TOP GUN MAVERICK di Joseph Kosinski e L’UOMO DEI GHIACCI di Jonathan Hensleigh, 2022

TOP GUN MAVERICK di Joseph Kosinski e L’UOMO DEI GHIACCI di Jonathan Hensleigh, 2022

Non avendo potuto seguire, come negli anni “Pre Covid” la nostra Direttrice al Festival di Venezia e perciò in crisi di astinenza di quelle belle scorpacciate quotidiane di film, ci siamo gettati sul “quasi nulla” che, al momento, era in programmazione nelle sale cinematografiche ancora estive e sul “poco” di interessante presente sulle piattaforme…

 

Ci siamo quindi “sparati”, tutti in una volta, un auspicabile blockbuster uscito in Estate ed un auspicabile onesto B movie. Il fil rouge della valutazione di questa nostra maratona è poi stato il concetto di “sospensione dell’incredulità” delle vicende. La “magia” condivisa tramite cui gli spettatori credono, partecipano e vivono come “vera” la narrazione per quanto impossibile essa possa essere nella realtà.

Il primo film Top Gun Maverick (con al centro un eterno ed inossidabile bravo Tom Cruise) realizza in pieno la magia. Tutto è credibile, tutto è possibile, tutto è convincente, tutto è appassionante quali che siano i momenti della vicenda. Al servizio ed al contempo elementi chiave di questa magia, ci sono l’interprete principale, il supporto di una sceneggiatura di gran qualità che copre e giustifica i minimi dettagli della storia, un’abbondanza di mezzi sapientemente usati, l’eccellenza degli effetti speciali, la professionalità di tutti gli attori anche quelli di 2° e 3° ruolo, e, non ultima, una capacità di direzione che sa sapientemente alternare i vari registri della vicenda.
Puro virtuosismo cinematografico costruito su misura per i grandi schermi. La conferma che Hollywood può e sa ancora produrre dei blockbuster convincenti, spettacolari ed appassionanti. Al centro un Tom Cruise che sa giocare sia la parte tutta azione ed adrenalina, sia la parte leggermente malinconica che lo pone davanti al tempo che è passato dal lontano 1986, in un misto di innocenza e di angosce, di amori da non riperdere e di fantasmi del passato. Un risultato onesto, generoso, di classe, credibile, coinvolgente e tutto godibile per chi ama il genere.

Il secondo film L’Uomo di Ghiaccio pur dando già per scontato che potesse essere l’ormai solito Liam Neeson Movie, è privo assolutamente della magia! Di per sé non è brutto, Neeson, pur se sempre uguale, è comunque bravo, ciò non di meno, al di là degli splendidi panorami di un Canada ghiacciato il film resta però opaco e senza anima. Manca assolutamente quella Magia che rende credibile ed accettabile la storia. Soffre di piattezza visiva e narrativa, la sceneggiatura è fiacca e presenta quindi notevoli lacune nell’evoluzione narrativa ed alcuni sviluppi sono implausibili. I mezzi a supporto del film sono poi veramente scarsi e gli effetti speciali sembrano quelli dei film di alcuni decenni fa. Oltre Neeson c’è il vuoto e la regia priva di scatti per tenere alta la tensione è impotente davanti alle tante carenze e si limita solo a filmare senza mai veramente emozionare o minimamente riuscire mai a coinvolgere. Non scatta mai “la sospensione dell’incredulità”!
Quindi un prodotto senza pretese, un piccolo, piccolo film di serie B “all’antica”, ove tutto è tanto non credibile quanto anche tanto prevedibile. Peccato! Poteva essere una versione moderna e nordica del Salario della Paura di Clouzot

data di pubblicazione:16/09/2022

Top Gun Maverick 

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L’Uomo di Ghiaccio

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L’IMMENSITÀ di Emanuele Crialese, 2022

L’IMMENSITÀ di Emanuele Crialese, 2022

Reduce dalla recente presentazione al Festival di Venezia, esce nelle sale L’immensità di Emanuele Crialese che vede come protagonista Penélope Cruz nella parte di una moglie e madre di tre figli nella Roma degli anni ’70, quando in Italia Raffaella Carrà imperversava in TV con la sua Rumore e ballava sulle note di Prisencolinensinalciusol cantata da Celentano.

 

 

Siamo a Roma, in un nuovo quartiere ancora in costruzione, dove vive una famiglia benestante con tre figli. Al di là di un cannetto sottostante il palazzo c’è un insediamento di baracche dove abitano anche nuclei familiari di operai, gli stessi che verosimilmente lavorano nei cantieri della zona. Clara e Felice si sono da poco trasferiti nel loro nuovo appartamento, ma è palese che il loro matrimonio è al capolinea: niente li lega più se non il fatto di avere tre figli, tra cui la dodicenne Adriana detta Adri, che vorrebbe essere chiamata Andrea. Clara è l’unica a non ostacolare la figlia, seguendola in questo suo “percorso” con gioia e fantasia, sino al punto di diventare lei stessa un essere ingombrante per il marito (Vincenzo Amato), autoritario ed infantile, e per l’intera famiglia di lui.

Emanuele Crialese con questo suo nuovo film che esce nelle sale dopo molti anni di assenza, ha dato un ruolo decisamente centrale alla scelta musicale inserendo canzoni che sono state la colonna sonora di quegli anni e che in qualche modo ne identificano il clima, la mentalità corrente, a cominciare dal titolo stesso (dalla canzone di Don Backy che ci accompagna sui titoli di coda), o nell’interpretazione da parte di Clara ed Adriana di Love Story nella cover a quei tempi cantata con un certo pathos dalla coppia Patty  Pravo e Jonny Dorelli. C’è molta attenzione da parte del regista anche nel tratteggiare il carattere dei personaggi, tra cui sicuramente primeggia Penélope Cruz-Clara ingaggiata dal regista lo scorso anno proprio a Venezia, in occasione della presentazione di Madres Paralelas di Almodóvar che le valse la Coppa Volpi: “come tutti i miei lavori, anche L’immensità è un film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla loro relazione con una madre che poteva prendere vita solo nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, la sua sensibilità, la sua straordinaria capacità di interazione con tre giovanissimi non attori”.

A conclusione, tuttavia, anche se L’immensità non potremmo definirlo semplicemente un film sull’identità di genere seppur commuova scoprire in esso una forte componente autobiografica confermata dallo stesso regista, ma piuttosto su certe dinamiche familiari in un’Italia ancora in forte dissenso con la legge divorzile introdotta nel 1970, il film passa sullo schermo senza regalarci le emozioni che ci saremo aspettati, non riuscendo minimamente ad eguagliare la magia di Nuova Mondo e Respiro, né l’urgenza del poetico Terraferma. Crialese apre le porte a molte tematiche senza mai pigiare il piede sull’acceleratore, lasciando tutto in sospeso, generando un senso di non appagamento alla fine della proiezione.

data di pubblicazione:15/09/2022


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IL SIGNORE DELLE FORMICHE di Gianni Amelio, 2022

IL SIGNORE DELLE FORMICHE di Gianni Amelio, 2022

É un film sobrio, raffinato e profondo Il signore delle formiche di Gianni Amelio, a cominciare dal titolo che pone l’accento innanzitutto sull’amore per la ricerca di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) come studioso di mirmecologia, oltre che come filosofo e artista, vissuto e processato sul finire degli anni sessanta per plagio, vittima di un’Italia che ci sembra così lontana, ma che in realtà non lo è, intrisa di perbenismo e cattolicesimo bigotto.

Denunciato dalla famiglia del ventitreenne Ettore (nome di finzione per indicare Giovanni Sanfratello) con l’accusa di averlo plagiato per poi abusarne sessualmente, Braibanti nel 1968 (un paradosso considerando la contestazione collettiva) fu condannato a nove anni di reclusione – poi ridotti a due per i suoi meriti di partigiano – mentre la famiglia del giovane “condannò” Ettore ad una reclusione in ospedale psichiatrico per curare la sua devianza con l’elettroshock. Il film, rispettoso nel ricostruire i fatti di cui Aldo Braibanti rimase vittima, è uno spaccato della società dell’epoca in cui si pensava che “se sei omosessuale, o ti curi o ti spari” (citazione derivante da un ricordo dello stesso regista), e che fosse inutile la protesta per argomenti come l’omosessualità perché “le contestazioni si fanno per il Vietnam non per gli invertiti”.

Amelio ci parla di diritti violati in quanto durante il processo l’opinione pubblica era in accordo con l’accusa, mentre l’avvocato della difesa “rideva” durante le sedute in aula, trovata scenica questa per evidenziare la sua quasi inutilità di fronte ad un epilogo in cui tutto sembrava già deciso. Ma il regista sottolinea anche come la strada per la tutela dei diritti civili in genere sia ancora lunga e dolorosa: nel film, durante una contestazione di giovani nelle fasi finali del processo, c’è un’apparizione di Emma Bonino com’è oggi affinché fosse riconoscibile la sua figura, e ciò non solo per ricordare tutte le lotte per i diritti civili fatte dal Partito Radicale, ma anche per inviare un messaggio molto chiaro ed attuale: le battaglie per la tutela o l’ottenimento dei essi sono importanti e vanno combattute.

Il cast di attori è davvero di livello alto: Lo Cascio e l’esordiente Leonardo Maltese danno prova di grande bravura soprattutto negli assoli; ben centrato anche Elio Germano nel ruolo di Ennio, un giornalista de L’Unità che si reca sovente in carcere a trovare l’imputato più per esortarlo a reagire che per intervistarlo: “il fascismo era reale: deportavano, torturavano, uccidevano. Tutto questo invece mi sembra una farsa.”

Nel 1968, Aldo Braibanti venne condannato in base all’articolo 603 del Codice Penale che perseguiva il reato di plagio: ”chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla a uno stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”. Fu l’unico caso in cui venne applicato, prima di essere abolito nel 1981 perché incostituzionale e pertanto di fatto cancellato dall’ordinamento giuridico penale.

data di pubblicazione:09/09/2022


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BASSOTUBA NON C’E’ di Paolo Nori – Derive Approdi, ristampa 2022

BASSOTUBA NON C’E’ di Paolo Nori – Derive Approdi, ristampa 2022

Un romanzo di formazione del 1999, riscoperto per l’improvviso rilancio di popolarità dell’autore. Ricordate, era il docente di letteratura russa che fu bloccato all’insegna del politicamente corretto per un ciclo di lezioni su Dostoevsky all’altezza dell’avvio del conflitto bellico con l’Ucraina. Nori è anche quello scrittore dato per morto per colpa di un grave incidente stradale. Uscirono coccodrilli e necrologi sulla sua scomparsa, un atto simbolico atto ad allungargli l’esistenza e a spalancargli le porte del successo. Nel romanzo di cui vi parliamo Nori adotta uno stile alla Salinger: scrittura mossa, semplice, accattivante, adatta a tutti. In prima persona, restituendo un mondo padano facilmente intuibile. Un apprendistato gavetta come magazziniere non privo di avventure sentimentali ed erotiche. Come dire, a leggere Nori, a vivere come Nori, non ci si annoia. Un buon viatico per una letteratura troppo spesso vittima di onanismi e di indulgenti auto-assoluzioni. Bassotuba è il soprannome della compagna che scompare, riappare, di nuovo scompare. Un personaggio di cui l’autore sentimentalmente non riesce a fare a meno. Un filo rosso galleggiante che continuamente viene in superficie ed è il bersaglio, vittima, carnefice, di interminabili soliloqui del protagonista. Sorprendentemente simile a Nori. Ma non pensate a un’autobiografia perché l’autore è capace di smarcarsi da immedesimazioni troppo repentine. Il registro del satirico e del grottesco alimenta la narrazioni e ci fa scoprire un autore per vocazione anti-accademico, ottimo affabulatore, un buon compagno di viaggio per scorribande esistenziali fuori dall’ordinario. Che nell’occasione gioca con la fantomatica antipatia per il pensiero debole di Vattimo. Difatti un assistente del professore torinese è quello che gli contende l’amore di Bassotuba. Scherzi della filosofia! Autore di mille risorse, capace di cavarsela efficace mente nella vita, come nella stesura di un libro. E capace di divertire e non stancare il suo lettore.

data di pubblicazione:06/09/2022

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: QUINTA GIORNATA

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: QUINTA GIORNATA

Emanuele Crialese apre la quinta giornata del Festival con il film L’immensità che vede come protagonista Penélope Cruz nella parte di una moglie e madre di tre figli nella Roma degli anni ’70, quando in Italia imperversava Raffaella Carrà con la sua Rumore, ed in TV ballava sulle note di Prisencolinensinalciusol cantata da Celentano.

 

Siamo a Roma, in un nuovo quartiere ancora in costruzione, dove vive una famiglia benestante con tre figli. Al di là di un cannetto sottostante il palazzo c’è un insediamento di baracche dove abitano anche nuclei familiari di operai, probabilmente gli stessi che lavorano nei cantieri della zona. Clara e Felice si sono da poco trasferiti nel loro nuovo appartamento, ma è palese che il loro matrimonio è al capolinea: niente li lega più se non il fatto di avere tre figli, tra cui la dodicenne Adriana detta Adri, che vorrebbe che tutti la chiamassero Andrea. Clara è l’unica a non ostacolare la figlia, seguendola in questo suo “percorso” con gioia e fantasia, sino a diventare lei stessa un essere ingombrante per il marito, autoritario ed infantile, e per l’intera famiglia di lui. Il regista, in questo suo nuovo film, ha dato un ruolo decisamente centrale alla scelta musicale, inserendo canzoni che sono state la colonna sonora di quegli anni, a cominciare dal titolo stesso; sul finale è sapiente la scelta della cover di Love Story (mirabilmente cantata dalla coppia Patty  Pravo e Jonny Dorelli) interpretata da Clara ed Adriana. C’è molta attenzione anche nel tratteggiare il carattere dei personaggi, tra cui sicuramente primeggia Penélope Cruz-Clara ingaggiata dal regista lo scorso anno proprio a Venezia, in occasione della presentazione di Madres Paralelas di Almodóvar che le valse la Coppa Volpi. Anche se L’immensità non potremmo definirlo semplicemente un film sull’identità di genere ma piuttosto su certe dinamiche familiari in un’Italia ancora senza divorzio, in cui si imparava ben presto a tacere e ad abbozzare tra le mura domestiche, tuttavia non riesce minimamente ad eguagliare la magia di Nuovo Mondo e Respiro, né l’urgenza del poetico Terraferma, seppur commuova scoprire in esso una forte componente autobiografica confermata dallo stesso regista.

L’ultimo film visto a Venezia per Accreditati è stato Les enfants des autres di Rebeca Zlotowski. In esso si narra di una quarantenne insegnate di liceo, Rachel (Virginie Efira), che non ha figli e segue con molto interesse i propri allievi, soprattutto studiando le loro attitudini per indirizzarli nel mondo del lavoro; la donna come svago prende saltuariamente lezioni serali di chitarra e a volte viene accompagnata dal suo ex compagno con il quale ha mantenuto un cordiale rapporto di amicizia. Durante una di queste lezioni conosce Alì e se ne innamora. L’uomo è separato ed ha una figlia, Leila, di 4 anni con la quale Rachel, seppur senza difficoltà, riesce a stringere un legame molto intenso, fatto anche di quelle cure che una madre mette in atto con un figlio proprio. Rebeca Zlotowski, quarantaduenne regista e sceneggiatrice francese, dichiara di aver girato il film che lei stessa avrebbe voluto vedere al cinema su una quarantenne senza figli che si innamora di un padre single; mentre cerca i trovare spazio nella famiglia dell’uomo, incomincia a sentire il desiderio di avere una famiglia sua. Ma da personaggio tradizionalmente in secondo piano… è costretta a scomparire con la fine della storia d’amore.

Di fronte a tante pellicole che “urlano” urgenze, questo film sussurra con un linguaggio semplice ed essenziale un tema niente affatto secondario, su quanto senso materno ci sia in alcune “madri secondarie” a cui la vita non ha concesso di essere genitrici. Tra i tanti modi di esplorare le cure legate alla maternità o al desiderio di essa, il film dimostra che queste non sono di appannaggio esclusivo delle sole madri nei confronti dei propri figli, ma quasi un’essenza dell’essere femminile anche verso quei figli che, come dice la protagonista, fanno tanto penare i veri genitori per compensare la gioia di averli avuti.

E senza voler svelare altro della storia, lo spirito che si coglie nel visionare la pellicola è esplicitato sul finale dalla scelta, decisamente vincente, della versione cantata da George Moustaky di Les eaux de Mars.

Andate al cinema!

data di pubblicazione:05/09/2022

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: QUARTA GIORNATA

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: QUARTA GIORNATA

Al quarto giorno di Festival arrivano due film che, seppur non debbano essere necessariamente annoverati tra i più belli visti sino ad ora, li potremmo definire “circolari”: con un inizio, una fine ed una parte centrale che genera sorprese e colpi di scena. Il primo parla di eventi realmente accaduti e dunque il coinvolgimento emotivo del pubblico è più immediato (anche se non scontato); il secondo invece è una storia inventata, ma da parte di chi le storie le sa inventare. Entrambi pare che in sala abbiano incontrato il favore del pubblico.

Argentina, 1985 del quarantenne Santiago Mitre, con un cast di attori molto bravi tra cui primeggia Ricardo Darín, è un film ispirato ad eventi realmente accaduti come il titolo stesso suggerisce. Due procuratori, il navigato Julio Strassera ed il giovane ed inesperto Luis Moreno Ocampo, vengono incaricati dalla procura di indagare sulle atrocità commesse durante la dittatura militare di Videla con lo scopo di perseguirne i responsabili. La fase della creazione del pool è la più difficile perché in procura quasi la totalità è ancora simpatizzante con l’ideologia fascista. I due procuratori allora decidono, contro il parere di tutti, di creare un team formato interamente da giovani inesperti e disoccupati, per arrivare con le loro indagini proprio al cuore delle nuove generazioni e schivare la diffidenza dei più anziani. Il film ha una carica di ironia incredibile ed è uno di quei classici esempi di coralità, in cui la bravura di tutti gli attori porta ad una vera e propria esplosione sul finale, lasciandoci con il gusto della vittoria raggiunta addosso: “ricordo ancora il giorno in cui Strassera formulò l’atto di accusa: il boato dell’aula del tribunale, l’emozione dei miei genitori, le strade finalmente in grado di festeggiare qualcosa che non fosse un partita di calcio, l’idea di giustizia come un atto di guarigione”.

Il secondo film della giornata è Master Gardener di Paul Schrader che ne ha curato anche la sceneggiatura e che quest’anno a Venezia è stato insignito del Leone d’Oro alla carriera: sono suoi, tanto per citarne alcuni, American Gogolò, Il bacio della pantera come regista e Taxi Driver, Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo come sceneggiatore. Master Gardener è uno di quei film con i tempi giusti, con una sceneggiatura accurata ed un’aria rarefatta che ci fa stare sempre un po’ con il fiato sospeso, dialoghi essenziali dai quali si scoprono cose grandi, attori di livello: un insieme insomma che fa la differenza. Narvel Roth (Joel Edgerton) è il maestro giardiniere al Gracewood Gardens, una tenuta con tanto di giardini e dimora storica di proprietà di Mrs. Norma Haverhill (Sigourney Weaver) ricca ereditiera vedova e senza eredi diretti. I giardini sono molto famosi, e la responsabilità che tutto sia curatissimo è di Narvel che coordina una piccola squadra di giovani giardinieri apprendisti. Tutto cambia quando Mrs. Norma chiede a Narvel di assumere come apprendista la sua pronipote Maya, ragazza ribelle ed unica erede dell’intero patrimonio. La figura di Narvel è il fulcro del film ed è sapientemente tratteggiata, e l’arrivo di Maya farà accadere qualcosa nella vita di quest’uomo schivo e silenzioso che metterà in discussione un presente così meticolosamente organizzato, fatto di tante certezze, facendo riemergere un passato inimmaginabile.

data di pubblicazione:04/09/2022

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: TERZA GIORNATA

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: TERZA GIORNATA

La terza giornata del Festival di Venezia 2022 è quella del nostro Luca Guadagnino con il suo Bones and All in Concorso, interpretato dall’attesissimo Timothée Chalamet, assieme a Taylor Russel e Mark Rylance.

Ambientato nel centro America all’epoca di Reagan (ma l’epoca è assolutamente irrilevante), narra del primo amore di due esseri “speciali”, Maren e Lee, entrambi vagabondi, due diseredati che vivono ai margini della società, tema che ha affascinato il regista durante il periodo del lock down al fine di indagare i modi e i varchi che si possono aprire a persone come i due protagonisti nonostante le impossibilità che il loro modo di vivere e di essere imprime alle loro vite. E se il cinema è finzione, Guadagnino con questo film ha amplificato il concetto per esprimere, attraverso il cannibalismo di cui sono affetti i personaggi, l’isolamento in cui sono costretti a vivere e l’inevitabile crisi di identità che li travolge. Le scene a cui si assiste sono molto esplicite e solo chi riesce ad andare oltre quella che è una visione molto cruenta, può vedere ciò che c’è dietro tutto questo, cogliendo l’urgenza di un messaggio così “gridato”. Non siamo tutti uguali soprattutto quando siamo intrappolati in qualcosa che non riusciamo a controllare, ma l’amore per Guadagnino vince su tutto, anche su diversità così esasperate perché riesce ad aprire delle porte che sino ad allora sembravano invalicabili. Bones and All ci sferra forti pugni nello stomaco sino a farci stare male. Inutile sottolineare che gli attori sono superbi e le ambientazioni perfette. Il pubblico deciderà se era necessario tutto questo: chi vi scrive ci sta ancora pensando…

Il secondo film della giornata, anch’esso in Concorso, è Monica di Andrea Pallaoro, che si conferma regista sensibile e profondo nel tornare su tematiche legate a personaggi femminili tormentati da segreti e paure, come fu per il suo splendido Hannah con la strepitosa Charlotte Rampling; questa volta il personaggio è una giovane donna che fa ritorno a casa dopo aver abbandonato la sua famiglia in età adolescenziale; ne viene tratteggiato un ritratto intimo, molto profondo, autoriale, e toccati temi come l’abbandono, l’accettazione ed il riscatto. Ritorna anche in questa pellicola il tema dell’identità e soprattutto della sua precarietà, una sorta di fil rouge di questa edizione del Festival, espressa nei modi più disparati attraverso la sensibilità e la genialità dei registi: ”ci siamo addentrati nel mondo emotivo e psicologico di Monica per riflettere sulla natura precaria dell’identità di ciascuno di noi quando viene messa alla prova dalla necessità di sopravvivere e trasformarsi”.

data di pubblicazione:03/09/2022

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: SECONDA GIORNATA

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: SECONDA GIORNATA

La seconda giornata del Festival di Venezia 2022 è caratterizzata da un’altra pellicola in Concorso molto attesa: si tratta di BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades di Alejandro G. Iñárritu.

Il regista messicano affronta la crisi di identità di Silverio, un noto giornalista e documentarista messicano, che vive oramai da 15 anni a Los Angeles con la moglie e i loro due figli: ce ne sarebbe anche un terzo di nome Mateo, ma è meglio non rivelare questa ed altre “sorprese” di cui il film è particolarmente ricco. Silverio torna con moglie e figli nel suo paese per ritirare un prestigioso premio internazionale, ma il viaggio sarà rivelatore di ricordi, fantasmi e paure da affrontare, ed anche portatore di idee politiche contrastanti che gli faranno amare ed odiare alternativamente sia il paese che lo ha accolto ma anche quello da cui proviene. Travolto da una vera e propria crisi di identità, il protagonista reagisce nascondendosi e non concedendo interviste, scontentando la sua gente e gli amici che vogliono festeggiarlo. Il film è una vera e propria maratona (dura quasi 3 ore!) che ci fa viaggiare nel mondo interiore ed esteriore di Silverio: le domande che il regista fa porre al suo protagonista non sono solo intime ma universali e mettono in evidenza interrogativi complessi, che abbracciano il vissuto di Silverio ma anche la storia del suo paese. Le produzioni Netflix, come questa, hanno sovente la caratteristica di essere interminabili e sorge spontanea la domanda di quanto l’aspetto commerciale dell’avvento delle piattaforme abbia in qualche modo danneggiato il prodotto finale, in quanto i tagli che una volta probabilmente i produttori ed i distributori imponevano ai registi, in qualche caso “salvavano” le pellicole da un inevitabile lungaggine che “diluisce” l’aspetto artistico della pellicola stessa di cui anche il film di Alejandro G. Iñárritu, pur essendo una pellicola d’autore con immagini e battute di assoluta genialità, ne è rimasto inevitabilmente vittima.

Per la sezione Orizzonti è decisamente da segnalare il film giapponese di Kei Ishikawa dal titolo Aru Otoko (Un uomo): anche in questa pellicola si affronta il tema dell’identità da cui si fugge, che si vuole cambiare perché, come lo stesso regista ha dichiarato, ogni essere umano è fatto di tante componenti che si possono amare o odiare. Rie è una giovane donna separata con un bambino piccolo che porta lo stesso nome di un altro figlio morto a soli 2 anni per un tumore. Nonostante la sua triste esistenza, la vita riserva alla donna una seconda opportunità: incontra il giovane e gentile Daisuke di cui si innamora, ben presto creeranno una famiglia insieme e dal loro matrimonio nascerà anche una bambina. Ma la morte improvvisa di Daisuke le farà scoprire delle sconcertanti verità sull’uomo che amava. Il film induce a riflessioni molto interessanti e gli interpreti sono davvero bravi (soprattutto l’attore che interpreta l’avvocato che si dovrà occupare di scoprire la vera identità del defunto): fondamentalmente ci fa scoprire come il dato di fatto e la verità non sempre sono combacianti e che spesso, scoprire verità nascoste, non sempre rappresenta un elemento per cancellare quanto di buono si è vissuto o per cambiare il giudizio sulla persona amata.

Ultima pellicola della giornata, anch’essa in Concorso, è francese dal titolo Un couple del regista Frederick Wiseman e tratta della relazione durata quarantotto anni tra Leo Tolstoj e sua moglie Sofia detta Sonja, donna di origini nobili, di forte temperamento, assidua copista delle opere del marito e sua amministratrice. La coppia ebbe tredici figli, alcuni dei quali morirono, e Sofia li allevò tutti personalmente. Entrambi erano soliti scrivere un diario e Leo pare che la prima notte di nozze lesse il suo, ricco di particolari intimi, alla diciottenne sposa. Il film si basa sulle lettere che si scrissero e sul contenuto del diario di Sofia. Girato in Bretagna nel giardino La Boulaye, sull’isola di Belle Île, il film gode di una ambientazione perfetta ed ha una impostazione teatrale nella forma di monologo: il pregio è di portare a conoscenza attraverso le pagine di un diario i sentimenti contrastanti della lunghissima vita coniugale dei coniugi Tolstoj irta di crisi e litigi che portarono sovente lo scrittore a voler abbandonare la famiglia, ma che sicuramente fu un elemento importante per la stesura delle sue opere.

data di pubblicazione:02/09/2022

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: FILM DI APERTURA

79. MOSTRA INTERNAZIONALE d’ARTE CINEMATOGRAFICA di VENEZIA: FILM DI APERTURA

Il Festival di Venezia 2022 apre le sue porte e, nonostante il sistema di prenotazione delle proiezioni abbia creato non pochi problemi, i film ripagano pienamente i disagi di un sistema che si spera venga abbandonato presto per tornare a quelle splendide file sotto il sole del Lido, alle chiacchiere che precedono le proiezioni e ai commenti che le seguono: a quello che potremmo definire il romanticismo di una kermesse così importante che i tempi moderni, traghettati dal covid, hanno un po’cancellato.

 

Apre la 79ma edizione del Festival Noah Baumbach con il suo White Noise, film ambizioso ricco di riflessioni su dubbi e ossessioni, paure sulla vita e sulla morte, interpretato da Greta Gerwig, moglie di Baumbach, interprete e cineasta di pregio, e il bravissimo Adrian Drive alla sua quinta esperienza con il regista, che già nel 2019 era presente al Lido con Marriage Story dello stesso Baumbach, e che in un certo senso con White Noise replica tematiche legate anche agli affetti e al rapporto di coppia. Seppur ambientato negli anni ’80, ai tempi di Reagan, è lampante il riferimento alla contemporaneità che stiamo vivendo e nella quale ci riconosciamo, ma non abbastanza da renderlo “coinvolgente”, empatico. Un buon esercizio di regia, algido e a tratti autoreferenziale, con sprazzi di genialità che non riescono tuttavia a reggere l’intera durata della pellicola. Empatia e commozione profonda invece giunge dal film che apre la sezione Orizzonti, Princess di Roberto De Paolis, alla sua seconda prova da regista, che vede Rai Cinema tra i produttori e Lucky Red come distributore. E’ un film potente, originale e di grande spessore, che non parla solo di immigrazione clandestina e prostituzione, ma di anima, narrando una storia che nasce da dentro, con una assenza assoluta di ogni genere di giudizio morale, con linee difficili da tratteggiare e raccontare, che vanta tra i protagonisti attori veri e ragazze nigeriane realmente strappate alla vita di strada. Questi si muovono come equilibristi in modo esemplare, creando quell’empatia in una storia che ha i tratti del documentario ma che è un film a tutti gli effetti, anche se con ruoli capovolti, in cui i veri attori “assecondano” la vita di Glory Kevin e delle altre ragazze. “Ho costruito Princess fondendo il mio punto di vista con quello di alcune ragazze nigeriane, vere vittime di tratta, che hanno scritto con me e poi hanno interpretato se stesse”. Il messaggio del film potremmo sintetizzarlo nel concetto che ognuno deve salvarsi da solo, ma per farlo ci vogliono le condizioni; ed anche se alcuni incontri, come quello di Princess con il personaggio interpretato da Lino Musella (bravissimo assieme agli altri due interpreti Salvatore Striano e Maurizio Lombardi) possono fare aprire gli occhi alla protagonista perché carichi di un istinto positivo, non le regala tuttavia tutti quegli elementi necessari per liberarsi dalle catene. Il film ci insegna sul finale che ci vuole una spinta interiore per romperle quelle catene, che ci inchiodano ad una vita in cui si crede che sopravvivere sia vivere. Tra i film Fuori Concorso è sicuramente da segnale Living, ovvero il capolavoro di Kurosawa Ikiru “reimmaginato” dal regista sudafricano Oliver Hermanus, con una accuratissima sceneggiatura di K.Ishiguro. Film poetico, umano, lieve, Living è la storia di un uomo ordinario che decide, in seguito ad un evento che stravolgerà la sua vita, di fare qualcosa in extremis per poter dare un senso alla sua esistenza grigia, vissuta in un angolo, decidendo di vivere appunto. Magnificamente interpretato dall’attore inglese Bill Nighy ed ambientato in una Inghilterra degli anni ’50, il film è piacevolmente lento per apprezzarne le innumerevoli sfumature, e tutte quelle piccole cose che assumono così dimensioni immense. Ma la prima giornata della 79ma edizione del Festival del cinema di Venezia si conclude con la divina Cate Blanchett e la sua stupefacente interpretazione di Lydia Tár nel film TÁR  di Todd Field presentato in anteprima alla stampa, incentrato sulla figura della prima donna della storia a divenire direttore di una delle più importanti orchestre tedesche. Il film è stato scritto per la sua protagonista che conferma la sua immensa bravura in una maratona di 2 ore e 40 minuti senza mai fare un passo falso, con una interpretazione che già profuma di candidatura all’Oscar. Peccato che nel film ci sia… una assenza totale di musica. Una vera e propria contraddizione: occasione mancata? Il pubblico deciderà.

data di pubblicazione:01/09/2022

CRIMES OF THE FUTURE di David Cronenberg, 2022

CRIMES OF THE FUTURE di David Cronenberg, 2022

In un futuro distopico, l’enigmatico Saul Tenser si esibisce di fronte ad un folto pubblico, accompagnato dalla sua assistente Caprice, in ciò che si potrebbe definire una body performance. Con godimento e compiacimento l’uomo si sottopone a una ripetuta espiantazione di nuovi organi che lui stesso genera all’interno del proprio corpo. L’umanità sta coscientemente affrontando un lento processo evolutivo e il nuovo organismo, geneticamente modificato, si sta così adattando a nutrirsi di scarti di materiale plastico opportunamente rielaborato.

Dopo alcuni anni di preoccupante silenzio ritorna sul grande schermo il cineasta canadese David Cronenberg (Toronto, classe 1943) con il suo nuovo Crimes of The Future, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes. Cronenberg, in questo suo ultimo lavoro, ricalca per grandi linee il soggetto del suo omonimo film del 1970 in cui già si potevano riscontrare i temi caratteristici della sua singolare produzione.

Il corpo umano, con gli organi che lo costituiscono al suo interno, è oggetto e soggetto di una continua evoluzione che comporta un doversi necessariamente adattare a prevedibili mutazioni della specie umana. L’uomo diventa così carne da macello sottoponendosi beatamente ad interventi chirurgici poiché oramai è annullata la soglia del dolore. Il lavoro di Cronenberg, del resto, è incentrato sul corpo e sulle sue provocate deformazioni, ciò che è brutto e doloroso diventa fonte di piacere e puro nutrimento dell’anima. Gli stessi valori basici vengono ora sovvertiti e sacrificati in virtù di una nuova etica comportamentale: uccidere è la soluzione più semplice ma non ci sono colpe da espiare. Tutto cambia e le relazioni interpersonali sono in funzione del mostrarsi interiormente perché ciò che conta è il bello interiore, l’arte ridisegnata sui propri organi, anch’essi in continua metamorfosi. Anche il piacere corporeo diventa per Cronenberg pretesto per sovvertire ogni formula tradizionalmente costituita e una alterazione corporea o una semplice cicatrice possono diventare zona erogena e fonte di appagamento sessuale. Tutti i personaggi, e tra questi i due protagonisti Viggo Mortensen nel ruolo di Saul e Léa Seydoux in quello di Caprice, si muovono in un mondo polveroso e arrugginito dove il passato, oramai remoto, deve ancora imporsi per riaffermare i propri valori in un futuro ancora incerto, dove si fa fatica ad identificarsi.

Un film certamente di nicchia destinato a cinefili raffinati che non si fermano certo alle immagini esteriori, talvolta disturbanti, ma che vanno oltre per ricercare ogni nuova forma di arte concettuale, al di là dell’immagine estetica in senso tradizionale. Con Crimes of The Future, Cronenberg sembra raggiungere il punto di arrivo del suo percorso creativo caratterizzato da una rivoluzione e un sovvertimento di ogni linguaggio visivo: in lui c’è la volontà di sottrarre il cinema ad ogni vincolo formale e culturale per spingere lo spettatore a guardarsi dentro e ritrovare forse quella bellezza interiore svalutata se non addirittura ignorata.

data di pubblicazione: 30/08/2022


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