da Antonio Jacolina | Ott 17, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Jack Foley (Russel Crowe) è un giocatore d’azzardo divenuto miliardario con i diritti di un software da lui inventato. Ad un punto cruciale della sua vita riunisce i più cari amici d’infanzia in una sua lussuosa villa per una partita di poker. La partita è un pretesto, il suo piano è portarli davanti alla verità delle loro vite ed al di là dei loro intimi segreti. Ci sono però alcuni imprevisti che sconvolgono il piano originario …
Immersi nell’oceano di apparenza, di superficialità e grossolanità che ci circonda e che manifestano i nostri cosiddetti modelli sociali, non riusciamo nemmeno ad immaginare che in altri contesti sociali, culturali e religiosi chi è stato baciato dalla Fortuna e dal Successo possa avere dei valori e dei sentimenti morali e spirituali e che li professi. Russel Crowe sembra proprio averli e crederci e non avere timore di parlarne nei suoi film.
Dopo i discreti apprezzamenti avuti nel 2014 con il suo esordio alla regia con The Water Diviner in cui toccava (in un mix di film di guerra e di commedia romantica) il tema del rispetto per il dolore e della memoria degli scomparsi, è stata presentata alla Festa la sua opera seconda. Poker Face ha avuto diverse traversie produttive e Russel Crowe ne ha scritto la sceneggiatura, lo ha diretto ed interpretato.
Diciamolo subito, non si tratta certo di un capolavoro, ma credo che ciò non fosse nemmeno nelle pretese di chi lo ha realizzato. È solo un discreto film commerciale, un più che discreto B Movie e nulla di più. Ma perché mai da Crowe dovevamo aspettarci per forza un capolavoro? e perché doverlo quindi criticare se non ce lo ha dato? Il suo film è un onesto prodotto, nulla di più, e ne ha tutte le caratteristiche nel bene e nel male, semmai unisce e mischia diversi generi e tipi: il thriller, lo psicologico, il film introspettivo, il film sul gioco, sull’amicizia o d’azione. Indubbiamente la somma di tante componenti narrative, accennate, iniziate e poi abbandonate può creare disorientamento e sembrare che siano fra loro del tutto scollegate. Lo spettatore non perde però totalmente il filo narrativo perché il vero ed unico legante sono Russel Crowe, la sua perplessità davanti alla presa di coscienza della propria umana fragilità ed il significativo quesito sul senso della propria vita e sul proprio lascito esistenziale. Questo è il tema del film.
Certamente i temi evocati non sono di poco conto e di sicuro sono ben superiori alle forze, alle capacità di scrittura ed a quanto il film possa mai riuscire a poter dare, ciò non di meno, sia pure a tratti, ci sono elementi interessanti e di qualità.
Un film dunque sicuramente non perfetto anzi con delle pecche, ma in cui traspaiono però le buone intenzioni, c’è cuore, c’è impegno, ci sono sprazzi di talento, intensità ed onestà. Di certo manca molto la continuità stilistica a causa dei tanti cambi di registro. Pur con questi difetti veniali ed ammissibili in quella che è solo una “seconda prova”, il racconto si segue, la messa in scena è buona, c’è sempre sufficiente tensione, il ritmo ha i suoi tempi ben scanditi e nulla sembra essere affidato al caso. Come dicevamo, il film è essenzialmente retto tutto dall’interpretazione costante e generosa di Russel Crowe che si conferma ancora come un attore dalla recitazione e dalla presenza scenica ammirevole, buono è poi, come sempre in queste produzioni, anche il resto del cast che fa da contorno.
Nell’insieme dei film visti fino ad oggi, anche un B Movie semplicemente discreto come Poker Face riesce a brillare nell’oscurità con solo pochissime altre stelle.
data di pubblicazione:17/10/2022
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da Antonio Iraci | Ott 17, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Elisabeth, già da alcuni anni in noviziato presso un convento dove all’età di dodici anni era stata rinchiusa per volere del padre, viene improvvisamente richiamata a casa per sostituire nel lavoro dei campi la sorella Innocente, venuta a mancare in circostanze poco chiare. Alle insistenti domande della ragazza sulla sua morte, ognuno cerca di eludere qualsiasi forma di risposta. La scoperta del diario di Innocente le consentirà di scoprire i segreti della sua vita e i pregiudizi di cui era rimasta vittima.
Carmen Jaquier, nata a Ginevra nel 1985, si è fatta conoscere dalla critica internazionale per aver fatto parte di un gruppo di dieci registi che hanno presentato al Festival di Locarno il film Heimatland, un lavoro collettivo che ha avuto grande risonanza per la tematica sociale affrontata. Foudre, presentato in prima mondiale al Festival di Toronto e ora alla Festa del Cinema, tradotto in italiano sarebbe il “fulmine” e per l’appunto è veramente qualcosa che folgora lo spettatore sin dalla prima scena e attanaglia l’attenzione per tutta la durata della proiezione. Una prova d’autore ben riuscita dove la regista riesce a realizzare un piccolo capolavoro intriso di grande sensibilità e di indiscussa abilità nel raccontare una storia che, sia pur ambientata nel passato in una ristretta comunità svizzera agli inizi del novecento, ci riporta inevitabilmente a fatti di cronaca dei giorni nostri. Una attenta riflessione sull’amore naturale e sulla sessualità senza discriminazioni di genere che trova ancora oggi la violenta e anacronistica avversione da parte della religione. Elisabeth (Lilith Grasmug) dalla pace del convento, nel quale era entrata perché costretta e dal quale viene strappata perché costretta, si trova ora catapultata in seno ad una famiglia nella quale è del tutto estranea, sottoposta a delle regole severe e dove non è lecito chiedere. Nessuno vuole dirle come e perché la sorella maggiore sia morta, c’è intorno alla sua figura una densa omertà. La scoperta casuale del suo diario le consentirà ci capire appieno come abbia saputo lottare per sperimentare la propria vita secondo ciò che lei stessa riteneva giusto per il suo mondo interiore. In un universo così chiuso, tra le valli svizzere, era naturale sottostare alle rigide dottrine della religione e qualsiasi forma di spontanea ribellione veniva subito considerata opera del demonio. Ecco che Elisabeth ora vuole ripercorrere le orme della sorella e inizia insieme a tre giovani del luogo, quella silenziosa rivoluzione che la porterà a scoprire le emozioni del proprio corpo e a condividere con i ragazzi le prime esperienze sessuali che assumono però un carattere quasi mistico a contatto con la natura. La fotografia, curata in maniera superlativa da Marine Atlan, ci riporta, nelle riprese degli interni, a un gioco di buio e di luce radente che illumina i volti con una incisività che è propria dell’arte caravaggesca. Film profondo, forte, emozionante che mette in luce il punto di osservazione di Carmen Jaquier, primo lungometraggio di una regista che sicuramente in futuro ci regalerà altre suggestioni, così come è avvenuto con questo film.
data di pubblicazione:17/10/2022
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da Daniele Poto | Ott 17, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 ottobre 2022)
Il crudo naturalismo di Strindberg portato su una scena essenziale con sintesi bergmaniana per un vivo successo di pubblico fino all’ultima replica.
Ci vuole coraggio per approcciare un testo del 1888, proposto in Italia per la prima volta nel 1897, tra discussioni e polemiche. La disinvolta signorina Giulia creca un corto circuito di classe tra padrone e servi, tra la famiglia del conte e il proletariato. Il debutto è come il finale: contrassegnato da una scenografia opprimente. Un muro nero che occupa tutta la scena e da cui salgono e scendono i tre protagonisti. La vicenda è sfrondata di personaggi e situazioni, calata in un clima di ambigua e ammiccante sinteticità con speculazioni evocative. Con il linguaggio dell’ottocento che acquista una sua durezza con scoppi di turpiloquio e l’affabulare istintivo e ferino del servo. Vicenda che nell’originale termina con un suicidio e che qui invece veicola un finale aperto. I tre attori sono bravi ad acuire la tensione in un crescendo di dialoghi convulsi dove l’apparente normalità sembra garantirà dall’iper-religiosità della cuoca, sempre più scandalizzata dalle evoluzioni degli altri due protagonisti ma comunque partecipe del loro rapporto. Balletto dialettico a tre. Con il servo eccitato e una Giulia che vuole e non vuole, irretita ma anche provocatrice in un gioco a specchio in cui non si sa bene chi sia la vittima e chi il carnefice nella manifesta volontà di uscire dagli schermi. Il testo di Strindberg, rivoluzionario per l’epoca in realtà era destinato a stupire la classe media e fu il grimaldello per la fama del drammaturgo svedese che si affaccia sul crinale dei quaranta anni con questa proposta estremamente scandalizzante per l’epoca, comprensiva del fatto che la Signorina Giulia era interpretata da sua moglie. Si respirano temperature del nord, quelle non troppo dissimili dal norvegese Ibsen.
data di pubblicazione:17/10/2022
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
La diligenza da Ellsworth conduce il giovane idealista,William (Will) Andrews a Butcher’s Crossing, un raggruppamento di poche fatiscenti baracche, sede dell’ufficio del signor McDonald, il più importante commerciante di pelli di bisonte del Kansas. Spera di trovare un lavoro, fare esperienze e guadagnare. Sconsigliato dal vecchio e disincantato rivenditore si offre comunque di partire per un rischioso viaggio a caccia di bisonti insieme ad un’altra spedizione di un cacciatore veterano che dice di conoscere una valle segreta ricca di mandrie. Si troverà coinvolto in una corsa drammatica e sconvolgente che lo segnerà a vita.
Come ci insegnano i grandi critici francesi, in particolare Andrè Bazin, il western rappresenta da sempre la mitizzazione della cultura americana. Questa fascinazione ha prodotto negli anni (fin dal cinema muto) una miriade di pellicole con ambientazione nell’Ovest degli USA. Si può dire che gradualmente, la narrazione ha fatto ricorso alla leggenda prima (eroi buoni e indiani cattivi) , poi alla storia (il revisionismo che ha chiarito i rapporti di forze). Siamo passati, quindi, per sommi capi e onore di sintesi, da Ombre Rosse del mitico John Ford a Balla coi Lupi di Kevin Costner, ovvero da un meraviglioso cinema di intrattenimento ad uno più attento alla storia e critico sul passato. Con Butcher’s Crossing il western segna un altro punto a suo favore, inserendosi nel solco del “western letterario” pur sempre nella sfera del revisionismo che, nell’occasione, parla del tema della distruzione dei bisonti da parte “dell’uomo bianco”. Il film come il bel romanzo di John Williams (l’autore del super best seller, Stoner) è una storia dura, spietata e refrattaria ad ogni romanticismo sulla speranza di poter controllare la natura. Ci sono scene che restano impresse nello spettatore: cavalli assetati, carri che precipitano verso torrenti, bufere spaventose e soprattutto la violenza dell’uomo verso le migliaia di placide bestie, i bisonti, uccisi senza necessità particolari. Ma, anche nei momenti di quiete , quando i quattro protagonisti si ritrovano nel fuoco di bivacco o quando sognano dolcezze o incubi, non c’è tempo per sentimentalismi di sorta. Come in Revenant (2015) di Inarritu che valse l’oscar a Leonardo di Caprio, anche Butcher’s Crossing ha una trama semplice che non racconterò, ma ha nei personaggi, nella natura e nella morale i suoi punti di forza. La regia di Polsky che è anche sceneggiatore con Liam Satre- Meloy è sobria ed efficace e, nell’occasione, pur stravolti dal blizzard e coperti da barbe e pellicce gli attori ben figurano.
Persino il tanto criticato, Nicholas Cage ( lo spietato Miller) , al primo western della vita,dopo oltre 100 film non tutti indimenticabili, fornisce una prova credibile , al pari del giovane e promettente , Fred Hechinger (il tenero Will Andrews ) e del rude Jeremy Bobb (lo scuoiatore di pelli , l’unico con un po’ si sale in zucca). Alla fine, tocca dirlo, quelli che escono meglio sono i poveri bisonti, inermi di fronte allo sterminio che nel 1874 portò il loro numero a ridursi a soli 300 esemplari rispetto ai sei milioni che pascolavano nelle praterie. Oggi, ce lo ricordano i titoli di coda, grazie all’impegno delle popolazioni native (gli indiani per intenderci) i bisonti sono ritornati in gran numero e sono specie protette e patrimonio della Nazione. Della serie “non è mai troppo tardi!”
E così anche narrando una storia del 1874 un film riesce a dare un contributo di verità a eventi storici per troppo tempo ignorati o manipolati.
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Maria Letizia Panerai | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma 13/23 Ottobre 2022)
Ad iniziare da titolo, Rapiniamo in Duce è un film a dir poco originale, con un “manipolo” di attori capitanati dal poliedrico Pietro Castellitto che questa volta dà vita ad un personaggio spregiudicato ma anche ingenuo e sentimentale, che si contende con il gerarca fascista Borsalino (Filippo Timi) l’amore di una giovane cantante di night club dal nome d’arte – o meglio di battaglia – Yvonne, interpretata da una convincente Matilda De Angelis.
Aprile 1945. Siamo a Milano sul finire del secondo conflitto mondiale. Pietro detto Isola, ladro e re del mercato nero, è sempre in cerca di soluzioni che possano permettergli di accumulare un po’ di soldi per scappare con il suo amore Yvonne, cantante del Cabiria, l’unico locale notturno rimasto aperto in città, nonché amante del sanguinario gerarca fascista Borsalino, sposato all’attrice nostalgica e senza ruoli Nora (Isabella Ferrari) che tenta di contendersi l’amore del marito con la giovane cantante. Isola, nonostante il suo soprannome sia indicatore della sua solitudine, riesce con un piccolo gruppo di disperati come lui, a formare una squadra per fare un colpo ai danni del Duce: saccheggiare un vero e proprio tesoro accumulato negli anni e nascosto in un quartiere di Milano, detta “zona nera”, che i fedelissimi di Mussolini custodiscono perché questi possa scappare in Svizzera, sfuggendo alla cattura e ricreandosi una vita con Claretta Petacci.
Il colpo più ambizioso e bizzarro della storia è al centro del nuovo film di Renato de Maria, film sentimentale che mescola ingredienti cha assomigliano a un fumetto e a un film d’azione, descrivendoci in termini rocamboleschi una rapina mai realmente effettuata.
Tante trovate, alcune molto divertenti, con un cast di attori bravi tra cui Tommaso Ragno, presente ultimamente in quasi tutta la filmografia in circolazione; il film tuttavia non riesce a decollare nel modo giusto, senza riuscire a eguagliare il Freaks out di Mainetti né il Diabolik dei Manetti bros: bella idea ma non completamente riuscita per un prodotto Netflix indirizzato sicuramente più ad un pubblico giovane, che anche in sala sembra aver gradito.
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
È la storia di un tranquillo pensionato, il professor Astolfo bla bla bla (cognome nobiliare) che, sfrattato d’improvviso dal suo appartamento romano, torna a vivere nella casa di famiglia in un paesino del centro Italia. Si ritrova nell’antico palazzotto di proprietà che, però, ha subito i segni del tempo, dell’incuria e delle intrusioni di vicini indesiderati e/o prepotenti. Il docile Astolfo s’imbatterà in personaggi dalle stravaganti e non sempre limpide esistenze, intratterrà cattivi rapporti con il potere locale (il sindaco traffichino e il prete, impiccione), e troverà, fuori tempo massimo, in una gentile appassita vedova, non ancora in totale abbandono, nuovi entusiasmi e gioia di vivere.
Dopo un ‘estate di block buster USA, eccessivi e ripetitivi, dopo i flop veneziani, dopo un autunno di soporiferi, ambiziosi polpettoni nostrani, (spesso derivazione di altrettanti gonfiati premi letterari), ecco tornare il fresco e semplice (nella migliore accezione del termine) cinema del bravo Di Gregorio. Astolfo, non diversamente da, Lontano, Lontano, è il prodotto pulito, autentico, privo di sovrastrutture e ambizioni esagerate e, proprio per questo, onesto e godibile che ci si aspetta dal regista romano. Non delude neanche la trama che ha una sua originalità e un suo fluire leggero, ironico e mai banale. Ancora una volta, il contesto, ieri Trastevere, oggi, Artena, dunque la piccola provincia, sono il centro della narrazione di Di Gregorio. In questo mondo, vero, reale, anche se non sotto i riflettori, si agitano piccoli protagonisti, persone con i loro difetti, i loro rimpianti, le loro speranze. È allora la normalità la vera cifra distintiva di questo cinema che trova in Di Gregorio il suo miglior narratore. Paradossalmente, i suoi film a basso costo sembrano più ricchi di tante pellicole inutilmente destinate a mercati d’oltre confine e le storie raccontate, certamente credibili e godibili in ogni paese. Scomodando paroloni si potrebbe parlare di riuscita antropologia provinciale, ma farei torto al regista, nonché co-sceneggiatore (con Marco Pettenello) e misurato interprete. Astolfo, è un film, ben girato, senza eccessi, efficace nella descrizione dei personaggi, un piccolo gioiello dal giusto carattere. Con Di Gregorio (Astolfo) reggono il gioco i bravi co-protagonisti: Alfonso Santagata (Carlo), Mario La Mantia (Daniel) Alberto Testone (Oreste) e la tenera e appassita Stefania Sandrelli (Stefania). Certamente una boccata d’aria fresca per un film che conferma il discreto (in termini di understatement) talento del bravo Gianni Di Gregorio.
Chiudo con una curiosità irrilevante: avete notato la spiccata somiglianza del regista col giornalista Antonio Padellaro (quasi un sosia giovane)?
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Antonio Jacolina | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Philippa Langley (Sally Hawkins), insoddisfatta del suo lavoro e della sua vita affettiva, si rifugia negli studi storici, appassionandosi della figura di Riccardo III, e decide di affermare la verità storica e ritrovare il luogo della sua sepoltura grazie alle sue intuizioni…
La Storia, si sa, la racconta chi ha vinto! Se poi i fatti vengono rappresentati da un Autore come Shakespeare che dipinge lo sconfitto Riccardo III come un assassino, usurpatore e deforme, la “Verità e la Storia” saranno per sempre e per tutti solo quelle dei vincitori e del Bardo. Di Riccardo III non si saprà più nemmeno dove fosse stato sepolto. Solo nel 2012 un’impiegata si metterà in testa di ritrovare i suoi resti. Ci riuscirà e avrà successo là dove da secoli tutti avevano fallito. E’ una storia tanto incredibile quanto vera.
Stephen Frears, regista ironico e provocatorio fin dagli esordi, riunisce la sua squadra di autori e ripropone la formula che aveva già usato con successo con Philomena (2013) per raccontarci ancora una volta la storia di un piccolo personaggio che lotta per ristabilire la Verità. Un outsider che riesce a vincere! Una donna alla ricerca di se stessa, che affronta ostacoli insormontabili per provare a sé e al mondo intero che merita di esser presa sul serio, apprezzata e rispettata.
…Se io, inviato anzitempo in questo mondo palpitante, scolpito a metà, così zoppo e sgradevole che i cani mi abbaiano contro se gli passo accanto… sono queste le parole che Shakespeare fa dire a Riccardo III e che colpiscono il cuore già turbato di Philippa. Dedicherà tutto il suo tempo all’impresa, confrontandosi con ricercatori, storici, archeologi e infine con le autorità e l’Università di Leicester, ove è convinta di aver individuato il luogo di sepoltura del Re sulla base delle sue sole intuizioni.
Sullo schermo Frears adotta come suo registro l’impassibilità, limitandosi a proporre i fatti ed a rappresentare in sottofondo le atmosfere di un certo ambiente sociale britannico. Leggermente enfatizzato, per dare tono alla narrazione, è invece il confronto/scontro con l’establishment universitario. Una geniale invenzione teatrale è poi l’apparizione di Re Riccardo a sottolineare le personali vibrazioni della protagonista. Un suggestivo tocco drammatico che metaforizza l’ambigua distinzione tra ciò che è reale e ciò che è solo intuìto.
La vera carta vincente del film è però l’interpretazione attoriale. Al centro di tutto e su tutti primeggia la Hawkins in un ruolo perfetto per le sue corde: viva, fragile ed al contempo determinata e coraggiosa. Con lei Steve Cogan, l’ex marito, e tutto un gruppo di buoni attori e caratteristi, precisi nei loro ruoli.
The Lost King è in definitiva un film piccolo ma interessante. Un film molto inglese, con un leggero tocco sentimentale che aggiunge un po’ di zucchero senza farlo mai risultare stucchevole.
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Antonio Iraci | Ott 15, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Lynsey, mentre si trova in Afghanistan arruolata tra le truppe americane come ingegnere, subisce una lesione cerebrale a seguito di un attentato di cui rimane vittima il suo convoglio. Ritornata in patria, dovrà affrontare un lungo periodo non solo di riabilitazione fisica ma anche di recupero di ciò che rimane della sua vita affettiva, all’interno della famiglia. L’incontro casuale con James, meccanico in una autofficina, consentirà alla ragazza di affrontare con coraggio i traumi del passato e di aiutare lo stesso James a cancellare i propri.
Lila Neugebauer, nata a New York, si è sempre distinta per la direzione di importanti pièce teatrali soprattutto a off-Broadway, dove oramai è di casa. Con Causeway abbiamo il suo esordio come regista e il film viene ora presentato in anteprima in questa terza giornata della Festa del Cinema. Si tratta di un piccolo dramma psicologico perché affronta le difficoltà fisiche, ma soprattutto interiori, di una donna che si è sempre impegnata con convinzione a svolgere la propria attività tra le truppe americane in Afghanistan. Dal difficile rapporto con la madre, con la quale è ora costretta a convivere dopo un lungo e faticoso periodo di riabilitazione fisica, si evince facilmente che la sua scelta di abbandonare la famiglia alquanto disastrata, con un fratello coinvolto nel traffico di stupefacenti e un padre oramai inesistente, non era proprio causale. Il bisogno di allontanarsi da New Orleans, suo luogo di nascita ma che per lei è solo fonte di sofferenza, la spingerà ad isolarsi sempre di più nella casa nella quale ora vive e a cercarsi un lavoro temporaneo in attesa di essere riabilitata al servizio. Grazie all’incontro casuale con James, anche lui fisicamente disabile, la ragazza lentamente imparerà a riconquistare quella sensibilità affettiva che era andata totalmente persa. Il rapporto che si prospetta è sicuramente di empatia reciproca, visto che Lynsey dichiara subito di non essere interessata sessualmente agli uomini, ed i due lentamente, a volte anche con qualche parola lanciata a sproposito, riusciranno alla fine a instaurare una convivenza, entrambi desiderosi di sperimentare insieme la quotidianità. Jennifer Lawrence, già premio Oscar come migliore attrice nel film Il lato positivo diretto da David O. Russel, dimostra una eccezionale bravura nella parte della protagonista mentre è una vera rivelazione Brian Tyree Henry, attore statunitense anche lui con una brillante carriera alle spalle. Causeway è un film delicato e profondo che ci porta con discrezione nell’animo dei protagonisti per rivelarci quanto sia doloroso a volte convivere con il proprio passato e quanto sia ancora di più impegnativo proiettarsi in un futuro ancora buio e indistinto, sforzandosi di non perdere quella piccola dose di coraggio necessaria per rivedere al meglio la propria esistenza.
data di pubblicazione:15/10/2022
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da Antonio Jacolina | Ott 15, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Nella Londra del secondo dopo guerra Ada Harris (Lesley Manville) si guadagna da vivere facendo la domestica ad ore. Dopo anni di speranze apprende di essere vedova di guerra e, per quanto con i piedi ben saldi nella realtà, è una sognatrice ottimista e vuole realizzare almeno un sogno: un abito di Dior! Risparmia e riesce ad andare a Parigi con la somma sufficiente per l’acquisto. La Maison Dior non è come un grande magazzino … eppure …
Mera coincidenza o invece sottile intenzione della nuova Direzione della Festa? I due film in proiezione stamane: sia Coupez!, sia Mrs Harris goes to Paris portano infatti alla luce il “dietro le quinte”, gli “invisibili” ma indispensabili che contribuiscono con il loro talento ed abilità artigianale al successo dei loro diversi lavori: nel primo caso la realizzazione dei film, nel secondo la confezione degli abiti delle Grandes Maisons.
Tratto dai romanzi di successo di Paul Gallico il film diretto da Fabian opta per una realizzazione dagli effetti facili: la simpatica protagonista è una donna di gran cuore, generosa ed ottimista che definitivamente vedova di guerra decide di concentrarsi sul vivere e sui suoi sogni. Si innamora di un abito di Dior ed ecco allora che una serie di fortunate coincidenze le consentono di andare a Parigi con un rotolo di sterline, pensando di poter comprare e portar via in giornata una creazione di Haute Couture. Piacevolmente charmant e superficiale il regista non fa particolari voli di bravura o di fantasia ed il film sembra divenire un’altra delle tante commedie piene di clichès sul fascino di Parigi. Per fortuna la realizzazione non è poi così banale né tantomeno è una cartolina illustrata e, pur non mancando qualche luogo comune, si stacca invece dalla possibile realtà ed i tanti sogni sembrano quasi realizzarsi. Il film prende così sempre più l’aspetto di una favola, anzi di favole nelle favole, in cui tutto sembra risolversi al meglio. Un’apprezzabile commedia rétro che fa tanto “buon vecchio cinema”, una favola per adulti che si segue con piacere per la gioia dei cuori ed anche degli occhi, davanti agli splendidi abiti e creazioni Dior. Una favola un po’ desueta ma tuttavia graziosa. Uno di quei piccoli gradevoli film che rassicurano il proprio ben definito e limitato target di spettatori, ricordando loro che qualcosa di buono può sempre accadere.
Lo scenario, la sceneggiatura, i dialoghi, le location sono perfettamente come dovrebbero essere ed il tutto poggia sulla buona performance degli attori. La Lesley Manville, (in una parte in cui sarebbero potute stare a pennello sia Meryl Streep che la Hellen Mirren), regge infatti tutto il film con il suo delicato carisma e la sua recitazione vivace. Accanto a lei a Parigi ci sono Lambert Wilson e la Isabelle Huppert bravi entrambi e poi anche un gruppo di giovani attori ed ottimi caratteristi tutti perfetti nei loro ruoli.
Insomma un film sicuramente più che discreto, da vedere e poter gustare che però si scorda con la stessa facilità con cui lo si apprezza. Un film che visti i tempi difficili che stiamo attraversando offre allo spettatore un’apprezzabile boccata d’aria pura, di serenità, di ottimismo ed uno sguardo su un mondo ove tutto si risolve bene, di certo migliore di quello che ci attende fuori del cinema.
data di pubblicazione:15/10/2022
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da Antonio Jacolina | Ott 14, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Il modesto regista Remì (Romain Duris) accetta di realizzare per dei committenti giapponesi un film a bassissimo costo e con attori altrettanto mediocri sugli Zombie. Dovrà essere un unico piano sequenza la cui ripresa non potrà quindi essere interrotta, succeda quel che succeda …
Con questo film presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, Hazanavicius autore del premiatissimo The Artist ritrova il gusto per l’ironia e la satira dei suoi primissimi film su OSS117.
Il regista francese ci ripropone nel film visto oggi alla Festa del Cinema di Roma il remake di un film giapponese sui morti viventi, gli Zombie. Meglio ancora ci propone una parodia mordente e sagace del Genere che intelligentemente diviene la storia di un regista che gira un film su un regista che sta girando un film di “serie Z” a costi ridottissimi, con attori modesti ed una troupe ancor più limitata ed arrangiata. L’attenzione, il riso e l’intelligenza dello spettatore sarà poi sollecitata mostrandogli le situazioni paradossali e tragicamente comiche che avvengono dietro la cinepresa.
Fin dai primi secondi si piomba nel cuore delle riprese del film sugli Zombie, un piano sequenza di ca. 20 minuti trash e dai colori sgranati in cui esageratamente il sangue e l’horror abbondano. Resistete! Restate in sala! Superate le perplessità! Cogliete qui e là gli accenni e le strizzatine d’occhio cinefile, le tante incongruenze e domandatevi piuttosto dove vorrà andare a parare il regista! Il film vero prenderà forma e senso di lì a poco. Hazanavicius genialmente divide la narrazione in tre parti a seconda del punto di vista. Prima ciò che lo spettatore vedrà sullo schermo: il piano sequenza con i morti viventi; poi la vera genesi del film, le ragioni della scelta degli attori e della troupe; infine quanto di assurdo e di esilarante, fra imprevisti, incapacità e piccoli drammi, avviene in realtà dietro la cinepresa mentre si filma il piano sequenza. Potrebbe sembrare un gran pasticcio ma invece è un film che avrebbero potuto fare solo Jacques Tati o Mell Brooks.
L’autore smonta e rimonta i tempi, destruttura il genere Zombie per rendere, in realtà, omaggio all’inventiva artigianale ed alla determinazione e capacità sottostanti la Fabbrica del Cinema ed a come, credendo ad un progetto, può nascere sia un capolavoro sia un film mediocre.
La struttura narrativa è complessa e ricca di colpi di scena ma la realizzazione è senza difetti e soprattutto la sceneggiatura è poi più che ottima, attenta e brillante, capace di maneggiare abilmente uno humour assurdo e gustoso in sintonia assoluta fra dialoghi convincenti ed incisivi e le situazioni paradossali. La regia è creativa, l’azione è ben ritmata ed incatena lo spettatore fino ai titoli di coda, immerso fra sorrisi e risate, nella folle ed esilarante avventura di questi cineasti mediocri ma determinati a farcela.
Un regista in buona forma che guida un gruppetto di attori eccellenti: Romain Duris, Berenice Bejo e gli altri, tutti bravi e perfetti nei ruoli anche quelli più secondari. Coupez! È una gradevole commedia, sottile, ironica e pungente. Un buon film su un pessimo film e … sull’ostinazione a fare Cinema.
data di pubblicazione: 14/10/2022
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