da Flora Ferrara | Feb 13, 2023
La moda ripropone continuamente stili, modelli, forme dal passato. Si dice segua un movimento circolare, o meglio a spirale, in cui elementi della moda di decadi o secoli fa ritornano dopo un certo periodo e ispirino il presente e qualcosa di nuovo, o che cerca di esserlo, viene quindi prodotto (foto tratta dalla Mostra Pier Paolo Pasolini TUTTO È SANTO al Palazzo delle esposizioni di Roma).
Sono gli archivi di moda i custodi di questo patrimonio storico. Ogni anno gli stilisti fanno dei fulminei pellegrinaggi per guardare, studiare, toccare abiti e stoffe conservati attentamente per decenni e così lasciarsi ispirare per le loro imminenti collezioni. Siano essi archivi di impresa o archivi indipendenti di collezioni private poco importa perché in entrambi i casi sono ambienti alquanto esclusivi. Per ragionevoli questioni pratiche (conservazione, spazi, diritti d’autore, privacy) ma anche, probabilmente, per creare l’immagine romantica di misteriosi sancta sanctorum della moda dove vengono conservati i segreti del savoir-faire di un’azienda. Solo raramente possono essere visitati ma in ogni caso mai nella loro interezza (e sempre previo appuntamento ça va sans dire).
Dopotutto, per il pubblico più profano ci sono sempre i musei dedicati e le mostre a tema che catturano l’immaginazione con una varietà di artefatti e di mezzi espressivi (videoproiezioni, schermi interattivi, musica di sottofondo e chi più ne ha più ne metta) che creano esperienze di visita sempre più immersive. Gli abiti non sono meramente montati su tristi manichini senza vita ma diventano i protagonisti di scene evocative o vignette cinematiche il cui scopo è quello di lasciare a bocca aperta il visitatore. Come all’ultima mostra del Metropolitan di New York, In America: an Anthology of Fashion, per il cui allestimento sono stati chiamati a lasciare il proprio imprinting registi come Martin Scorsese, Sofia Coppola, Regina King, Chloé Zhao e l’eclettico Tom Ford.
Ci sono però più spettatori che guardano film e serie tv che visitatori nei musei e nelle gallerie, e sicuramente molti di più di coloro che frequentano gli archivi di moda (nel 2020, il 27.3% della popolazione italiana ha frequentato musei e mostre mentre il 45.3% è andato al cinema, Istat). Il guardare al passato per molti dunque avviene tramite il guardare uno schermo. E il cinema ha un legame stretto con la storia: fin dalle sue origini ha sempre avuto una forte inclinazione per le grandi rievocazioni con i primi kolossal e le trasposizioni di importanti classici della letteratura. E fin da subito (come nella storia dell’arte prima di esso) uno degli strumenti per comunicare il periodo storico allo spettatore è proprio il costume.
A quanti è capitato di ricordare, di leggere, di sentir parlare di un evento storico, un periodo e subito pensare a un film ambientato in quell’epoca?… Un illustre esempio? Se si parla di Risorgimento, come non pensare alle grandiose immagini create da Visconti con Senso e Il Gattopardo? E intrinsecamente anche i meravigliosi abiti a crinolina di Piero Tosi. Si potrebbe dire che il costume può innestare e coltivare una familiarità visuale con l’abito storico, indipendentemente dalle conoscenze dello spettatore, andando a formare una memoria collettiva di moda. Il costume mostra l’esperienza fisica dell’abito di un certo periodo – come veniva indossato, come si muoveva. (Ci sarebbero poi le questioni della loro accuratezza e di come la moda del presente del film si imponga nella ricostruzione storica ma sono temi per altri post).
Per concludere, se della storia della moda l’archivio è il custode, il cinema ne è il divulgatore più capillare che con la sua narrazione contestualizza anche gli usi e le convenzioni sartoriali del passato. Succede poi che i film e i costumi stessi diventino le muse della moda…creando un meraviglioso circolo virtuoso.
data di pubblicazione:13/02/2023
da Rossano Giuppa | Feb 13, 2023
(Sacriparte Art Gallery – Via Panisperna 59 – Roma, 2/26 febbraio 2023)
Tema della mostra performativa è il rapporto tra arte e sartoria ieri e oggi. Le sale della Sacripante Art Gallery ospitano le opere pittoriche di Eugenio Carbone couturier cosentino che lavorò con Germana Marucelli e le Sorelle Fontana e la preview della collezione primavera/estate de Le Gallinelle, il brand della designer Wilma Silvestri.
Il sarto oggi è quella figura professionale in grado di interpretare i figurini dello stilista. I grandi sarti di una volta racchiudevano in se le figure di stilista, modellista, sarto, consulente. capaci di realizzare direttamente con il tessuto, di ideare varianti, modificare dettagli, fare accorgimenti, sviluppare cartamodelli, prototipi, togliere difetti, disegnare, ricercare tessuti e accessori e ogni altra mansione necessaria allo svolgimento di questa arte.
Il compianto Eugenio Carbone ha creato capi couture realizzati con metodo sartoriale, unendo la tecnica della sartoria, la duttilità dello stylist e le capacità artistiche espresse anche attraverso la pittura. Oggi c’è nell’aria il ritorno di questa figura di couturier che crea capi unici non solo, un nuovo Rinascimento a cui si ispirano le creazioni attuali di Wilma Silvestri, Le Gallinelle.
In una sala della galleria Sacripante Wilma reinterpreta i canoni della pittura rinascimentale ispirandosi al pittore Cosmé Tura, attraverso un quadro vivente animato da modelle performer protagoniste di una celebrazione della Speranza e della Trasformazione attraverso l’unicità e l’artigianalità. La designer gioca con dettagli di biancheria intima vintage e con tagli ispirati alla storia del costume e trasformati in gusto e forme proprie. Continua l’impegno per la sostenibilità usando tessuti vintage e in particolare alcuni provenienti da San Leucio, piccolo paese in provincia di Caserta che vanta una storia incredibile di arte della tessitura risalente a Ferdinando IV di Borbone.
La performance è stata inserita nel calendario ufficiale di AltaRoma e presentata a stampa e buyer il 2 febbraio alle ore 19.
data di pubblicazione:13/02/2023
da Paolo Talone | Feb 12, 2023
(Centrale Preneste Teatro – Roma, 4 febbraio 2023)
Unica data per il nuovo lavoro della coppia Piscopo/Carrozzi. In scena al Centrale Preneste Teatro per la rassegna “La city è donna” il monologo che vede protagonista Anna Piscopo nei panni di Calimba, una donna che vive sepolta in casa da anni in cerca di riscatto.
Cianfrusaglie ovunque, vestiti, carte, una valigia. Un cellulare e una lampada ring light per registrare video da postare sui social, tutto rigorosamente rosa. Il personaggio di Calimba, una donna del sud che si è trasferita nella capitale, appare in scena cercando di farsi spazio tra la miriade indefinita di oggetti che riversano a terra nel suo appartamento. Si respira un’aria di trasandatezza e sciatteria anche nei vestiti che indossa: un paio di scarponcini rosa dal tacco grosso, leggings e reggiseno. Si sta preparando per incontrare Papi, il boss di un Cartello conosciuto in chat con il quale sembra dover passare la serata e forse il resto della vita. Dopotutto sono dieci anni che non esce di casa. Sogna un riscatto, un’occasione che la porti via dal condominio ostile in cui vive. La sua condizione disturba chi le vive intorno e a minacciare la sua apparente sicurezza arriva anche una notifica dalla Asl di sfratto esecutivo.
Prodotto da BAM teatro e Nutrimenti Terrestri, il terzo lavoro portato in scena dalla coppia Piscopo/Carrozzi, dopo “Vai a rubare a san Nicola” e “Mangia” (2020), riflette sulla disperata condizione di chi è affetto da disturbo da accumulo e di chi, inacidito da una società che tende a isolare chi ha problemi, vive ai margini. L’odio per le persone viene compensato dall’estremo attaccamento agli oggetti, che diventano i suoi affetti più cari. Primo fra tutti una parrucca di ricci rosa nella quale vede un cagnolino che si trascina dietro al guinzaglio. La vita non è stata gentile nei suoi confronti, tanto da portarla a pensare che sia lei stessa un oggetto tra gli oggetti. Una patata cruda che rimane sullo stomaco di chi la mangia.
L’unica arma di difesa dal mondo esterno è il sarcasmo e un modo di fare ironicamente aggressivo che allontanano chiunque venga a contatto con lei. Gli sketch che mette su con energia e indiscussa bravura Anna Piscopo sono esilaranti, anche se ricalcano una comicità già collaudata (non si può non pensare a Franca Valeri e simili quando Calimba affronta al telefono un operatore della Asl o chi le propone di partecipare a un programma televisivo per vagabondi e senzatetto, con la sua parlata mista tra dialetto pugliese e inflessione romanesca). Non si limita a vivere il disordine dentro casa, ma vuole mettere in subbuglio anche il mondo fuori di lei. Lo spazio dato alla comicità però diventa dominante, a discapito di una ricerca più approfondita che poteva interessare il personaggio. Di Calimba ci è ben chiara la condizione che vive, ma oltre questo non conosciamo molto delle ragioni che la guidano. Il testo racconta delle burrasche del passato, ma questo da solo non basta a dare struttura al personaggio. Tuttavia, anche il modo di affrontare la vita con sarcasmo e sfrontatezza è un modo per esprimere il proprio desiderio di Vivere!
data di pubblicazione:12/02/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 11, 2023
(Teatro India – Roma, 7/12 febbraio 2023)
Teatro nel teatro con un titolo che rimanda al topos scespiriano ma anche edoardiano. Sperando di non farsi suggestionare dai luoghi comuni di Marzullo.
Un attore dedito a una facile commercializzazione del proprio lavoro si confronta con due interlocutori irrisolti: la figlia che rimprovera al padre l’abbandono, l’allievo che si specchia con ammirazione nel maestro e cerca di ripercorrerne le orme, provando a instaurare un rapporto dialettico, a tratti paritario. In scena non tutte le ciambelle riescono con il buco. La scenografia minimale a disposizione dell’indubbia bravura di Carpentieri non raccoglie palpiti perché i due partner non reggono il gioco con adeguata maestria. L’attrice sfoggia una voce metallicamente monocorde che ci impedisce di entrare nella sua sfera emotiva. Così è un’occasione sprecata per tanto talento, Perché quando il protagonista distilla perle del teatro classico quasi spereresti che si abbandonasse a un lunghissimo monologo. Certo, non erano queste le intenzioni di autore e regista che volevano dare vita a una storia compiuta. Il finale tronco e inaspettato è un altro imprevedibile strappo incoerente. Così i dialoghi a volte si animano ma poi ricadono nella piattezza banale non riuscendo a dare continuità allo sviluppo. Stoffa cucita male, un po’ rattoppata all’ombra del mattatore La magia del teatro si annusa a tratti ma non ammalia come ambirebbe nella sua dichiarazione programmatica di scena. Di diverso avviso evidentemente il pubblico stregato dall’indubbio carisma di Carpentieri. Il Teatro India dal giorno dell’apertura si dibatte nella consueta provvisorietà: parcheggio impossibile, bar ai limiti della presentabilità, spazi teatrali non utilizzati, peraltro ben in linea con la fatiscenza di chi lo gestisce (vedi anche stallo del Teatro Valle, molto più funzionale e vivo quando era occupato).
data di pubblicazione:11/02/2023
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 9, 2023
Nicholas, appena diciassettenne, a due anni dal divorzio dei genitori sembra ancora non abituarsi all’idea. Caduto in una forma acuta di depressione, manifesta il proprio disagio rifiutando qualsiasi contatto con la vita sociale, sia in ambito scolastico sia nei confronti dei genitori, sempre più preoccupati della sua salute mentale. Intanto il padre ha costruito per sé una nuova famiglia e da avvocato di successo sta per entrare in politica, a fianco di un senatore in lizza per le primarie…
Florian Zeller, drammaturgo francese, dopo il successo internazionale ottenuto con il film The Father (nel 2021 due premi Oscar: a Anthony Hopkins come migliore attore protagonista e allo stesso regista per la migliore sceneggiatura non originale) ritorna con The Son ad affrontare i temi, a lui cari, dei disturbi mentali e dei rapporti all’interno della famiglia. Nel primo film, anch’esso tratto da una pièce teatrale dello stesso Zeller, si affrontava il legame problematico tra un padre, affetto da Alzheimer, e sua figlia. In questo ultimo lavoro, invece, il regista affronta un problema inverso: un figlio che, nonostante i vari tentativi, non riesce più a riconoscere i genitori e ad accettare che la vita possa andare avanti anche dopo la loro separazione. La sua mente rifugge da questa idea e non riesce più a concepire di vivere come una persona “normale”, in un contesto del tutto normale. Vani gli sforzi da parte del padre di affrontare un dialogo costruttivo e di comportarsi come un buon genitore, attento ai problemi del figlio, esattamente l’opposto di quello che aveva fatto suo padre, disinteressandosi totalmente di lui. Ecco che ancora una volta il regista si sente emotivamente coinvolto nel rappresentare tutti gli elementi di un dramma familiare oltre che individuale. Ottima l’interpretazione dei due protagonisti: Hugh Jackman nella parte di Peter, il padre del ragazzo, e il premio Oscar Laura Dern nella parte della madre Kate, attrice californiana poliedrica che ha lavorato con i registi più famosi di Hollywood, tra questi David Lynch, Clint Eastwood, Robert Altman e Steven Spielberg. Assolutamente di tutto rispetto anche l’interpretazione dell’esordiente Zen McGrath, nel ruolo di Nicholas, giovanissimo attore australiano che sa bene interpretare il non facile personaggio dell’adolescente depresso al quale oramai tutto sfugge di mano. Il regista, nel curare anche la sceneggiatura, è stato attento a mostrare in termini asciutti le dinamiche, spesso incontrollabili, all’interno della famiglia, anche nei casi in cui tutto sembra andare avanti nel migliore dei modi. Qui l’amore genitoriale non risulta più sufficiente a colmare il baratro del disagio mentale del giovane Nicholas. Il film, presentato in concorso nell’ultima edizione del Festival di Venezia, è stato accolto benevolmente dalla critica internazionale.
data di pubblicazione:09/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 9, 2023
(Teatro Il Parioli Roma, 8/12 febbraio 2023)
Un Cechov scrupolosamente rispettato nella trama ma con la volontà di movimentare la scena con andamento mosso e persino qualche acrobazia. Bizzarrie di scena che non stonano rispetto alla tradizione. Cederna, l’attore di punta è inserito in un ensemble affiatato e di sicura affidabilità.
Il politicamente corretto in chiave bellica non ha tarpato le ali alla proposta cechoviana dell’innovativo teatro di Roma nord. Lo spettacolo restituisce il mood del cambiamento: dalla società agricola che vive sulla rendita a un qualcosa di profondamente diverso che si intuisce ma che non si riesce definire. Al centro delle contraddizioni Zio Vanja (a cui pesa l’incipiente vecchiaia) e una serie di amori frustrati e non corrisposti, sommersi dalla cappa dei matrimoni borghesi naturalmente insoddisfacenti. S’intuisce che molti dei sette personaggi in questione hanno voglia di trasgressione ma la mancata corresponsione decreta uno stato di perenne disagio, Particolarmente vistoso in zio Vanja che prorompe in un tentativo di omicidio dell’odiato professore e poi nell’aspirazione al suicidio tramite una fiala di morfina. Due tempi lunghi il giusto per sfiorare la mezzanotte, avvicinandosi all’abdicazione del pulsare delle passioni che restituisce, con la partenza degli ospiti, un clima di pace e di rassegnazione. Bisogna passare il tempo, trascorrerlo lavorando anche se se Sonja affida su un altalena agli astanti un messaggio profondo di speranza nella religione. Vanja intanto compone i testi di alcune fatture tornando nei ranghi di un’apparente normalità. In fondo lo spettacolo è la metafora di come una passione si ridimensioni nella normalità, spenta dal lento digradare dell’esistenza. Felicità e un migliore futuro sono indefinitamente lontani. E chissà mai se torneranno, come gli anni della gioventù.
data di pubblicazione:09/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 8, 2023
La definizione di thriller sentimentale è la più adatta per l’ennesimo prodotto bizzarro ma interessante della nuova cinematografia coreana, già premiata con Parasite. Ci si deve orizzontare in coordinare spazio temporali insolite per lo spettatore europeo ma con gradevolezza e senza eccessiva fatica.
Un irreprensibile detective cade nella ragnatela di una dark lady, adusa a perdere troppi mariti per non essere sospettata. Dunque la trama poliziesca segue parallelamente la via dei loro intrecci amorosi, anche se ci sono altri uomini e altre donne di mezzo. Il poliziotto ha molti tic ipocondriaci. E’ insonne, ha bisogno continuamente di istillarsi collirio. Lei lo strega con induzioni tipicamente femminili. Naturalmente siamo in Corea del sud e dunque il format è insolito e particolare, non ha lo sviluppo di un plot hollywoodiano. A volte indugia, a volte si perde in un ritmo tutto orientale. Però il regista, sia pure con qualche impaccio, non smarrisce mai la continuità della trama. Che propone risvolti insospettati e disvelamenti imprevedibili. Film fascinoso, con un suo mood particolare. Adatto a essere visto in un primo spettacolo visto che non ha paludamenti spettacolari, effetti speciali o attrattive di facile botteghino. Ma al Festival di Cannes ha incassato il premio della regia, riconoscimento ai suoi indubbi meriti. Di mezzo c’è il mondo degli affari, intrighi transazionali che riguardano anche Cina e Manciuria, un mondo complesso basato su interazioni sentimentali ma anche colossali transazioni economiche. Bravi gli interpreti a disegnare traiettorie di vite opposte: il detective irretito che esce dai binari; la Circe che inizia ad amarlo quando lui ha già smesso. Metafora di una vita che a volte gira perfettamente al contrario. Inizialmente il titolo per la distribuzione italiana era La donna del mistero. Poi si è preferito mantenere il titolo per il mercato in lingua inglese, di meno facile presa.
data di pubblicazione:08/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 7, 2023
Come da una grande amicizia può nascere una grande inimicizia di sedimento quasi mortale. Una sorta di Malavoglia all’irlandese con esiti anche cinematografici insospettabili. Bella prova di cinema con risultati insperati al box office e nove nomination per gli Oscar 2023.
L’Irlanda poverissima di qualche decennio fa, anzi più povera perché siamo nelle isole Aran dove si vive di allevamento e di agricoltura e dove il massimo divertimento è recarsi in un pub, fare quattro chiacchiere con un amico davanti a una pinta di birra Guinness. Ecco perciò quando l’amico viene meno perché non gli vai più a genio che nasce una crisi di rapporti profonda che si riverbera su tutto il paese. Caratteri tagliati con l’accetta tratteggiando una vita dura, essenziale, scabra, paleo-primitiva. Farrell è un sempliciotto che va in tilt quando il suo schema amicale salta in aria. Il contraddittore è di una feroce coerenza nel rifiutarlo. E gli altri, in mezzo, comparse di questo duello proto-western rusticano. Paesaggi indimenticabili che ben illustrano la durezza del luogo, tutt’altro che balneare. Quando gli esseri umani vengono meno i migliori amici sono cani, asini e mucche che si aggirano indisturbati nelle case dei protagonisti. Il film ti porta dove non ti aspetti e non faremo torto ai lettori nello spoilerarlo. Senz’altro vietato ai minori per la crudezza di alcune scene. Il sottotesto non troppo specificato documenta in maniera sottotitolo la piaga dell’alcolismo, dell’incesto, della solitudine, ma senza pronunciare giudizi morali. I miracolo del cinema: da una piccola storia, da un plot essenziale nasce un grande film. Ci stupisce che nel doppiaggio a un certo punto venga messa in bocca a Farrell la parola Epitome certo inaccessibile al suo scarso vocabolario. La conclusione? Basti dire che siamo lontanissimi dalla prospettiva dell’happy end. Il regista ci fa capire che per certe situazioni non c’è possibilità di redenzione.
data di pubblicazione:07/02/2023
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da Salvatore Cusimano | Feb 6, 2023
Evelyn Wang gestisce una piccola lavanderia a gettoni, ha una figlia adolescente che non capisce più, un padre frastornato e un matrimonio alla frutta. Un controllo fiscale di routine diventa inaspettatamente la porta attraverso cui Evelyn viene trascinata in una avvincente e coloratissima avventura nel multiverso più innovativo e divertente mai visto al cinema.
Le 11 nomination all’Oscar hanno riportato dal 2 febbraio in 150 sale selezionare in tutta Italia Everything Everywhere All at Once. Diretto dai “The Daniels” (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) e prodotto dai Fratelli Russo torna in sala per I Wonder Pictures. Tra le tante statuette alle quali è nominato ci sono miglior film, migliore regìa e migliore attrice protagonista: la malese e tostissima Michelle Yeoh.
Il film è come i suoi personaggi: dal normale all’inconsueto, dal poco al tutto, inaspettatamente. La dissociazione, il plurimo e il turbolento universo pluridimensionale in cui viaggiano i personaggi crea inevitabilmente il caos, sia per chi lo vive sia per chi lo guarda, in una sorta di ‘trip’ cinematografico, folle, bizzarro, surreale, un vero e proprio percorso psichedelico strambo e delirante, ma di un delirio meravigliosamente continuo. È un salto dietro l’altro tra dimensioni di un multiverso composto di mondi uno più strampalato dell’altro dove diversi sono gli omaggi al cinema, primo di tutti a quello di Hong Kong, per arrivare a quello di animazione di Ratatouille, e all’immancabile Matrix.
È un’opera che tiene insieme azione e comicità, e dove i superpoteri sono il semplice frutto di coreografie articolatissime di cui l’esito è un meraviglioso ‘pasticcio’. Si può inquadrare come film d’azione, di fantascienza, di arti marziali, comedy e dramma familiare, un “mucchio di cose tutte assieme” proprio come suggerisce il titolo.
Ma è anche per la grande prova della protagonista che tutto sta insieme, la quale scopre di essere solo una versione di sé all’interno in una vasta rete di universi paralleli, in cui è lei stessa l’unica che può salvarli dalla distruzione. Tuttavia, è il crescente divario tra quest’ultima e sua figlia Joy a essere cruciale in tutto il dipanarsi della matassa: il cuore sta tutto in questa sorta di incomprensione generazionale, una distanza linguistica e culturale che sembra irrecuperabile e che invece questo film prova a riempire senza mai ingannare la particolarità delle sue protagoniste.
Il risultato è quello di un film ricco, spavaldo e pieno di esuberanze, eppure non dimentica mai di voler essere, prima di tutto, svago purissimo, e ci riesce in maniera brillante.
data di pubblicazione:06/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 6, 2023
(Teatro Porta Portese – Roma, 3/5 febbraio 2023)
Gioco a due per una coppia di attori compagni anche nella vita e dunque in perfetta sinergia. Un’ originale testo italiano che sembra mutato dalla nuiova scena inglese. Dramma e un pizzico di giallo per un finale a sorpresa.
Un’attrice che sulle prime sembra sprovveduta si presenta una sera a casa di un quotato autore teatrale, forse su suggerimento di un manager misterioso che compare solo al telefono. E’ in cerca di un copione per un proprio laboratorio teatrale, meglio se gratuito. Lo scrittore prima la irride e non la prende sul serio, poi si fa irretire e le concede un testo incompleto, appunto Il tempo supplementare. Nella trattativa tra i due si affaccia la proposta di concludere con un finale in collaborazione. Lo scrittore si sente offeso più che lusingato. Ma l’attrice che ha grande capacità seduttiva lo convince, lo strega, lo seduce, lo bacia e ci finisce a letto. Scenograficamente il salotto della discussione si trasforma nell’improvvisata alcova. Ma alla fine del rapporto lo scrittore minimizza, si sforza di credere che per lui sia stata solo un’avventura, al contrario della sua interlocutrice che fa sempre più sul serio. Lasciamo alla vostra immaginazione la conclusione. Diciamo solo che per l’ennesima volta la componente maschile non ne esce bene. E la metafora del suo flop è l’efficace e spettacolare sgonfiaggio della superficie su cui si è sdraiato il protagonista, tornata salotto. La Ciaramella manipola efficacemente la propria parte. Prima si palesa ingenua, poi novella Circe, quindi delusa, infine vendicatrice: recitazione per tutti i gusti con grande capacità di cambiare il registro. Il personaggio dello scrittore è sufficientemente sprezzante e scostante attingendo a un massimo di volgarità quando deve descriverla dopo aver consumato il rapporto sessuale, il veloce intrattenimento di una sera. Mini-dibattito alla fine per uno spettacolo riuscito.
data di pubblicazione:06/02/2023
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