanzo sono tali proprio per restituire intenzionalmente sul grande schermo tutto l’effetto delle tavole disegnate, quasi una bidimensionalità ricercata. Le atmosfere, i colori non-colori, gli ambienti urbani notturni, gli angoli bui ove si nasconde Diabolik sono proprio quelli degli albi, quelli di un immaginario nato sotto l’ispirazione dei polizieschi americani degli anni ’40 e ’50 e dei noir francesi, un mondo in bianco e nero. Un esercizio di stile per ricreare l’originale senza mai cadere in banali cliché.

Gli attori sono tutti nel ruolo e recitano secondo la logica e con movenze, espressioni e rigidità che rimandano ai fumetti. Bravo Marinelli, ottimo Mastandrea, ma su tutti primeggia la splendida ed enigmatica Myriam Leone, con palesi richiami alle bionde glaciali ed ambigue che tanto piacevano ad Hitchcock, di cui sono evidenti le citazioni.

Dunque Diabolik farà sicuramente discutere. Operazione riuscita, se la si vuole leggere come un omaggio a un certo tipo di noir, di storie a fumetti o a quei polizieschi italiani degli anni ‘60/’70. Fallita, invece, se si cerca nel film solo intrattenimento ed azione hollywoodiana.

Per chi ama il Cinema, credo che sia comunque un film che meriti di essere visto. Una volta accettati i suoi presupposti potreste anche apprezzarlo!

data di pubblicazione:19/12/2021


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DIS- ORDER di Neil Labute, regia di Marcello Cotugno, con Benedicta Boccoli e Claudio Botosso

DIS- ORDER di Neil Labute, regia di Marcello Cotugno, con Benedicta Boccoli e Claudio Botosso

(Teatro Lo Spazio – Roma, 16/19 dicembre 2021)

Tosta drammaturgia contemporanea con un Labute che sa di Mamet. Duetti per due tempi con una gravidanza irrisolta di mezzo. Dialoghi ruvidi e realistici per una piéce godibile e di estremo charme attoriale.

Si può fare anche grande teatro con due soli attori, una scenografia scarna ma con la forte stampella di un testo potente da recitare. Bravo il regista Coutugno a sfruttare la logistica del teatro di San Giovanni ricavandone margini di movimento con l’ariosa scala e con il bar a cui si approvvigionano, bevendo finto gin, i due protagonisti. Scontri di coppia nel segno di una sofferta gravidanza. La prima sfuma per un procurato aborto, la seconda per il suicidio della madre in attesa. Fateci caso due vittime a tempo e un solo sopravvissuto: nel primo tempo la donna, nel secondo l’uomo fedifrago. L’avatiano Botosso predomina in avvio, la Boccoli giganteggia in chiusura con un attacco al coniuge che meriterebbe un prolungato applauso se non ci fosse una continuità teatrale da rispettare. Il disordine del titolo è l’elemento caratterizzante sulla scena. Perfetta interazione tra i protagonisti con scene che sanno di vero e l’attualità che irrompe. Nel primo caso l’attentato alle torri gemelle, più crepuscolare il secondo spunto: un tradimento scoperto a mezzo telefonino, oggetto feticcio dei nostri tempi, documentando drammatiche urgenze delle vite odierne. Comunque la distonia è l’elemento principale dello spettacolo, dunque innesco ideale per il conflitto fertile generatore di teatro. Si ride più che sorridere per il palese tentativo dell’uomo nel tentativo puerile di giustificare il proprio tradimento. Storie riviste e riviste ma credibili per l’acutezza del confronto dialettico tra i coniugi. Ed è anche perfetto l’incastro con le musiche di scena, con ogni probabilità scelte dallo stesso autore. Per la cronaca i titoli originali dei due tempi sono rispettivamente Land of death e Helter Skelter.

data di pubblicazione:19/12/2021


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DOLORE SOTTO CHIAVE-SIK SIK L’ARTEFICE MAGICO di Eduardo De Filipo, regia di Carlo Cecchi, con Vincenzo Ferrera, Angelica Ippolito, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta

DOLORE SOTTO CHIAVE-SIK SIK L’ARTEFICE MAGICO di Eduardo De Filipo, regia di Carlo Cecchi, con Vincenzo Ferrera, Angelica Ippolito, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta

(Teatro Argentina – Roma, 10/23 dicembre 2021)

Eduardo forever, immaginando il grande De Filippo con i suoi napoletanismi, le sue pause. Il leggendario Cecchi non è erede ma epigono nella tradizione. Un po’ privo di energia ma ancora profondamente carismatico, perché altrimenti, con diverso interprete, il teatro non sarebbe positivamente semipieno.

 

Due brevi attivi unici per 80 minuti complessivi di spettacolo. Che sembrano un po’ l’aperitivo e il prologo a un piatto più gustoso. Che non arriva. Ossatura da fragili sketch, seppure gustosi e corroboranti. Impresentabili da soli se non altro per la brevità della durata fanno pendant e valore aggiunto per una serata di gala nel nome di uno dei grandi interpreti del teatro italiano, collante e additivo per il botteghino. Forse una proposta che meritava uno scenario più familiare e angusto perdendosi nella maestosità del primo teatro di Roma. Angelica Ippolito, fedele nei secoli al copione, è presenza autorevole e non dimessa della pièce. Cecchi si muove fisicamente con un po’ di disagio dovendo rappresentare un personaggio considerevolmente più giovane ma si muove perfettamente a suo agio nell’incastro perfetto delle interazioni drammaturgiche. Lo zoccolo duro delle due proposte ruota intorno al tema della morte e del trucco. Nel primo si agita la tragedia inconsapevole, nel secondo l’illusionismo maldestro e chapliniano di un tipico personaggio partenopeo. Sik Sik a suo tempo covò un successo clamoroso a Napoli con oltre 450 repliche, con Eduardo sulfureo e malandrino al centro della scena, affiancato dal figlio Luca e dall’immancabile Ippolito. Proposta che s’incastra magnificamente con il tema natalizio come hanno intuito gli assemblatori della stagione. Non si può perdere l’occasione di ammirare Cecchi in un pezzo forte del suo repertorio replicante.

data di pubblicazione:16/12/2021


Il nostro voto:

HOUSE OF GUCCI di Ridley Scott, con Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Jeremy Irons, Salma Hayek, Al Pacino, 2021

HOUSE OF GUCCI di Ridley Scott, con Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Jeremy Irons, Salma Hayek, Al Pacino, 2021

Giallo drammatico, biopic: giallo che manca gli obiettivi, forse per colpa delle vicissitudini produttive. Snaturato l’antico progetto, assemblato con dovizia di mezzi un imponente cast di grandi attori, vistosamente fuori parte, molto dei quali inquadrabili in un cameo. Comprensibile la dissociazione della famiglia. Verità a parte la restituzione estetica dei personaggi appare forzata e quasi caricaturale.

 

Un cast senza confini per un piccolo risultato. Curiosamente l’anteprima offre il prodotto internazionale con i sottotitoli italiani. E la globalizzazione dello scandalo sottrae la specificità italiana di uno scandalo interamente vissuto nell’ex Belpaese senza che compaia un solo attore nazionale. Dunque climax hollywoodiano e firma di Scott non all’altezza della sua fama. Troppe scene scontate ed un‘Italia quasi da barzelletta. Lady Gaga sculetta come nessun altra donna nella realtà di tutti i giorni e gli operai galletti la fischiano con grande spregio del politicamente corretto. Se la verità è solo folclore l’obiettivo è mancato. Per non dire della strana caratterizzazione musicale quasi asincrona e provocatoria rispetto all’andamento delle scene. I personaggi sono tagliati con l’accetta assecondando una sceneggiatura un po’ pedestre. E il giallo è relativo perché le carte sono scoperte sin dall’inizio. L’ingenuo Maurizio Gucci viene abbindolato da un’arrampicatrice sociale e facile sua preda. Si sa per chi tifare sin dai primi minuti. Un prodotto che può avere successo sul mercato mondiale ma difficilmente convincerà i critici italiani per la mancanza di spessore e di verosimiglianza. Roma, Firenze e Milano appaiono come fondali da cartolina e lo stile Gucci mai profondamente evocato. Sarà un caso l’inserimento nel cast di Salma Hayek che è l’attuale moglie del capo di Gucci Francois Henri Pinault? Un particolare che evoca scelte compromissorie, come quella di rinunciare in itinere all’apporto di Robert De Niro e Margot Robbie. Tra i produttori c’è Giannina Scott, moglie d’arte, più nota da noi come Giannina Facio.

data di pubblicazione:15/12/2021


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SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

(Teatro Belli – Roma, 11/15 dicembre 2021)

Racconto natalizio che ha per protagonista un padre in attesa del ritorno della figlia che non vede da tre anni. Una riflessione sullo scontro generazionale e sulla possibilità di superare le incomprensioni. Penultimo spettacolo in cartellone per Trend, la rassegna di drammaturgia contemporanea inglese curata da Rodolfo Di Gianmarco al teatro Belli.

 

Andy è impegnato nell’allestire gli addobbi natalizi per rendere il salone parrocchiale che ha preso in affitto il più accogliente possibile. Con perfezione quasi maniacale si accerta che tutto sia al suo posto. La paura di fare qualcosa di sbagliato lo tormenta. Sta aspettando il ritorno di Maya, la sua unica figlia che manca da tre anni. È andata via dopo un litigio lasciando solo un biglietto di addio. Natale è quando la famiglia si riunisce, ecco perché lo striscione che ha messo bene in vista recita welcome home, ben tornata a casa. Qualcuno ha avvisato Andy che Maya è in città. Perché abbia deciso di andarsene non è riuscito mai a spiegarselo. È ansioso, nervoso, sicuramente c’entra il fatto che la moglie morì di tumore quando Maya era solo un’adolescente. Il monologo di Marco Quaglia occupa tutta la prima parte della storia. Il suo modo di raccontare le difficoltà della vita con sarcasmo, autoironia e volto impassibile stempera il dramma e rende il personaggio simpatico al pubblico. È l’attore perfetto per incarnare lo humor inglese.

Improvvisamente entra Natalie, ospite inattesa in questo momento di affanno e agitazione. Andy spera di mandarla via presto, il tempo di un tè, ma la ragazza è curiosa, insistente e inizia a tempestarlo di domande. Nell’interpretazione di Lucrezia Forni il personaggio appare forte, sicuro di sé, deciso a studiare il carattere di Andy per capirne la personalità. Ma lui non ha voglia di confrontarsi, non ha tempo da dedicare a Natalie, perde la pazienza e va su tutte le furie. Proprio in quell’istante entra Maya, la dolce e fragile Adalgisa Manfrida. Andy prova un terribile imbarazzo. Esattamente questo suo modo di fare aveva allontanato la figlia anni prima. Lei è una ragazza troppo sensibile per poter accettare il confronto con un genitore che la frena, che la scoraggia, che la pungola con battutine e disapprovazione. Anche lui è fin troppo suscettibile ai rimproveri della figlia. Sono entrambi due fiocchi di neve, due Snowflake, parola che nello slang inglese indica una persona che si offende facilmente se contrastata con posizioni e opinioni diverse dalle sue. D’altronde un fiocco di neve non cade mai da solo.

Tornare per affrontare e superare il problema con il padre è un dovere per Maya. Non può più permettersi di scappare di fronte alle difficoltà che la vita le presenta. A rimetterci sono gli affetti che ha accanto, i suoi progetti, i suoi sogni. Questo è il momento giusto per affrontare il mostro che la spaventa.

Snowflake di Bartlett è un testo commovente, che insegna il valore dell’ascolto e l’importanza di saper spendere tempo per le persone che amiamo. Ottima e ben misurata la recitazione degli attori, merito anche della regia di Stefano Patti che ha saputo amalgamare i giovani talenti di Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida con quello ormai maturo di Marco Magli. Anche sul palco è fondamentale saper ascoltare chi ci lavora affianco.

data di pubblicazione:15/12/2021


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LA SIGNORA DELLE ROSE di Pierre Pinaud, 2021

LA SIGNORA DELLE ROSE di Pierre Pinaud, 2021

Eve (Catherine Frot), rinomata coltivatrice e creatrice di rose, per salvare la propria piccola azienda familiare ormai prossima alla bancarotta, schiacciata com’è da competitori più organizzati di lei, tenta di creare una nuova varietà di rosa. Ingaggia tre improbabili coadiutori in contratto di reinserimento sociale, del tutto sprovveduti in campo florovivaistico. Una strana coabitazione di caratteri, ma il Caso creerà delle opportunità del tutto imprevedibili…

 

 

Come talora accade, la magia di alcuni piccoli film francesi è tutta nella loro capacità di arrivare a trasmettere – al di là delle trame più o meno esili – emozioni e sentimenti. Così come la musica riesce a dare sensazioni con la sola armonia dei suoni, certi film riescono a scaldare i cuori degli spettatori con la sola forza delle immagini e della recitazione.

È il caso del film di Pinaud, la sua opera seconda. Un film che sembra venire da lontano, da un’epoca in cui al cinema si potevano vedere non solo film che raccontavano le vicende della Vita, della vita nella sua cruda realtà, ma soprattutto film che consentivano di sognare e donavano la possibilità di pensare che le cose potessero anche andare a finire bene.

Una piccola commedia, però più profonda di quel che può sembrare, sincera, toccante, ironica ed a tratti affascinante pur nella sua semplicità. Per l’appunto, un buon piccolo film del Cinema di una volta. Un film che al di là dei buoni sentimenti riesce a toccare con sensibilità, humour e tenerezza anche temi profondi: il senso dell’accudimento e dell’impegno, il ruolo del Caso nella vita, l’abbandono affettivo e il valore delle relazioni umane. Piccole sottostorie che il regista saggiamente si limita ad accennare per poi lasciarle andar via, quasi come volesse solo conservarne nell’aria la fragranza. La regia e la messa in scena – assistite da buona sceneggiatura e dialoghi ben cesellati – sono sobrie e classiche, però con qualche piccola, geniale e divertente intuizione. Al centro del film è Catherine Frot che primeggia su tutti con un’interpretazione impeccabile, con lei ed intorno a lei un quartetto di attori che caratterizzano perfettamente i loro personaggi.

La Signora delle Rose è un film gradevole e charmant, sicuramente un feel good movie, senza però essere lacrimoso, stucchevole o manicheo. Un piccolo film sensibile, come i petali delle rose, ma al contempo forte come il loro profumo che può anche restarci dentro per un bel po’.

data di pubblicazione:12/12/2021


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