da Daniele Poto | Feb 2, 2022
(Teatro India – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Monologo di una scrittrice dai pensieri devianti, quasi una confessione a cuore aperto con perfetta immedesimazione tra regia, drammaturgia e voce recitante.
La sinergia teatrale tra le due Lucie (Calamaro e Mascino) fa pensare che il monologo sia stato scritto a misura della brava interprete che per un’ora nella prima davanti a una platea giovane e sinceramente entusiasta doma gli astratti fuori di una scrittrice in crisi, orfana di un successo che le arrise e che ora vede sfumare gli incipit in vicende di scarso respiro. La monologante si esprime con ruolo maschile e con l’affabulazione attoriale che le è propria interrogando a volte retoricamente il pubblico. Evocando i fantasmi dei parenti oppure scrittori masticati con difficoltà come Derrida o Deleuze. Una patina di snobismo che la fa partire ma arrivare mai. Lacerti di frasi impressioniste, brandelli di storie ma la narrazione completa le sfugge dal basso di una crisi che la tocca nella sua sfera intima, magicamente rivelata al pubblico. La drammaturgia della Calamaro è ficcante anche se a volte il testo e il senso perde di tensione e coesione (comprensibilmente non facile da mantenere dopo lo scoppiettante inizio). L’abbattimento simbolico e quasi finale della biblioteca è la metafora di un’insuperabile impotenza creativa. E il finale è come sospeso su due parole che rimandano al flusso incomprensibile dell’esistenza, del suo senso e della sua conclusione. “Ma perché? La Mascino è insieme divertente e commovente in questa recitazione rotta, vagamente dissociata e schizoide rappresentandoci onde del disagio contemporaneo. Particolarmente rilevante in una professione creativa non incasellabile in schemi rigidi. Chissà quanti scrittori mainstream possono riconoscersi in questo corrosivo quadretto. La scenografia essenziale va in tinta (bianca omogenea all’abbigliamento della magrissima protagonista. Spettacolo di vuoto più che di pieni, di un’angoscia, se si può dire, allegramente rappresentabile.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 1, 2022
Un nitido cronologico omaggio al Maestro delle musiche da film attraversando gloriosamente cinquanta anni di cinema, dal trash alle pellicole d’arte con una cifra stilistica inconfondibile.
Raramente si esce appagati da una sala come dopo questi 150 minuti di emozionante viaggio dentro il mondo di una persona che non riesce difficile definire artista. Film documentario (e non sembri una contraddizione) che è una sorta di intarsio di scatole concentriche. Dentro c’è la storia di mezzo secolo di cinema ma anche altrettanti anni di sviluppo musicale di un’arte artigianale. E, quello che più, conta l’evoluzione di un mito italiano. E che sorpresa trovare l’eco di Morricone (un cognome che gli americani proprio non riescono a pronunciare correttamente) nei concerti dei Clash, nei Metallica, nell’entusiastica considerazione di un Bruce Springsteen. Gruppi e cantanti apparentemente su galassie diverse. Morricone appare in tutte le sue sfaccettature. Nella sua contrastata gavetta, proveniente da famiglia umile, con padre trombettista, alle prime collaborazioni in compartecipazione. Collaborazioni tutt’altro che schifiltose anche con il cinema di serie B, prima di fare il salto di qualità con Sergio Leone. Con il rimpianto, per il divieto di quest’ultimo, di non aver potuto lavorare fianco a fianco di Kubrick per Arancia Meccanica (vincoli contrattuali). È costata sette anni di lavoro in giro per il mondo questa creazione che trasmette energia. Ma c’è anche lo sfaccettato Morricone di Nuova Consonanza, con le scorribande nella musica sperimentale, il Morricone direttore d’orchestra, l’umile ma indipendente discepolo di Petrassi. Sempre alle prese con un cronico e mai vinto complesso d’inferiorità per non aver abbracciato in toto la carriera di compositore, inventando una strada con un metodo personale e, per certi versi, irripetibile. Tornatore ha avuto l’umiltà di dedicarsi a un mito italiano, ricco di nomination, con la conquista assoluta dell’Oscar raggiunta con Tarantino, un tardivo omaggio a quanto aveva seminato con un ricco curriculum.
data di pubblicazione: 01/02/2022
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da Antonio Iraci | Gen 31, 2022
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 25/30 gennaio 2022)
Le sorelle Rosaria e Addolorata, titolari di una modesta merceria in un quartiere popolare di Napoli, amano autodefinirsi “signorine”. Sono infatti due attempate zitelle non certo per libera scelta, quanto piuttosto per un crudele capriccio del destino che le ha rese entrambe claudicanti. Una convivenza non facile la loro ai limiti della sopportazione reciproca, ma che tuttavia con il passare degli anni sembra invece rinsaldare una simbiosi perfetta, destinata a mantenersi intatta anche dopo la morte.
Pierpaolo Sepe è un regista teatrale napoletano noto agli appassionati di teatro per aver firmato oltre sessanta regie. Proprio in questi giorni ha messo in scena un lavoro ideato da Gianni Clementi dal titolo quanto mai allusivo “Le signorine” con la partecipazione di due attrici di grande spessore recitativo quali Isa Danieli e Giuliana De Sio. Nel mondo di oggi, dove lo spettatore è sottoposto sempre più a stimoli visivi e acustici e dove oramai si è visto tutto ciò che c’era da vedere e sentito tutto quello che c’era da sentire, è sicuramente stimolante ritornare a forme di spettacolo semplici, senza più imporre ogni forma di esagerato stupore. La commedia di Clementi ci offre, mutatis mutandis, un teatro alla De Filippo dove va in scena il quotidiano e dove tra il serio e il faceto ci viene da pensare alla realtà in cui siamo obbligati a barcamenarci. Così come per le due sorelle, destinate ad una forzata convivenza pur essendo diverse per temperamento: la più grande legata al senso del dovere e al disperato bisogno del risparmio, in vista di un futuro quanto mai incerto, mentre l’altra ogni tanto attratta dalle piccole trasgressioni e, nell’illusione delle telenovelas, fiduciosa che prima o poi anche a lei capiterà di catturare l’attenzione di un uomo. Un rimbeccarsi continuo per poi chiedersi quale è e quale sarebbe stato il senso della loro vita se non fossero state colpite dalla malattia che le ha rese zoppe sin da bambine. Qui entra in gioco la napolineità di questa commedia, leggera e profonda nello stesso tempo perché, tra l’incalzare delle battute, ci fa riflettere sul senso di ciò che viviamo e sul senso di quella globalizzazione che ci ha reso paradossalmente schiavi di una tanto sbandierata uguaglianza sociale. Molto brave le due attrici in scena che, pur muovendosi in uno spazio claustrofobico, sono riuscite a dare un’immagine interna ed esterna di una realtà effettivamente vissuta. Folto il pubblico in sala, divertito da una forma teatrale all’antica e partecipe di quella atmosfera rilassata che era propria dell’avanspettacolo di un tempo.
data di pubblicazione:31/01/2022
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da Antonio Jacolina | Gen 29, 2022
Taciturno, solitario, Bill Tell (Oscar Isaac) è un reduce dall’Iraq, da poco uscito da un penitenziario militare. Fugge da un passato che lo tormenta, è un’anima persa che cerca di espiare le colpe e redimersi. Passa da un Casinò all’altro accontentandosi di vincere poco, mettendo a frutto il talento di “contatore di carte” che ha perfezionato nei 10 anni di carcere. Incontra casualmente Cirk (Tye Sheridan), un giovane sofferente e sbandato, e lo prende sotto le sue ali protettive. Ma il Destino ha già segnato le carte…
Schrader appartiene alla Storia del Cinema Americano. E’ uno sceneggiatore leggendario (suoi gli script dei primi capolavori di Scorsese: Taxi Driver, Toro Scatenato e L’ultima tentazione di Cristo) ed è anche regista discontinuo. Oggi, a 75 anni, ci regala un bel film – di sicuro uno dei suoi migliori dai tempi di American Gigolò – che, presentato a Venezia, è uscito in sala e sulle piattaforme televisive.
Non stiamo parlando di un film qualsiasi! Il Collezionista di Carte è una pellicola quasi vintage, quasi fuori del tempo e, nella forma, nei colori e nella sostanza, quasi anni ’70. Un prodotto che, ad immagine del suo impenetrabile protagonista, rifiuta ogni spettacolarità e si muove in atmosfere e ambiti molto introspettivi. Al centro, senza glamour, luce e lustrini, ci sono i casinò, il grigiore del gioco, la monotonia dell’attesa che si scoprano le carte. “Tutto è nell’attesa, finché non avviene qualcosa”, dice la voix off di Bill Tell. L’attesa del momento della Verità! Così nel Gioco, così nella Vita.
Tutto l’universo di Schrader, il suo cinema, le sue storie, sono in quelle parole: attesa, tensione, acme finale, colpa, espiazione, redenzione. Il regista continua a confrontarsi con gli stessi temi da sempre, senza però essere mai ripetitivo perché ogni volta esamina nuove e diverse sfaccettature del problema.
Tante, ovviamente, le somiglianze con Taxi Driver, tante le somiglianze tra De Niro ed Isaac. L’attore incarna il suo enigmatico personaggio con un talento magnetico, con una forza contenuta e repressa, ammirevole e geniale. La sua prestazione meriterebbe senz’altro una nomination ai prossimi Oscar. Intorno a lui un cast di ottimi co-protagonisti: il giovane e bravo Tye Sheridan, Tiffany Haddish e – in un cameo – l’amico di sempre, Willem Dafoe.
Quel che, però, rende particolare il film è una regia elegante e contenuta che mantiene sapientemente un ritmo lento in attesa della catarsi, giocando su due registri: quello iniziale del “film di giocatori e di casinò” e quello centrale, in cui gli spettatori vengono portati nel mondo di un uomo traumatizzato e di un cuore nelle tenebre. Il tutto supportato da una sceneggiatura definita al millimetro, da una messinscena sobria, quasi claustrofobica, rafforzata da una fotografia che gioca con le oscurità e da una colonna sonora originale, di grande bellezza ed efficacia.
Schrader è però bravo a salvarsi dal rischio della mera vacuità estetica e riesce a dare alla narrazione una dimensione tanto umana quanto politica. In filigrana, infatti, dietro al dramma del protagonista, c’è anche un’America con tutte le sue ipocrisie, le sue colpe e le sue macerie morali e sociali.
data di pubblicazione:29/01/2022
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da Maria Letizia Panerai | Gen 26, 2022
Tommaso (detto Tom) e Zoe stanno insieme da dieci anni: lui scrive romanzi con alterne fortune, lei è una Dirigente nel campo dei videogiochi ed è una donna decisa nel lavoro ma che non rinuncia alla sua femminilità; la loro storia è ad un bivio ma ad accorgersene è solo Zoe che comincia a non sopportare più tutte quelle cose di Tommaso che, molti anni prima, la avevano fatta innamorare. Ma la paura di lascarsi è più forte della voglia di stare insieme: un giorno decide di scrivere alla posta del cuore di una rivista femminile, e confessa il proprio disagio chiedendo consigli su come lasciare il suo compagno. Le risposte, da qualcuno che si firma con lo pseudonimo di Marquez, non tarderanno ad arrivare…
E bravo Edoardo Leo! Il suo film Lasciarsi un giorno a Roma (come recita anche la canzone di Niccolò Fabi sui titoli di coda), seppur sia approdato al cinema in maniera anomala dopo aver debuttato il 1° gennaio su Sky e in streaming su Now, sta riscuotendo anche nelle sale un discreto successo. L’attore, alla sua quarta esperienza da regista, per omaggiare gli spettatori che decidono ugualmente di andare al cinema al tempo del Covid, ha deciso furbescamente di raggiungerli in alcune sale della capitale alla fine della proiezione (cosa si deve fare per campare!), per farsi “intervistare” su curiosità ed aneddoti riguardanti la pellicola.
Lasciarsi un giorno a Roma, già dal titolo, parla di un amore che finisce ma l’ironia e la romanità di Leo, che ne è anche interprete assieme a Marta Nieto e ad una coppia d’assi come Claudia Gerini e Stefano Fresi, rende la pellicola leggera, spassosa, quasi come certe commedie francesi che noi italiani non sappiamo proprio fare. Nel film non c’è happy and ma neanche dramma, c’è solo la consapevolezza, neanche troppo amara, che a volte per una coppia nel momento della crisi può essere più “sano” prendere strade diverse che ri-provarci. E poi c’è Roma in tutta la sua “grande bellezza”, che diventa la splendida cornice a tutta la vicenda “…come se fosse un grande teatro romantico… Dopo il lockdown Roma era deserta, e io ho visto un’altra città, pulita, meravigliosa… come una città super romantica, simile quindi a Venezia, Parigi, New York”.
Il film di Leo ha il pregio innegabile di essere vero, o quanto meno credibile, così come lo sono i personaggi, i dialoghi e le loro storie, e questo lo rende gradevole, divertente e lieve, con una sceneggiatura particolarmente attenta alle figure femminili, tutte ben tratteggiate nel loro mix perfetto di forza e fragilità al fianco di uomini che purtroppo a volte, dovendo rinunciare alla loro comfort zone, hanno come primo istinto quello di scappare più che di fermarsi a riflettere.
Potremmo dire che “ridendo e scherzando” il regista, sulle note di una fantastica versione piano e voce di Sempre e per sempre di Francesco De Gregori, ci suggerisce un modo sicuramente contemporaneo di vivere il rapporto di coppia, nel rispetto delle diversità di ognuno ma anche adeguandosi ai mutamenti individuali ed ambientali che la vita ci prospetta. Un film ingenuo e coraggioso al tempo stesso che intrattiene con un po’ di novità.
data di pubblicazione:26/01/2022
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da Daniele Poto | Gen 26, 2022
(Teatro Sala Umberto – Roma, 25/30 gennaio 2022)
Un classico del teatro della regina del giallo. Con un finale noi da non spoilerare. Regia classica con la massima fedeltà nel testo..
Curiosità per il debutto dell’esperto Rigillo (qui con famiglia) nel teatro di genere per un classico evergreen su cui non si deposita la tentazione dell’attualizzazione. Personaggi tagliati con l’accetta per un plot a eliminazione progressiva. Spettacolo che non teme la durata (finisce poco prima di mezzanotte) e con rarefazione crescente mano a mano che si sfoltisce la congerie degli invitati a un misterioso raduno su un’isola non prima di insidie. Dove si uccide nei modi più disparati: di coltello, di pistola, con misteriosi quanto inspiegabili avvelenamenti. Ognuno dei presenti ha uno scheletro nell’armadio e anche piuttosto pesante: un omicidio. Per tenere insieme la narrazione occorre indulgere nei trucchi di mestiere della Christie dove non tutto è spiegabile e suadente ma se si presta fede al suo incedere la suspense cresce e conduce nei pressi della soluzione. Non c’è dubbio che per la fruizione sia indispensabile l’adesione al mood un po’ datato dell’autrice, ben sposato con le scelte registiche. Ricorderete che oggi il titolo può incappare nel politicamente corretto. Nell’originale i niggers (negri) è stato sostituito dagli indiani ma non c’è dubbio che lo stigma può riguardare oggi anche i nativi d’America. Rigillo ben si incastona nel cast sena sottolineature e sovra-toni. La proposta era già transitata al teatro Ciak e non c’è dubbio che nei tempi attuali di crisi possa trovare adesioni in tutta Italia visto che si racconta una storia immortale a tenuta illimitata.
data di pubblicazione:26/01/2022
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da Antonio Jacolina | Gen 24, 2022
Cina, sul finire degli anni della Rivoluzione Culturale. Un paesaggio desertico e solitario, un villaggio sperduto nella desolazione. Un evaso da un campo di rieducazione (Zhang Yi) ed una intraprendente ragazzina (Liu Hao-Cun) si disputano una bobina di un film di propaganda, ognuno con scopi diversi, entrambi però per amore. Lo spunto per una storia epica e corale sul fascino del Cinema e sul suo potere come fabbrica di sogni o di illusioni individuali e collettive …
Presentata e vista alla recente Festa del Cinema di Roma dove era stata accolta con discordi giudizi dalla Critica Ufficiale, è (ed ancora resiste ammirevolmente, segno questo di una più che positiva accoglienza da parte del pubblico) sui nostri schermi cinematografici l’ultima opera del tanto celebrato regista cinese. La pellicola era già stata programmata per la Berlinale 2019, ritirata però all’ultimo minuto è stata poi rielaborata, rimontata con l’aggiunta di nuove scene ed infine è finalmente uscita in Cina solo alla fine del 2020.
Il regista di Sorgo Rosso (1987), Lanterne Rosse (1991), La Foresta dei Pugnali Volanti (2004) torna nuovamente al cinema d’autore e di qualità dopo le recenti e non certo memorabili escursioni nel mondo dei Blockbusters con divi americani. Il cineasta dimostra di avere ancora talento da spendere e storie da raccontare e ci regala una vicenda che porta tutti quei tratti distintivi che sono poi il suo marchio di fabbrica: un mix di tenerezza all’interno di una visuale epica ed immersiva che lascia però anche spazi alle emozioni intime. Pochi come lui sono maestri nell’arte del narrare e del rappresentare visivamente una storia. Il risultato è quindi un film tutto da ammirare, una gioia per gli occhi con immagini e riprese che catturano lo spettatore ed una storia accattivante. Un vero ritorno alle origini usando il realismo cinematografico per una vicenda edificante.
Un film politico, perché mostra la propaganda dell’epoca della Rivoluzione Culturale che agisce sulle masse rurali tramite il Cinema ed il fervente impegno di un proiezionista nei più sperduti villaggi. Al contempo anche un’intensa ed a tratti commovente e poetica lettera d’amore per il Cinema ed un magnifico, tenero racconto sull’incontro/scontro di una giovane orfana ed un padre evaso per poter vedere proiettati i pochi fotogrammi di un cinegiornale in cui appare l’immagine di sua figlia che non vede da anni. Il tutto sullo sfondo di un paesaggio desertico tanto desolato quanto anche suggestivo ed affascinante. Zhang Yimou ritrova veramente il talento narrativo che lo aveva fatto apprezzare fin dai tempi dei suoi primi capolavori. Le scene nel deserto sono tutte magnifiche, come pure quelle corali delle decine di abitanti del villaggio impegnati a ripulire la pellicola che doveva essere proiettata in una specie di Cinema Paradiso ai bordi del Deserto del Gobi, fra desolazione, povertà dignitosa ed entusiasmi per la Magia dello schermo che s’illumina di immagini in movimento.
Se la prima parte del film è centrata sul susseguirsi di vicende, talora comiche, relative ad un rullo di pellicola rubato ed al suo continuo passare di mano, nella seconda parte, il tono generale del lavoro sale assolutamente di qualità e di intensità emotiva con un afflato poetico, epico e tenero e con scene corali, sequenze, movimenti ed inquadrature di puro ed assoluto talento. Magia cinematografica rappresentata ed al contempo anche realizzata!
Il regista opera e guarda con la mano e con l’occhio dei suoi tempi migliori.
Una grande fascinazione che veramente cattura lo spettatore che ama il Cinema, lo ammalia, lo affascina attenuando così di molto quella sottile e maligna sensazione di artificiosità programmatica che un finale “un po’ artificiale e sottilmente politico” ingenera al termine del film.
data di pubblicazione:24/01/2022
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da Paolo Talone | Gen 24, 2022
(Sala Umberto – Roma, 17 gennaio 2022)
Il monologo scritto dall’artista cosentino Max Mazzotta è un laboratorio complesso di immagini, suoni e linguaggi. È il racconto di un’anima condannata a vagare da un’esistenza all’altra finché un gesto compiuto per amore non le restituisce la pace.
Per seguire il monologo di Max Mazzotta bisognerebbe stare in una condizione temporanea di alterazione. Una mente vigile e razionale fa fatica a seguire il turbinio delle immagini, dei suoni e dei molteplici linguaggi usati dall’attore. Il dinamismo visivo e sonoro contrasta con la staticità dell’attore, fermo in un punto del palco, come sospeso in un universo luminoso. La sua statura vocale cavalca le più svariate espressioni linguistiche, dalla prosa dialettale ai versi poetici fino all’invenzione di una nuova lingua. L’impatto con i primi momenti dello spettacolo è violento. È come se improvvisamente la materia attorno esplodesse in mille pezzi, riportando a un grado zero lo spazio e il tempo in cui siamo immersi. Il contributo alla creazione di questo stato allucinatorio è anche di Serafino Sprovieri alla consolle luci/video e di Vladimir Costabile a quella audio.
Vite di Ginius racconta il viaggio metafisico di un’anima, condannata a reincarnarsi in esistenze vigliacche e meschine, fino a che un gesto ultimo, eroico e coraggioso, non la redime dagli errori commessi. L’anima mantiene la sua coscienza ma non il suo corpo, così è costretta a ripercorrere nel ricordo chi è stata nell’arco di mille lunghi anni.
Nella prima vita era un’anziana signora calabrese che si ritrova spettatrice inerme di un tragico incidente da lei in qualche modo causato. Negando a un bambino un po’ di quell’acqua con la quale aveva riempito la sua brocca, questo si sporge e cade nel pozzo dove lei aveva appena pescato. La memoria fa poi un salto di qualche decennio e ci ritroviamo nel negozio di calzature di Nanni, nella Roma degli anni ’60. Anche questa volta il passaggio dell’anima sulla terra si risolve con un atto di vigliaccheria. Nanni infatti rifiuta di difendere una ragazza innamorata di lui, uccisa dalle percosse a cui la sottoponeva il fratello. Il tema della violenza tra fratelli ritorna nella storia successiva, svolta ai giorni nostri. Gianni è geloso di Nino, soprattutto perché bisognoso di attenzioni. L’invidia lo consuma e, in seguito a un improvviso attacco di rabbia, lo costringe a compiere l’atto fratricida.
L’anima infine si incarna nel corpo di un militare assoldato dal più crudele e rigido dei governi alla fine del terzo millennio, una sorta di cervello informatico che comanda di eliminare qualsiasi tipo di sovversione. La morte doveva colpire Nina, ma lei riconosce nello sguardo del suo carnefice l’uomo che nelle vite precedenti aveva rifiutato di aiutarla. Ginius si commuove e la salva, facendole da scudo con il suo corpo quando la macchina spara il suo colpo mortale. Questo atto di altruismo lo libera e finalmente può ricongiungersi con la materia che forma l’universo e continuare il suo viaggio infinito nella pace e nel riposo. Il limbo in cui ci aveva trascinato Max Mazzotta all’inizio trova quindi la sua spiegazione. Tutto è compreso tra ciò che è immanente, la nostra vita sulla terra, e ciò che ci trascende, una volontà giudicante che aspetta di vederci compiere un gesto eroico e di giustizia.
data di pubblicazione:24/01/2022
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Gen 23, 2022
Dopo aver indubbiamente apprezzato il successo di critica e di pubblico del romanzo di esordio di Stuart Turton Le 7 morti di Evelyn Hardcastle, non si poteva non avere qualche timore nel valutare la sua opera seconda.
Questa volta la storia ha luogo nel 1634 ed è ambientata su un veliero della Compagnia Olandese delle Indie Orientali in viaggio da Batavia verso Amsterdam. Il Governatore, sua moglie ed altri notabili sono a bordo per fare ritorno in patria, fra loro anche il più rinomato investigatore dell’epoca Samuel Pipps ed il suo aiutante Arent Hayes. L’investigatore è però rinchiuso in catene, ed il suo assistente deve cercare di chiarire i misteriosi eventi e le diaboliche entità che incombono sulla nave durante la lunga e pericolosa navigazione. Brillante idea! Indagine in un contesto “chiuso” che più chiuso e definito di una nave non può essere. Un mystery navale con toni di sovrannaturale e di fantasy. Assassinii, intrighi, atmosfere gotiche e surreali, ammutinamenti … un caos in cui nulla è come sembra essere.
Non si può evitare di fare riferimento al romanzo d’esordio visto che i due lavori si somigliano tanto quanto, al tempo stesso, differiscono però fra loro. Se il primo era un mystery ed un poliziesco ad enigmi che ricordava molto le atmosfere e le inchieste alla Agatha Christie e di Hercule Poirot, questo nuovo lavoro del nostro autore si rifà invece alle atmosfere ed alle inchieste di Conan Doyle e del suo Sherlock Holmes. Tutto il processo investigativo teso a risolvere i misteri che si addensano sulla nave riprende infatti i percorsi di analisi deduttiva e riflessione propri dell’investigatore di Conan Doyle. Turton è però scrittore abile ed astuto, ed anche questa volta mette del suo in modo molto intrigante, dando spazio e rilievo investigativo (sia pure anacronisticamente con l’Epoca) ai personaggi femminili, tutti dotati di forte personalità, indipendenza e libertà di comportamento. Il nuovo libro si presenta quindi come un discreto mix di Sherlock Holmes, di Stephen King e dei … Pirati nei Caraibi.
È evidente che quest’opera seconda, pur non essendo mai banale è però molto più convenzionale. Lo stile descrittivo, diretto e preciso, la scrittura accessibile ed accattivante restano apparentemente identiche ed apprezzabili. Però, c’è un però, mancano la briosità, l’originalità nella costruzione del plot e la vivacità narrativa che avevano determinato il gran successo dell’esordio. L’intrigo è certamente meno complicato, più accessibile e quindi la lettura del libro è meno impegnativa e di conseguenza scorrevole, però il romanzo è troppo lungo e spesso Turton perde anche la rotta. Troppi personaggi secondari si accavallano fra loro, troppe inutili false piste, troppo pochi i momenti intriganti e troppi quelli noiosi e ripetitivi, troppi e gratuiti gli anacronismi. Il finale poi risulta troppo debole, folle e caotico, quasi affrettato.
Insomma non una delusione, questo non si può certo dire, perché il libro si legge pur tuttavia piacevolmente, ma siamo molto, molto lontani dal precedente. Il Diavolo e l’Acqua Scura è dunque solo un normale romanzo fra il fantastico ed il poliziesco che può essere gradevole a leggersi e proprio nulla di più. Difficile fare il bis quando si è debuttato con i fuochi d’artificio.
data di pubblicazione:23/01/2022
da Rossano Giuppa | Gen 23, 2022
(Teatro India – Roma, 9/23 gennaio 2022)
In scena al Teatro India di Roma Darwin Inconsolabile (un pezzo per anime in pena)scritto e diretto da Lucia Calamaro con Maria Grazia Sughi, Riccardo Goretti, Gioia Salvatori e Simona Senzacqua.Maria Grazia, ottantenne artista performativa, mette in scena la rappresentazione della sua inevitabile morte, o presunta tale, per cercare di attirare l’attenzione dei suoi tre figli. Una storia di una famiglia in cui riconoscere le nevrosi e gli stili di vita della nostra quotidianità, raccontata con pungente ironia e forte empatia, senza giudizi o prese di posizione ma con grande umanità (foto Laura Farneti)
Darwin inconsolabile è l’ultima interessantissima pièce di Lucia Calamaro, drammaturga, attrice e regista di fama internazionale, in scena al Teatro India fino al 23 gennaio.
Darwin è un nome-metafora, ossia l’evoluzione ed involuzione della specie umana, così come inconsolabile è l’aggettivo-metafora e dei personaggi in scena: l’inconsolabilità della madre viene dal sentimento di solitudine, che si contrappone all’indifferenza o al presunto sapere dei figli.
Si inizia in un supermercato con due carrelli colmi di acquisti, con gli animi già esasperati. La spesa in sé e le connessioni sottostanti aprono svariati vasi di Pandora. Uno dopo l’altro i tre fratelli, (Riccardo Goretti, Simona Senzacqua e Gioia Salvatori), discutono animatamente tra loro e con la madre, si allontanano e si avvicinano, fuggono. Rimane Maria Grazia Sughi, madre artista visivo-performativa che progetta una “tanatosi”, finta morte praticata da alcuni animali per difendersi dai predatori, allo scopo di riavvicinare i figli a sé. È una morte imminente di crepacuore, quella che annuncia, a cui quasi nessuno sembra credere veramente, tranne Gioia, vittima di un rapporto irrisolto con la madre.
I fratelli si scontrano, ciascuno scaricando sugli altri i propri tormenti esistenziali, tra cui l’astio per una madre bugiarda e lontana, infelici nella componente affettiva ed incapaci di individuare il proprio ruolo e la propria dimensione nel contesto che li circonda.
Nell’appartamento dove la madre si appresta a recitare la propria dipartita, si accatastano intanto le opere della gioventù di Maria Grazia da lei richieste al suo fianco per accompagnarla nel viaggio che l’attende. È proprio in questo luogo sulla soglia, di passaggio, che restano per un lungo tempo da soli Gioia, Riccardo e Simona, a vivisezionare il loro rapporto, ciò che non li lega più e a rinfacciarsi le rispettive mancanze avute nei confronti della madre. Riccardo è un frustrato maestro elementare e soffre da sempre la gravità della componente femminile, Simona è la madre matura e ostetrica, ambientalista irrisolta e confusa, Gioia invece, solo con la morte annunciata della genitrice si rende conto di essere una sorella, non si era infatti mai percepita tale. Con scrupolosa analisi, ricercatezza di metafore e indagine speculativa, passano in rassegna la loro esistenza giungendo a parlare di un inedito manoscritto di Darwin de L’Origine della specie, consegnato da un amico a Maria Grazia in persona, durante una delle sue avventure artistiche e sentimentali, divenuto per loro manuale di vita. Peccato che si tratti di un falso, come confessa la madre, da lei stessa redatto.
Nessuno dei tre figli accetta che la madre abbia loro comunicato che il suo cuore non regge più, è stanco, e potrebbe morire. Quando? Non si sa, ora come domani, ciò che conta è la consapevolezza della precarietà, della fine. Potrebbe esser un monito, un richiamo, un avvertimento, una metafora spiega la regista. “Una madre che simboleggia il pianeta? Forse. Dei figli che simboleggiano noi? Può essere. Ma nessuno, di certo la bontà. Né la colpa. O il destino. Nessuno è vittima. Tutti sono creatura e natura, e hanno le loro strategie di sopravvivenza predatorie”.
data di pubblicazione:23/01/2022
Il nostro voto:
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