da Daniele Poto | Apr 15, 2023
(Altrove Teatro Studio – Roma, 14/16 aprile 2023)
Un dramma distopico tratto da un interessante testo inglese portato con coraggio sulla piccola scena del teatro d’innovazione. Passione a due con continui rovesciamenti di fronte, tenzone dialettica ma anche fisica con toni sovraeccitati per quasi due ore di generosa performance.
Dopo la fine perché qualcosa è già successo. Prima. Così i due protagonisti dopo una molto veridica esplosione nucleare e il rifugio in un bunker anti guerra fredda, in uno scenario d’attualità ormai molto verosimile, fanno contemporaneamente pace e guerra tra ammiccamenti sessuali, tentativi di mantenere le distanze, ingordigia dell’altro, affetto e repulsione. Così di fronte all’atteggiamento aggressivo del maschio che tutto preordina e predispone, segue l’ovvia reazione della donna che non ci sta a passare per vittima e vira nel ruolo di carnefice. Come si legge un continuo rovesciamento delle parti per approdare a una finale inaspettato che non riveleremo. Lo spettacolo è una continua pirotecnica esplosione di posizioni e mutamenti richiedendo il massimo impegno, anche gestuale, dei due bravi attori Greco e Ippolito. Progressione non facile anche per il pubblico chiamato se non a prendere posizione, a seguire questo continuo modernissimo gioco delle parti, metafora dei conflitti contemporanei. I due si dilaniano invano provando a varcare la soglia dell’oltre e del dopo. L’angosciosa ricerca di senso è rivolta verso quello che c’è fuori, il mondo bellico che ha decretato la loro attuale condizione. Un teatro di ricerca poco rassicurante, emblematico della nuova scena inglese. The end è quel varco della canzone di Jim Morrison e dei Doors, un limite all’infinito dietro cui si cela una sorta di auto-annientamento del genere umano. Scena spoglia e musica contemporanea assolutamente indicata per rappresentare un’atmosfera, abbondantemente gettonata soprattutto quando i dialoghi si fanno più rarefatti volgendo al termine.
data di pubblicazione:15/04/2023
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Apr 13, 2023
Teatro Vascello – Roma, 12/16 Aprile 2023)
Napoli, un quartiere popolare abitato principalmente da travestiti. In apertura si nota subito tutto l’orribile kitsch dei mobili e dei soprammobili, i resti di una cena, rotocalchi popolari sul pavimento, trucchi sparsi ovunque. Il telefono squilla e Jennifer irrompe sulla scena stracarica di pacchetti, tra cui spiccano cinque rose rosse. Pronto…Pronto?…Pronto? Mannaggia hanno riattaccato! Chist’era sicuramente Franco, ovvì! E mo’ chi ‘o ssape se telefona n’ata vota…
Annibale Ruccello, purtroppo scomparso prematuramente, costruisce una storia attorno alla figura emblematica di Jennifer, un travestito napoletano che vive il dramma della propria solitudine, il tutto architettato intorno alla condizione dell’attesa.
Franco, figura reale o puro e solo frutto dell’immaginazione, ha promesso di farsi vivo, ma oramai sono passati tre mesi e di lui non si ha notizia. I fatti che ci vengono raccontati sono ridotti all’essenziale e apparentemente tutto rimane fermo ma, a pensarci bene, tutto è in movimento: il telefono squilla continuamente, i programmi alla radio alternano canzoni di Mina e Patty Pravo degli anni Settanta con notiziari locali che avvertono di un serial killer in azione nel quartiere, le rose appassite sono sostituite con quelle fresche e Jennifer è in attesa. La sua oramai è una situazione esistenziale in cui unico scopo è quello di aspettare una telefonata dall’amato Franco, telefonata che sembra essere oramai imminente ma che nella realtà non arriva mai. Tolti i panni della normalità, così come la definisce la società, Jennifer diventa tra le mura di casa finalmente se stessa e può indossare le sue mise più sofisticate e truccarsi come meglio crede per farsi trovare pronta ad accogliere Franco, oramai prossimo a materializzarsi.
Il monologo della prima parte di questo, per meglio definirlo, dramma vede la protagonista dialogare con il proprio alter ego, un’ombra che si aggira sulla sfondo a ricordarle chi sia veramente, la sua condizione di emarginazione, la sua perenne solitudine. Quando entra in scena Anna, altro travestito anche lui in attesa di una telefonata, che racconta di se’ e del suo rapporto imprescindibile con la gatta Rusinella, lo spettatore senza forzare lo spirito del testo può veramente ritrovare l’essenza della tragedia che si va via via realizzando.
Bravissimi i due attori in scena in un susseguirsi di battute che solo il dialetto napoletano può generare in maniera così pittoresca e che induce spesso al riso, anche se, ahimé, si tratta di un riso amaro…
data di pubblicazione: 13/04/2023
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 8, 2023
(OFF/OFF Theatre – Roma, 4/6 aprile 2023)
Una storia d’amore e di amicizia raccontata attraverso uno scambio infinito di lettere. La relazione delle scrittrici Virginia Woolf e Vita Sackville-West in dialogo con le immagini tratte dall’antologia pittorica di Paola Gandolfi al teatro OFF/OFF di via Giulia.
Sorprende sempre la capacità del teatro di far dialogare con coerenza prodotti culturali e artistici nati in contesti e con finalità del tutto differenti. Nuovi significati si producono, sopiti aspetti conquistano la ribalta, inaspettate angolature mostrano altre bellezze. L’opera ne guadagna.
Così Scrivi sempre a mezzanotte. An androgynus mind mette insieme sulla scena brani tratti dalla corrispondenza tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West letti dalle attrici Iaia Forte e Annalisa Canfora con la proiezione a tutto sfondo delle opere pittoriche dell’artista romana Paola Gandolfi. La regia di Elena Munafò propone una lettura agita delle pagine più salienti e intense scelte tra le 136 lettere presenti nel volume edito da Donzelli (2019) – sempre a cura della Munafò per la traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini – a loro volta selezionate dal ricco carteggio di più di cinquecento missive che le due scrittrici, amiche e amanti si scambiarono ininterrottamente a partire dagli anni ’20 dello scorso secolo fino a pochi giorni prima del suicidio di Virginia Woolf alla fine di marzo del 1941.
Una tipologia di testi non destinati alla scena, ma a una fruizione intima, privata, esclusiva e fortemente contestualizzata. Come i dipinti di Paola Gandolfi – selezionati in buon numero dai lavori svolti dalla pittrice in oltre quarant’anni di attività – che di certo non erano nati per diventare scene teatrali, ma per raccontare la poetica tutta declinata al femminile dell’artista, le sue riflessioni intorno al corpo della donna, raffigurato a brani, quindi a pezzi, su sfondi monocromatici di colori caldi e luminosi.
Le immagini surreali di Paola Gandolfi mostrano teste di donna, braccia, seni, gambe, ventri e sessi. Galleggiano come elementi isolati in attesa di ricongiungersi in una sorta di brodo primordiale, che è lo sfondo non solo dei dipinti, ma anche delle due attrici sul palco. Virginia e Vita attendono di ricongiungersi anche loro, di rivedersi. Nel frattempo, da lontano, senza mai incontrarsi, si scrivono lunghe e appassionate lettere. Lottano contro la solitudine e la mancanza l’una dell’altra, aspetti questi amplificati dalle immagini dietro di loro. Raccontano le loro giornate, gli impegni che le tengono occupate. Esprimono il bisogno di incontrarsi ancora e magari di poter viaggiare insieme in posti lontani solo loro due.
Sulla scena Iaia Forte è una sensuale, tenera e a tratti capricciosa e ironica Virginia Woolf. Ne marca la calda femminilità, fatta di desiderio e attenzione, in attesa spasmodica di un cenno dall’amata. Gelosa quasi fino alla pazzia. Annalisa Canfora invece impersona una Vita Sackville-West più indipendente e emarginata, che sa viaggiare per il mondo da sola (non si fanno accenni al fatto che era sposata con un diplomatico del governo britannico), di aspetto androgino e di temperamento dominatore. I costumi di Allegra Pallotti aiutano molto a definire i personaggi, per uno spettacolo alla fine coerente nelle parti che lo compongono e chiaro per il messaggio che vuole lanciare. L’universo femminile è un luogo di bellezza e profondità al quale ci si deve avvicinare senza pregiudizi e stereotipi. È un campo sterminato nel quale si può riposare e guardare le cose con leggerezza. Dice Virginia a Vita: “Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi.”
data di pubblicazione: 08/04/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 7, 2023
Tratto dal racconto di Arthur Schnitzler, con Toni Servillo, Fabrizio Bentivoglio, Sara Serraiocco, Bianca Pianconi, Antonio Catania, Natalino Balasso, Sara Bertelà, Elio De Capitani. Film a due piani narrativi girato in sole nove settimane con un tema riflessivo introspettivo e felliniano. Salvatores riflette dubbi e turbamenti di artista (forse in declino) con tutte le perplessità produttive sull’uscita di una nuova pellicola che deve misurarsi con una giovane e agguerrita concorrenza. Ipocondrie d’ambiente miscelate con il declino di Casanova che non vuole rassegnarsi alla lenta decadenza.
Non si riesce a immaginare lo script se non in funzione della stampella recitativa di due grandi interpreti del cinema e del teatro italiano. Volto e voce da Napoli (anzi Afragola) e Milano rispettivamente per la grande prova di Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio, quasi coetanei alle prese con un ultimo film che stenta a maturare e una conquista estorta solamente previo compenso economico. Fanno contorno amici e sodali del regista di stampo comico: Balasso, il polivalente Catania, Ale e Franz. Unici volti giovani quello delle giovani protagonista sedotte da maschi di altra generazione, volenti o nolenti. Volutamente evitata una storia unitaria a cui viene preferita una scrittura frammentaria, sempre spezzata, a tratti anche asimmetrica nella vicende dei due personaggi cardine. Al regista si ribellano per distonia anche gli oggetti di casa. La presa in giro del jet set si concretizza ancora meglio nell’atmosfera festivaliera di Venezia. La sconfitta viene mitigata dalla ricomparsa della fidanzata incinta in una riappacificazione da happy end sulle rive del Lido. Si respira aria di nevrosi e di polemica con la stampa. Invece di stabilire rapporti di buon vicinato il regista punge e allontana con il fioretto i seccatori. Quanto a Casanova sarà vincente pentito in duello con un giovane rivale che bacerà in bocca, quasi a scusarsi per l’accaduto. In definitiva un piccolo grande film di profilo basso ma di eccellente riuscita. In attesa di prendere la rincorsa per progetti più ambiziosi.
data di pubblicazione:07/04/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Apr 7, 2023
Adam, figlio di un modesto pescatore, ottiene una borsa di studio per andare a studiare nella prestigiosa università al-Azhar al Cairo, il più importante centro di studi islamici in Egitto. Appena pochi giorni dopo il suo arrivo, muore il grande Imam a capo dell’istituzione e si deve ora affrontare il problema della nomina del suo successore. Il sistema di sicurezza interno dello stato egiziano vorrebbe imporre un suo uomo e Adam, senza volerlo, si trova coinvolto in un piano strategico, privo di qualsiasi scrupolo pur di raggiungere il proprio obiettivo.
Tarik Saleh è un regista e sceneggiatore svedese ma di padre egiziano, per cui si può dire che abbia nel suo DNA lo spirito e la cultura propria dell’Egitto. Nonostante la critica non lo abbia subito accolto favorevolmente, si è fatto soprattutto conoscere per The Contractor, distribuito lo scorso anno, un mix tra film di denuncia e classico thriller d’azione. Sempre nel 2022 il regista ha scritto e diretto La cospirazione del Cairo, presentato in concorso al 75° Festival di Cannes dove è stato premiato per la miglior sceneggiatura e poi scelto per rappresentare la Svezia, come miglior film straniero, ai premi Oscar 2023. Questa pellicola è difficile da classificare e si potrebbe definire un film di denuncia verso le pubbliche istituzioni, sia religiose che politiche, che entrano in collisione tra di loro per puro opportunismo. Un thriller politico quindi che rivela, e noi italiani ne abbiamo avuto recentemente una prova, come i servizi segreti interni egiziani siano intrisi, al pari di quelli spirituali, di un’etica tutta propria dove una parte tende ad avere il controllo sull’altra.
Al centro di questo scontro tra laicità e religione, si ritrova, inconsapevolmente, il giovane Adam (l’attore palestinese Tawfeek Barhom) costretto a infiltrarsi e a barcamenarsi tra questi giochi di potere, mettendo la propria stessa vita nelle mani di gente senza esitazione. Adam è uno spirito puro, imprigionato con la sua innocenza in un intrigo dalle tinte oscure da dove non riesce a venirne fuori se non offrendo, in nome della verità, persino la propria vita. Il coraggio del regista si spinge oltre l’immaginazione per rappresentare un mondo contraddittorio dove persino il rigore religioso islamico, con i suoi principi rigidi e intoccabili, lascia spazio a corruzione e efferatezza.
Il film incuriosisce, non solo perché ha una trama coinvolgente, ma perché ci porta dentro al cuore dell’Islam per farci capire quel mondo, a noi tutto sommato conosciuto quasi esclusivamente per lo spirito oltranzista che lo contraddistingue. Un tema non facilmente digeribile in Egitto che ha bandito Saleh dal paese, costretto a girare a Istanbul usando la moschea di Solimano come location per l’Università islamica di al-Azhar.
Scopri con un click il nostro voto:
da Edoardo De Giorgio | Apr 7, 2023
Mostra-performance a cura di Stefano Dominella e Guillermo Mariotto
Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo – Roma
Armerie Superiori
27 marzo 2023 – 21 maggio 2023
La Swinging London, la minigonna di Mary Quant, le visioni da indossare di Ossie Clark, le vetrine coloratissime di Carnaby Street a Soho e lo sbarco sulla Luna: l’eredità associata all’immaginario estetico degli anni Sessanta costituisce un bacino semantico reinterpretabile sotto molteplici aspetti. Età violentemente rivoluzionaria soltanto nel suo epilogo, lo scenario degli anni Sessanta agisce in realtà come nume tutelare delle contaminazioni visive tipiche del mondo della moda.
Di qui la volontà di indagare il lato straordinariamente dolce della decade “fluttuante” – così il settimanale Time definiva Londra nel 1966 – attraverso un’antologia fatta di atmosfere e citazioni raffinatamente sixties.
Dopo i capitoli Robotizzati – Esperimenti di Moda (Palazzo Wegil 2020), Favole di Moda (Teatro Torlonia 2022) e Roma è di Moda – Via Veneto edition ( Via Veneto 2022), e dopo un’accurata ricerca avvenuta in importanti archivi storici come AnnaMode Costumes, Modateca Deanna, archivio Max Mara e Ken Scott, archivio Doria 1905, Stefano Dominella, curatore della performance insieme a Guillermo Mariotto attinge nuovamente alla moda presentando The Sweet Sixties. Narrazioni di Moda presso il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma.
Cinquanta look che attraverso l’upcycling uniscono capi storici, vere icone di stile, con abiti e accessori recuperati nei mercatini e nei negozi vintage i quali rappresentano in questo momento il vero trend della moda internazionale, adottato soprattutto dalle giovani generazioni che amano recuperare dal passato per renderlo contemporaneo. Con le scenografie di Virginia Vianello, protagonisti, ancora una volta, gli abiti. Ecco le tinte audaci e naturalistiche firmate dalla genialità creativa di Ken Scott, definito “il giardiniere della moda” proprio per le sue stampe floreali. E poi i lembi di pelle coperti soltanto da 40 cm di tessuto di Mary Quant, fino ai motivi futuristici disegnati da Courrèges, Paco Rabanne e Pierre Cardin. Come non citare i colorati cappotti di Max Mara, rubati al guardaroba maschile e reinterpretati con tinte vivaci. La moda degli anni Sessanta ha riscritto e reimmaginato la silhouette di un’intera generazione. Abiti, scarpe, dischi e accessori – tutto ciò che, in una parola, costituisce lifestyle – diventano il manifesto poetico per raccontare le dolcezze di quegli anni.
Sono gli anni in cui nasce l’industria delle calze e dei collant, in cui alla cotonatura si sostituisce la linearità tagliente del caschetto, in cui l’alta moda comincia ad attingere dal basso. Sono anche gli anni in cui il poliedrico Elio Fiorucci inventa (e vende) uno stile di vita fatto di jeans e t-shirt con angioletti e cuoricini dando vita ad una vera e propria subcultura internazionale. Subcultura che, a partire dal bersaglio stilizzato della Royal Air Force inglese (s)cucito sui giacconi Parka dei giovani Mod alle prese con il blues e la musica beat, in Italia intercetta le lunghezze d’onda propagate dagli specchietti colorati degli scooter, della Vespa e della Lambretta.
Cinquanta creazioni per cinque capitoli, cinque sale, cinque filoni narrativi per raccontare la parte più leggera e sognante degli anni Sessanta. Un esperimento che, facendo suo il linguaggio della contaminazione visiva e dell’upcycling, guarda alla moda di quegli anni come ad un archivio da consultare e valorizzare attualizzando l’identità culturale di una decade complessa e multiforme.
Tutto prende inizio da Carnaby Street, la prima sala, con due look creati e curati da Guillermo Mariotto, co-curatore della performance, che troneggiano al centro dell’ambiente. Ecco le passanti, le cui mise riproducono il look di giovani donne alle prese con una sessione di shopping nelle boutique cult di Londra.
Il secondo capitolo riflette invece sulle libere associazioni vestimentarie: da una parte le stampe naturalistiche, rigogliose anche attraverso il plumage coloratissimo di Ken Scott, dall’altra il denim e gli angioletti dichiaratamente pop di Fiorucci.
Si arriva così alla terza sala, realtà in cui sono le atmosfere lunari di Courrèges, Pierre Cardin, Paco Rabanne, Valentino Garavani ad essere riscoperte sotto forma di metallo, pvc e cappelli a mo’ di casco. Un presagio stilistico, quello della Space Age, che di lì a poco vedrà un uomo solcare il suolo lunare per la prima volta.
E poi è la volta dei colori e dei ricami con cui l’alta moda vestiva i borghesi per le grandi occasioni – le tinte audaci, il glamour e le paillettes iridescenti rivivono grazie ad una selezione di abiti d’archivio tra cui quelli della sartoria Battilocchi, Jole Veneziani, Gattinoni, Lancetti, Mila Schön e Carosa.
Infine, nella sala Optical, il ritmo degli Sweet Sixties rallenta e si sofferma sull’accostamento geometrico dei due colori (non colori) per antonomasia: il bianco e il nero. Si finisce con il celebrare l’arte – si citano il testamento creativo di Giuseppe Capogrossi e l’operato dei Pittori maledetti di Roma – e con il ricordare la straordinaria potenza evocativa della moda, che questo progetto in fieri utilizza come sistema d’indagine e di ricerca dai contorni mobili e sfumati per rileggere un’epoca sospesa tra mille possibilità. Bella, dolce e moderna come allora.
data di pubblicazione:07/04/2023
da Antonio Iraci | Apr 6, 2023
Agli inizi degli anni Ottanta il prestigioso marchio Nike, con la sua divisione riservata al basket, deteneva solo una piccola fetta del grande business legato a questo sport. Grazie all’intuito di Sonny Vaccaro, manager addetto alle sponsorizzazioni, si riesce in extremis a legare la Nike al giovane Michael Jordan, allora pressoché sconosciuto, ma destinato a diventare a breve il campione assoluto del basket americano. Nasce così il brand “Air Jordan” che nel corso degli anni ha fatto realizzare alla società miliardi di dollari di fatturato.
Questo film, che vede Ben Affleck nella veste sia di protagonista sia di regista, offre un’occasione per riflettere sul funzionamento del mondo del business legato allo sport, soprattutto nella cultura americana, dove è possibile arricchirsi grazie all’intuito e al fiuto per gli affari che è proprio di quella società.
Il regista è stato bravo nell’individuare in Matt Damon, un poco appesantito dagli anni e dalla pancia, l’interprete giusto per caratterizzare una personalità che sintetizzasse al meglio lo spirito imprenditoriale da un lato e il coraggio di rischiare il tutto per tutto dall’altro, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Nei suoi modi di fare, a volte canzonatori a volte al limite dell’arroganza, riscontriamo quell’entusiasmo di colui che sta portando avanti una propria idea, una propria convinzione nei confronti dei suoi capi che all’inizio non riescono a vedere la possibilità di cambiare le sorti della società. Uno sguardo critico, in senso tutto positivo, alla società americana che con i suoi evidenti limiti e contraddizioni è però capace di offrire a chi ama rischiare tutti i presupposti per diventare ricco e famoso.
Il ritmo è incalzante e non lascia il tempo per seguire i dialoghi serrati, soprattutto se il film viene visto in versione originale che qui si consiglia. Molta azione tra i vari personaggi che ruotano poi intorno alla figura principale di Michael Jordan, che però di fatto si intravede sempre di sfuggita e che non si sente mai esprimere una parola. Sembra quasi una marionetta spilungona, senza voce in capitolo e abilmente manovrata dalla madre, una bravissima Viola Davis, unica consapevole del talento del proprio figlio, destinato a diventare la star indiscussa del basket di tutti i tempi. Merito del regista anche quello di gettare uno sguardo sul lato positivo di questo enorme generatore di denaro dal momento che una volta tanto, dietro al business, si nasconde anche uno spirito filantropico. La famiglia Jordan, che impose nel contratto una partecipazione agli utili derivanti dalla vendita di prodotti sportivi contrassegnati con il marchio Air Jordan, destinò queste ingenti somme per promuovere iniziative nel campo dello sport e quindi per aiutare i giovani sportivi con spiccato talento.
Un film quindi che parla di sport, ma anche di temi sociali e con il quale Ben Affleck sembra essere riuscito a far interpretare ai suoi attori personaggi realmente esistiti, rendendoli protagonisti di una storia che ha fatto realmente “storia” dell’immaginario collettivo americano.
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 6, 2023
(Teatro Vascello, 4/7 aprile 2023)
La ragazzaccia ai muro rivisita un testo di 27 anni fa che non ha bisogno di furbe riattualizzazioni ma semmai di una riverniciatura con il contraddittorio della partner dissonante Bartoni. Il Danco fan funziona, visto che all’orario d’inizio della prima c’è una fila di venti metri al botteghino.
La coatta androgina sprizza vitalità nello spettacolo più corto nel nostro vagabondare cinquantennale per i teatri italiani. Mezz’ora di rappresentazione monologante ad alta condensazione drammatica. C’è la Roma dolente delle periferie non più pasoliniane con momenti di pregnante illuminazione comica. Come la traumatica visita dal ginecologo. La Danco è talmente brava che bypassa il gap generazionale rispetto al personaggio descritto. Nonostante la staticità di un dialogo surreale davanti alla fermata di un autobus invariabilmente perso, la scena si colora di un florilegio di movimenti. Persino con i movimenti di un taekwondo che in questo caso più somiglia al karate. La Danco generosamente si spende spandendo fisicità e contaminando il pubblico con un romanesco facilmente comprensibile. La fidanzatina spaurita di “Un medico in famiglia” è ormai una matura one woman show. La metafisica dello spettacolo restituisce il clima di una dolente solitudine che non ha speranze di riscatto e di affermazione. Un vuoto che l’aggressività del linguaggio tenta di negare con tutti i mezzi. Ma non ci riesce. Quei corpi, quelle parole in libertà disegnano un destino alla cui irredimibilità non si potrà sfuggire. E la musica è la colonna serena di un muro che separa le storie segnate da quelle che potranno avere un percorso oltre la barricata, al centro, dove c’è ancora una ratio e una direzione. La Danco ha raccolto tutta la propria produzione in un agile volumetto pubblicato nel 2022
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Apr 1, 2023
Estate 1982 in un tipico paesino della Sicilia. Tutti in fermento per i mondiali di calcio, mentre la nazionale italiana si avvia a conquistare il titolo mondiale giocando contro la Germania. Gianni e Nino, che si erano conosciuti per caso, vivono questi giorni in uno stato euforico diverso. Al contrario degli altri, non si curano delle vicende calcistiche, ma sono solo concentrati su se stessi e sul loro rapporto che non è solo di semplice amicizia…
Uscito nella sale oramai da qualche giorno, sembra che il film d’esordio di Giuseppe Fiorello, per la prima volta in veste di regista, abbia scosso favorevolmente la critica che si è pronunciata molto bene su questo lavoro, ispirato peraltro da un fatto di cronaca realmente accaduto negli anni Ottanta.
Non si è trattato solo di raccontare una storia, ma forse il pretesto per parlare della sua Sicilia che ora lui stesso vede con gli occhi di chi è andato via dall’isola per approdare sul continente, gli occhi che sanno guardare meglio i contrasti culturali e ambientali di una terra meravigliosa, ma anche per certi aspetti dannata. In quegli anni, infatti, la Sicilia era il riflesso deformato di una realtà tutta italiana, campioni del mondo non solo per il calcio, ma anche per una palese grettezza che caratterizzava il tessuto sociale dell’epoca. Ecco che il regista ci immerge in quel torpore, in quell’afa estiva siciliana dove ogni cosa sembra prendere forma e valore, muovendosi lentamente come sotto l’effetto di un lievito. Intrecciare quindi una vicenda che coinvolge due giovani che stanno vivendo la loro prima adolescenza, quasi da adulti responsabili, per approdare in una vita tutta nuova da vivere con forza, con una coscienza conquistata con il dolore di chi si sente emarginato e bullizzato.
Il regista non si dilunga in riflessioni, ma fa parlare le azioni, creando di proposito un susseguirsi di personaggi perfettamente delineati in modo tale che ai due protagonisti, Gianni e Nino, sia possibile di esporsi sempre più apertamente e di completarsi agli occhi dello spettatore. Pur in presenza di qualche sbavatura nella sceneggiatura e di qualche immagine forse un po’ troppo patinata, Fiorello ha saputo ben dosare lo svolgimento di un tema come questo evitando innanzi tutto, pur restando fedele alla realtà dei fatti, l’ovvio e il prevedibile. Tutti i personaggi che ruotano attorno ai due giovani (interpretati da Samuele Segreto e da Gabriele Pizzurro) si muovono in cerca di risposte che non trovano, si pongono troppe domande che continueranno a portarsi dentro.
Forse lo spettatore attento troverà invece le riposte adatte e sarà capace di scorgere, in quell’inutile tragico epilogo, il motivo di una rinascita e di una ribellione. Perchè come ci ricorda lo stesso Battiato nella sua indimenticabile canzone che dà il titolo al film: “ man manu ca passanu i jonna sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa ‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra mi sentu stranizza d’amuri…”.
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Mar 29, 2023
(Teatro Il Parioli – Roma, 27/28 Marzo 2023)
Dopo anni di confusione e sensi di colpa, resistenze e vani tentativi di dissuasione, una madre si rassegna alla fine ad accettare che la figlia realizzi il proprio sogno e diventi a tutti gli effetti un ragazzo. Eva sarà riconosciuta per quello che da sempre sente di essere, vale a dire Alessandro. Uno scontro che diventa incontro tra due generazioni che si sforzano di comprendersi e di imparare a considerare la validità delle rispettive posizioni…
Questi tempi turbolenti che stiamo vivendo, assediati da mille problemi interni e internazionali, con rischi incombenti sulle nostre già malferme convinzioni, tra le tante negatività sono riusciti almeno in parte a risvegliare nella coscienza di molti una consapevolezza che non si era mai finora realizzata. La pubblica opinione, soprattutto con riferimento alla generazioni con alle spalle qualche decennio, si trova oggi, suo malgrado, ad affrontare problematiche che, un poco per ignoranza un poco per puritanesimo, disconosceva o che riteneva non la riguardasse. Stefania Rocca mostra oggi una lodevole sensibilità nel ricucire per il teatro l’adattamento del romanzo La madre di Eva di Silvia Ferreri, finalista al premio Strega nel 2018. Oltre alla sensibilità, viene qui evidenziato un certo coraggio ad affrontare senza reticenze il problema dell’identità di genere, e quello ancor più importante dell’intervento chirurgico per far apparire il proprio corpo per quello che è nella sostanza e non nell’apparenza. Da un lato una madre che si sforza di comprendere del perché di un frutto, quello suo, mal riuscito e dall’altro una figlia/figlio che si sforza di far comprendere che la sua è proprio un’esigenza imprescindibile per continuare a vivere nel proprio ambito familiare e sociale. Le riflessioni rivolte al pubblico, da una sala d’attesa di un ospedale serbo dove la figlia sta per essere sottoposta ad una operazione per rimodellare il proprio corpo, sono frutto di anni di accese discussioni che hanno da sempre avvelenato e comunque condizionato il loro rapporto affettivo. Ecco che si mette in gioco quel meccanismo delicato che andrà a stabilire le regole dello scontro, ma se lungo sarà il percorso da entrambe le parti alla fine prevarrà il buon senso, il sentimento istintivo di una madre verso la figlia che non si potrà mai negare perché è l’unico cardine che regge le sorti di tutto il suo mondo. Merito indiscusso di Stefania Rocca, nei panni della madre, è quello di aver portato sulla scena una realtà che non è finzione, perché l’attore Bryan Ceotto che la affianca è direttamente e personalmente impegnato in questo processo di transizione, un percorso che modifica il corpo ma non l’identità. La sua recitazione è talmente appassionante e vera che lo spettatore non può che rimanerne coinvolto anche perché l’oggetto da affrontare è molto delicato e forse anche troppo pesante, ma mai ingombrante. Vari personaggi appaiono in sottofondo tramite proiezioni, elementi questi di un insieme che ci parlano per farci capire di che stiamo parlando. Una regia perfetta, una recitazione di intenso pathos per farci realizzare quanto stupidi siano i pregiudizi che ci portiamo dietro e quanto importante sia parlare di questi argomenti per abbattere ogni muro di indifferenza e di falso perbenismo.
data di pubblicazione:29/03/2023
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…