da Antonella Massaro | Gen 8, 2023
Le contraddizioni di Napoli fanno da teatro ai tormenti adolescenziali di Giovanna, trascinata nel mondo degli adulti dal mediocre conformismo dei suoi genitori e dal chiassoso attaccamento alla vita della zia Vittoria. Tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti è distribuita da Netflix, in sei episodi, a partire dal 4 gennaio 2023.
Giovanna (Giordana Marengo) affronta la sua adolescenza a Napoli, negli anni Novanta. Una bella casa al Vomero, dei genitori (Alessandro Preziosi e Pina Turco) che si illudono di “pensare comunista”, un padre che si è fatto da solo ed è diventato un intellettuale. Il già precario equilibrio di Giovanna è definitivamente travolto dall’incontro con sua zia Vittoria (Valeria Golino), della quale sembra si sia fatto di tutto per cancellare il ricordo. Un misterioso braccialetto diventa il filo conduttore della storia, che condurrà alla rivelazione di bugie, segreti e rancori.
Il “romanzo di formazione” di Giovanna passa anzitutto per una “discesa agli Inferi”: dai lustrini patinati del Vomero e di Posillipo, alle viscere carnali (ma sempre incredibilmente profumate di bucato) del Pascone, per scoprire che, in fondo, i buoni e i cattivi superano ogni barriera sociale. A farle da Virgilio, Giovanna troverà la dirompente e strabordante Vittoria, una donna senza misure, chiamata, però, a fare i conti con il metro della vita. Perché, in fondo, quando sei piccola ogni cosa ti sembra grande, quando sei grande ogni cosa ti sembra niente.
La Vita bugiarda degli adulti, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante e dal 4 gennaio 2023 disponibile su Netflix in sei episodi, porta di nuovo sul piccolo schermo le pagine di una delle scrittrici più rappresentative della scena (non solo) italiana.
La sceneggiatura, affidata alle sapienti penne di Laura Paolucci, Elena Ferrante, Edoardo De Angelis e Francesco Piccolo, riesce ad adeguarsi ai tempi della serialità senza snaturare l’intensità del racconto. La regia di De Angelis, che a tratti sembra “sprecata” per una serie tv, è spettacolare e travolgente, a volte eccessiva, ma comunque efficace. L’interpretazione di Valeria Golino, con il suo trascinante carisma empatico, è un gioiello prezioso che, da solo, vale l’intera serie. Le musiche, in certi casi troppo “invasive”, restituiscono pienamente il clima di un decennio in cui l’entusiasmo stava lasciando il posto alla disillusione, senza che, però, ne fossimo pienamente consapevoli.
data di pubblicazione: 8/1/2023
da Paolo Talone | Gen 7, 2023
(Teatro Belli – Roma, 25/27 novembre 2022)
Entrare in un Primark può rivelarsi un’esperienza devastante. Claire Dowie ci porta con spregiudicata ironia a prendere in considerazione le assurdità della nostra epoca, in specie quelle legate all’acquisto compulsivo di beni non strettamente necessari. Una riflessione amara, ma divertente nell’interpretazione di Martina Gatto, sui pericoli della società capitalista.
Per chi non lo conoscesse, Primark è un negozio molto di moda nelle isole britanniche dove è possibile acquistare vestiti e accessori di ogni genere a prezzi ridicoli. Talmente ridicoli che è quasi impossibile uscire dal negozio senza portarsi a casa anche la più scadente maglietta a pochi centesimi. Orde di ragazzini (e non solo) spingono da tutte le parti per aggiudicarsi l’ottimo affare. Insomma, un tempio moderno al consumo sregolato di merci di poco conto. Tutto questo lo racconta Martina Gallo, protagonista dell’esilarante pièce di Claire Dowie, che ha debuttato alla fine dello scorso novembre al teatro Belli di Trastevere nell’ambito di Trend, la rassegna di drammaturgia di testi inglesi contemporanei, curata da Rodolfo di Giammarco. Tradotto e riadattato per il pubblico italiano dal direttore del teatro, Carlo Emilio Lerici, in collaborazione con Elena Maria Aglieri, See Primark and die riflette sulle pericolose conseguenze causate da una società capitalista, in apparenza sana ma per nulla felice.
Per comprare vestiti a buon mercato non occorre usare il cervello, per questo è facile farsi prendere la mano fino a sviluppare delle compulsioni. L’esagerazione può condurre alla malattia e addirittura a pensieri di morte. E se capitasse di morirci in un Primark? Colta da un improvviso attacco di panico, la protagonista è costretta infatti a interrompere la frequentazione quotidiana del negozio. La storia devia così bruscamente verso il racconto delle allucinazioni che la colpiscono, trascinando con sé lo spettatore in un mondo folle e confuso. Scoprirà più tardi di non essere la sola a vivere questo disagio, ma come lei ci sono tante altre persone affette da negoziofobia. E chissà che non ce ne siano anche tra il pubblico?
Martina Gatto, assoluta padrona della scena e del personaggio, conduce il racconto in prima persona con energia travolgente e in sintonia con quanto racconta. Appare divertita dalla sua stessa performance, quando ironizza sui caratteri patologici del suo personaggio che in fondo riguardano molti di noi. Per questo si affaccia spesso dalla quarta parete chiedendo il favore del pubblico, in uno stile che ricorda la stand-up comedy (un genere a dire il vero non molto frequentato tra gli spettacoli proposti a Trend). See Primark and die è nella sua interpretazione una divertente occasione per riflettere sui pericoli delle nostre più banali e apparentemente innocue abitudini.
data di pubblicazione:07/01/2023
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da Rossano Giuppa | Gen 6, 2023
Il giovane autore belga Lukas Dhont torna a raccontare il mondo dell’adolescenza in Close, storia di amicizia dolce e dolorosa, un romanzo di formazione che segue la vita dei suoi protagonisti per un anno intero. Un racconto inizialmente semplice, delicato, ma che nel proseguo regala emozioni profonde fatte di amore, rimpianti, desiderio e dolore devastante. Un film bellissimo che arriva dritto al cuore, vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria allo scorso Festival di Cannes, un gioiello sapientemente selezionato quest’anno da Alice nella città, che conferma il suo autore come una delle promesse del cinema contemporaneo.
Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustave De Waele) sono amici inseparabili, quasi fratelli come si definiscono loro, cresciuti insieme tra giochi nei boschi e con la presenza costante di due famiglie amorevoli. Passano moltissimo tempo insieme e sembra che nulla possa rovinare il loro rapporto esclusivo. Poi cominciano a frequentare le scuole superiori e l’equilibrio si rompe. Qualche compagna di classe gli chiede se stanno insieme e Léo inizia a staccarsi. Si iscrive ad hockey, non aspetta l’amico per andare in classe insieme e ci litiga sempre più spesso. Poi un giorno, al ritorno da una gita scolastica, cambia tutto.
Il mondo degli adolescenti, continua a essere il territorio di elezione del talento altrettanto giovane del regista belga Lukas Dhont che ha vinto la Caméra d’Or a Cannes con la sua opera prima, Girl, racconto di una quindicenne in transizione e nata uomo alle prese con il durissimo allenamento marziale per diventare una ballerina étoile.
Léo e Rémi hanno grande spontaneità, fanno la lotta, si abbracciano, il tutto con estrema naturalezza. Il loro rapporto esclusivo inizia a essere messo sotto osservazione da occhi esterni rispetto ai loro e a quelli delle rispettive famiglie. Il legame che unisce i due ragazzi viene messo a dura prova nel momento in cui devono confrontarsi con i coetanei: Léo i è più estroverso, Rémi è invece più sensibile, a disagio se inserito nelle dinamiche tipiche dei bambini di quell’età.
Iniziano a diversificare i comportamenti fra la vita a casa e quella a scuola. Iniziano a diversificarsi con il gruppo, con gli altri, e il meccanismo perfetto e armonico della loro simbiosi inizia a scricchiolare. Fino all’evento estremo che toglie la luce ed il respiro, che dopo lo sbocciare dei fiori porta il freddo e l’inverno, ovvero il dolore e la sofferta elaborazione delle responsabilità, per aspettare poi una nuova primavera.
Un racconto straordinario per immagini, aiutato da scelte registiche perfettamente riuscite e funzionali, come i continui primi piani sui volti dei protagonisti o la camera che li segue costantemente, una fotografia avvolgente, che evoca il calore dell’infanzia e, soprattutto, la bravura dei due giovani interpreti. Lukas Dhont realizza un’opera d’arte, un film toccante ma sempre in equilibrio, emozionantissimo.
data di pubblicazione:06/01/2023
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da Antonella Massaro | Gen 3, 2023
Un miliardario egocentrico e megalomane, un gruppo di “amici-nemici”, un’assolata isola greca: il teatro perfetto per una “cena con delitto” che, da gioco di ruolo, diviene autentica scena del crimine, con l’immancabile e infallibile detective pronto a dipanare la trama del giallo.
Dopo Cena con delitto, Rian Johnson torna a dirigere le indagini del detective Benoit Blanc, interpretato da Daniel Craig, con un film che, fin da subito, appare non tanto come un sequel del precedente quanto piuttosto come una sua (tentata) evoluzione.
Maggio 2020. La pandemia da Covid-19 ha già catapultato il mondo nell’universo parallelo del lavoro a distanza, delle mascherine e degli abbracci pericolosi. Il miliardario Miles Bron (un magistrale Edward Norton) invita su un’isola greca il suo gruppo di amici storici: “i disgregatori”, una compagnia assortita di uomini e donne disposti a mettersi in gioco pur di sfidare le convenzioni. La ragione dell’invito è all’apparenza banale e innocua. Miles ha organizzato una “cena con delitto”, una messa in scena del suo omicidio, un gigantesco Cluedo da risolvere secondo le regole tradizionali del gioco di ruolo. Un omicidio, però, si consuma davvero nel teatro luccicante e megalomane del Glass Onion, la sontuosa residenza volta da Miles che prende il nome dalla celebre canzone dei Beatles. Spetterà a Benoit Blanc, il glaciale e implacabile detective annoiato dalla pandemia, risolvere l’enigma, a fronte di una platea di potenziali assassini che sono tutti forniti di “movente” e “opportunità”.
Il registro, almeno in superficie, sembra quello canonico del genere giallo à la Agatha Christie. Unità di tempo, spazio e luogo, un gruppo ristretto di persone tutte sospettate e sospettabili, l’acume dell’investigatore che riesce a rendere ovvie le cose complicate. Scavando più in profondità, tuttavia, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a una parodia, tanto del giallo quanto, più in generale, dello spaccato socio-culturale portato sullo schermo da Glass Onion. Miles, da regista di sontuose messe in scene, rivela ben presto la sua pochezza, circondato da caricature grottesche di figuranti egocentrici: i disgregatori, in realtà, sono biechi conformisti, attaccati più alle “tette d’oro” di Miles che a un ideale da realizzare. Anche il registro del racconto è dichiaratamente “pop”, senza alcuna solennità legata alla complessità di un’indagine, che, in fondo, così complessa non è. Lo spettatore intuisce subito di trovarsi immerso in una cipolla di vetro: tanti strati sovrapposti, ma trasparenti, in cui tutto è in bella vista per chi decida di “vederci chiaro”.
Il cast, oltre a Daniel Craig e Edward Norton, può contare su Dave Bautista, Janelle Monáe, Jessica Henwick, Kate Hudson, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr. e Madelyn Cline, tutti adeguati al ruolo.
Il film è nel complesso gradevole, anche se forse l’intento di desacralizzazione è portato troppo oltre e finisce per diventare inutilmente strabordante.
data di pubblicazione: 3/12/2023
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da Paolo Talone | Dic 30, 2022
(Teatro Belli – Roma, 22/23 novembre 2022)
Luca Toracca è Quentin Crisp (ph. Laila Pozzo), l’attore e scrittore che non ha fatto mai mistero della sua omosessualità, portando avanti con brillante ironia la sua battaglia fino a diventare un esempio per molti.
Un grande sipario rosso scende dall’alto e abbraccia il palcoscenico con le sue pieghe. Il significato è inconfutabile: questa storia è uno spettacolo. Il personaggio qui rappresentato è egli stesso lo spettacolo. La scena è invasa da un caos di oggetti, tra cui spicca una toletta illuminata con i trucchi e parrucche. Cimeli di un passato glorioso, che trasmettono ancora la loro energia pulsante.
Be yourself, no matter what they said (sii te stesso, non importa cosa dicono gli altri) è la frase che fa da ritornello in Englishman in New York di Sting, brano dedicato proprio alla figura di Quentin Crisp. Icona gay della cultura inglese, uomo eccentrico dalla personalità esplosiva e travolgente, Quentin Crisp è riportato in vita nello spettacolo scritto da Mark Farrelly, andato in scena al teatro Belli per la ventunesima edizione di Trend, la rassegna di drammaturgia inglese contemporanea diretta da Rodolfo di Giammarco. Essere sé stessi, ostentare con eleganza e garbo la propria omosessualità, non nascondendosi dietro a ipocrisie e falsità – semmai solo dietro a un velo di trucco e a tanta intelligente ironia – è il messaggio di cui si fa portatore Luca Toracca, protagonista della pièce prodotta dal Teatro dell’Elfo di Milano. La somiglianza tra attore e personaggio è notevole, se non addirittura impressionante. Viene da chiedersi quanto ci sia di Quentin Crisp in Luca Toracca. La finzione del palcoscenico svanisce e l’attore fa capolino oltre la quarta parete. Non si limita a parlare al pubblico, ma con esso crea una situazione di ascolto e interazione. Il teatro diventa così uno strumento di educazione e di lotta. Non solo una lezione di vita, condotta con tagliente ironia e distacco da tutte le sofferenze che essa porta, ma uno strumento di denuncia di tutti gli abusi, le ingiustizie, le aggressioni che ancora oggi vedono vittime tutte quelle persone che hanno come unica colpa quella di essere diversi dagli altri, dall’indistinta giudicante maggioranza.
Seguendo la lezione di Toracca/Quentin, appare chiaro che il vero talento non risiede nel saper fare qualcosa, ma nell’essere sé stessi senza vergogna. Vale quindi la regola che la vita è più difficile per chi vuole diventare sé stesso. La strada è lunga e per nulla semplice. Dal testo, narrato in prima persona seguendo l’ordine cronologico dei fatti raccontati all’imperfetto (il tempo verbale con cui si parla del passato e dei sogni), si apprende che Londra negli anni Trenta era un posto avverso agli omosessuali effeminati come Quentin. L’ostilità partiva dalla famiglia e proseguiva per strada, tra insulti, molestie e a volte percosse. Gli anni della guerra non sarebbero stati più facili. Posare nudo come modello per le scuole di arte poteva essere l’unica alternativa dignitosa alla prostituzione. Gli anni Sessanta segnarono invece un periodo di tolleranza. Ma uno come lui, abituato a sorprendere con la sua eccentricità, neanche qui trova posto.
La svolta avviene quando, quasi ottantenne, arriva a New York. La città è eccitante e lo accoglie regalandogli fama e successo. Ed è qui che si chiude la parabola straordinaria della sua vita, colorata e complessa come le sue acconciature. Un racconto che Luca Toracca incarna con consapevolezza e convinzione, esprimendolo con tutta la dolcezza di chi sa che può dare consigli. “Scoprite chi siete e siatelo, anima e corpo” grida risoluto, perché quello che conta non sono i dubbi o i rimpianti, ma cosa siamo oggi, nonostante quello che pensano gli altri.
data di pubblicazione: 30/12/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 29, 2022
Pellicola che traduce con rara sensibilità un’intensa storia di montagna, di amicizia, di vita. Se il cinema è abituato a tradire la letteratura nella sua impossibile specifica versione qui si registra un’eccezione preziosa, forse anche grazie alla collaborazione ai dialoghi dello stesso scrittore da cui è tratta l’opera.
In montagna sono importanti i silenzi. Si parla solo quando si arriva sulla cima e si può commentare e dispensare fiato. Così il film si prende pause funzionali, ragiona per ellissi temporali (la pubertà, la maturità, il declino, nel caso specifico del padre impersonato dal bravo Timi) e logistiche (Torino, la montagna centrale dove vivono sentimenti e case, il Nepal).
Una o otto montagne? In questa simbologia alternativa ruotano i destini dei due amici che, pur provenendo da ambienti sociali, completamente diversi, si completano, si scambiano la fidanzata, si assorbono completamente, uniti da un unico padre reale che li ha alimentati. Dunque il non detto, il sottotesto assorbe lo spettatore che non è necessariamente un appassionato di montagna ma che con questo film impara a apprezzarla, a rispettarla e anche a temerla visto come inghiotte le energie dei protagonisti e, in parte, anche il loro destino. La natura da una parte e la ricerca dell’identità dall’altra in due personalità in cerca di formazione e ancoraggi. E non possiamo immaginare che il rapporto duale sia retto da attori diversi da Marinelli e Borghi, sodali dai tempi di Non essere cattivo in una sinergia affabulativa praticamente immigliorabile e che sostiene un film intenso, onesto il cui unico difetto forse consiste nella costante immedesimazione al testo con il rischio di prolungare la tensione in una versione filmica eccessivamente lunga.
I viaggi in Nepal sono l’ovvio corollario alla fedeltà del libro. Ma il successo è garantito da segnali precisi: il silenzio in sala, rotto solo dall’abitudine dipendente di accendere il telefonino per controllare sei il mondo ha bisogno di noi.
data di pubblicazione: 29/12/2022
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da Daniele Poto | Dic 27, 2022
Con il passare degli anni i three men show si prestano sempre più intelligentemente a film corali con una maggior cura di sceneggiature, dialoghi, fondali e caratteristi fino a cucire un film ambizioso. Tristanzuolo e malinconico. Del resto non sono più i Natali di una volta e il mainstream cinematografico ci si adatta.
Hanno saputo risalire dall’abisso di film flop con un’analisi introspettiva dei propri pregi e limiti. Mantenendo ad Aldo il ruolo di centravanti di sfondamento. Così anche un pretesto esile come la preparazione di un matrimonio, innesco già ripetutamente visto, diventa momento ispirativo pacatamente fervido nella cronologia di un lento avvicinamento a sponsali in cui va tutto a male. Le bottiglie di Bordeaux precipitano nel lago, il cantante Renga, finisce in ospedale (e poi si accontenterà di più modica provvigione). E all’orizzonte c’è persino la sorpresa più impensabile per i due diversissimi genitori degli aspiranti sposi. Non faremo spoiler se non per dire che l’happy end non è dietro l’angolo. Un film con eccellenti caratteristi (l’ottimizzatore di matrimoni, il prete, la servitù, le mogli) con una Mascino nel ruolo di guastafeste rompiscatole (la parte che le riesce meglio). L’ambizione borghese di una cerimonia sopra le righe deflagra in una serie di siparietti comici che potrebbero essere gustati, una tantum, oltre il confine di Chiasso. Le musiche di Brunori Sas sono un tocco di classe in più. Sinceramente fuori contesto il classico finale con lo svelamento del futuro dei protagonisti del film. Trovarne uno dei principali a fare l’allenatore dei ragazzi aspiranti calciatori del Burkina Faso in compagnia di un religioso, presto sparito dei giochi nella prima parte, sembra una goliardica divagazione senza senso che poco ha a che fare con l’unitarietà autoriale del film, figlio comunque di una sceneggiatura di gruppo.
data di pubblicazione:27/12/2022
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da Rossano Giuppa | Dic 26, 2022
The Fabelmans, di Steven Spielberg, già vincitore del Premio del pubblico all’ultimo Toronto Film Festival e presentato in anteprima italiana il 19 ottobre nel programma della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella Città, ripercorre in modo intenso e personale l’infanzia e l’adolescenza dello stesso Spielberg, dalla scoperta di uno sconvolgente segreto di famiglia al sogno, poi realizzato, di diventare regista. Il film si può considerare un racconto di formazione ed esplora il potere del Cinema come osservatorio fuori e dentro il mondo ma soprattutto fuori e dentro se stessi.
La critica statunitense già considera The Fabelmans uno dei titoli di punta nella corsa agli Oscar. Il film racconta in parte l’infanzia e soprattutto l’adolescenza di Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), e il suo sogno di fare del cinema la sua vita. Il suo amore per il cinema prende forma e assume più forza ogni giorno, sperimentando e assemblando idee e mezzi più creativi per raccontare le storie, inventando piccoli effetti speciali artigianali che già denunciano il suo talento nel rendere il sogno realtà. Un sognatore romantico già pieno di talento che deve confrontarsi, crescendo, con il trasferirsi continuamente seguendo i vari incarichi del padre (Paul Dano) un geniale e ingenuo ingegnere; l’impatto con l’antisemitismo che gli rovesciano addosso a scuola e la crisi matrimoniale dei sui genitori, causata dal legame della incantevole madre Mitzi (Michelle Williams) sempre dalla sua parte con lo ‘zio’ Bennie (Seth Rogen). Il film è stato scritto da Spielberg insieme al drammaturgo, Premio Pulitzer, Tony Kushner, storico collaboratore del regista.
Sammy cresce con la macchina da presa come fedele compagna che lo protegge anche nei momenti difficili. Quando i suoi divorziano, lui si immagina di riprendere la scena come se fosse qualcosa che non sta accadendo realmente e, attraverso i suoi film, scopre verità non visibili all’occhio nudo, che cambiano la sua vita per sempre. The Fabelmans si sviluppa attorno alle emozioni di chi sta per raggiungere la maggiore età a tratti delicato e divertente, a tratti spietato e drammatico.
Sam sviluppa la giusta sensibilità verso quello che accade intorno a lui, riesce a comprendere la mamma e gli amici attraverso l’obiettivo, e trova alla fine la sua strada.
Girato in maniera impeccabile con una sceneggiatura che aderisce in maniera straordinaria ad ogni fotogramma, il film ha forse la pecca di risultare perfetto ma con un’anima predefinita. Ci teniamo stretto il nostro Nuovo Cinema Paradiso che con la sua tenerezza emotiva ha reso magico il mondo del cinema.
data di pubblicazione:26/12/2022
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da Maria Letizia Panerai | Dic 23, 2022
Presentato in anteprima mondiale nel gennaio 2022 al Sundance Film Festival e in apertura tra i film Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Living è la storia di un uomo ordinario che decide, in seguito ad un evento che stravolgerà la sua vita, di fare qualcosa in extremis per poter dare un senso alla sua esistenza grigia, vissuta in un angolo: decidendo di Vivere, appunto.
Remake del film del 1952 Ikiru di Akira Kurosawa, sceneggiato da Kazuo Ishiguro (Quel che resta del giorno e Non lasciarmi), “reimmaginato” dal regista Oliver Hermanus in una Londra anni cinquanta, Living è un film poetico e piacevolmente lento, emozionante e profondo, che racconta una piccola storia senza tempo, fatta di altruismo, riscatto e generosità, magnificamente interpretata dall’attore inglese Bill Nighy, da poco nominato come miglior attore ai Golden Globe.
Mr Williams (un Bill Nighy da Oscar) è il responsabile di un ufficio amministrativo comunale londinese preposto al rilascio di autorizzazioni per l’utilizzo di luoghi pubblici e alla loro eventuale riqualificazione. L’uomo, distaccato e di poche parole, è temuto e rispettato dai propri collaboratori che ne ammirano la puntualità, i suoi modi impeccabili e la sua presenza costante, doti che lo fanno essere una colonna portante dell’ufficio, oltre che un punto di riferimento per tutti. Finché un bel giorno, quest’uomo così irreprensibile, non fa rientro sul posto di lavoro senza dare alcuna giustificazione, decidendo di stravolgere quella sua vita così maledettamente uguale, intrisa di solo rigore, per tornare ad assaporare le piccole belle cose della vita, iniziando proprio con il cancellare quella routine così oppressiva che lo ha anestetizzato per troppi lunghissimi anni.
Il film regala una misurata emozione che tuttavia prende corpo piano piano, facendocene apprezzare la lentezza con cui si insinua in noi, sino a regalarci un finale poetico in cui ognuno può interrogarsi sull’importanza di lasciare una traccia del nostro passaggio su questa terra. È uno di quei film che non si fa fatica a consigliare, una storia universale che non ha una vera e propria collocazione spazio-temporale ma che, nel farci assaporare la felicità di Mr Williams per aver dato un senso alla propria vita, ci mette in pace con noi stessi e con tutto ciò che ci circonda.
data di pubblicazione:23/12/2022
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da Daniele Poto | Dic 23, 2022
(Teatro Vascello di Roma, 20 dicembre 2022/22 gennaio 2023)
La meditata ultima performance di uno showman che è difficilmente recensibile. Questa volta scenografia spartana ma tanti co-personaggi in scena. Corpi plasmabili e poco parlanti.
Antonio Rezza rappresenta un solitario caso a parte nel teatro italiano. Come Carmelo Bene, anche se imparagonabile al genio di Campi Salentina. Come si fa a giudicare un teatro che non è solo di parola, non è solo di azione ma è molto di complicità, di provocazione. Basti pensare che Rezza in scena finge di copulare con una donna della prima fila oltre che con la prima madre, in incestuoso simulato amplesso e che, a un certo punto, si propone impudicamente completamente nudo. Teatro che ha scavallato ogni pudore in un tentativo iperrealista di descrivere la realtà, non scevro da pronunciamenti politici , pur essendo le mille miglia lontano da Brecht. E Rezza alimenta un mito e un pubblico fedelissimo per riempire puntualmente il teatro della Kustermann, tutte le sere, per un mese fino all’apoteosi dello spettacolo di Capodanno inclusivo di una demenziale asta di beneficenza a prezzo morigerato e a portafoglio libero. Per dire della sua empirica presenza tra l’altro in questi giorni alla Sala Troisi si può gustare anche una sua opera filmica. Questa volta in scena Rezza non si presenta provvisto del solo abituale partner muto Ivan Bellavista ma si circonda di figure spalla che manipola poco democraticamente a suo piacimento. Entra e esce da una porta, inventa una parete di vetro che proibirebbe la percezione delle parole emesse, demonizza il concetto sacrale della famiglia facendo incontrare parenti che a stento si riconoscono in un carosello interminabile di saluti. L’apoteosi della destrutturazione dell’incongruo in un teatro che è pure funzionalmente meccanicamente studiato e in cui il suo corpo-acrobata recita il ruolo più importante. Porte che si aprono sul nulla e in cui il bussare diventa pura schizofrenica ripetizione.
data di pubblicazione:23/12/2022
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