da Paolo Talone | Gen 22, 2023
(Teatro Quirino – Roma, 17/29 gennaio 2023)
Leonard Vole viene accusato dell’omicidio di Emily French, una ricca donna che era disposta a lasciargli la sua eredità. Sul banco dei testimoni compare a deporre contro di lui la moglie, Romaine Heilger. Sarà l’avvocato Sir Wilfrid Robarts a difenderlo, ma il caso è molto più complesso di quello che appare. In scena al Teatro Quirino di Roma il perfetto dramma giudiziario della ‘maestra del giallo’ Agatha Christie.
Non capita spesso nel panorama dei teatri italiani di veder rappresentati testi che altrimenti rimarrebbero a prendere polvere sugli scaffali delle nostre librerie. È un bene allora che ci siano registi come Geppy Gleijeses che hanno il coraggio di portare in scena grandi autori poco frequentati, come accadde l’anno scorso con Processo a Gesù di Diego Fabbri e quest’anno con Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1953) di Agatha Christie. L’indiscussa “regina del giallo” ha avuto più fortuna per i romanzi che per i suoi lavori teatrali, tra cui però compaiono capolavori come quello in scena al Quirino in questi giorni e il ben più famoso Trappola per topi (The Mousetrap, 1952), entrambi adattati da due racconti. Ma il coraggio risiede anche nel proporre al pubblico uno spettacolo della durata di due ore senza intervallo – un tempo che non siamo quasi più abituati a concedere a un prodotto culturale – a cui è necessario prestare molta attenzione per apprezzarne il perfetto meccanismo dell’indagine e il realismo di un linguaggio accurato nella terminologia legale. Si apprezza in particolare la volontà del regista Geppy Gleijeses di rispettare il testo nella sua totalità, senza tagli o ammodernamenti – se si fa eccezione per l’aggiunta di alcune battute sul finale che riscattano la figura femminile di Romaine – per una messa in scena efficace e fedele. Prodotto dalla Gitiesse Artisti Riuniti in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto, Testimone d’accusa non può essere portato in scena senza tener conto dei dettagli sui costumi sociali in cui è ambientata l’opera. Il dramma è fortemente contestualizzato e Geppy Gleijeses, per nostra fortuna, lo rispetta.
Al centro dell’indagine c’è la figura di Leonard Vole che viene accusato di omicidio. È un personaggio in apparenza buono, semplicione, che cattura la nostra simpatia soprattutto per l’interpretazione di Giulio Grosso, che ne sottolinea con bravura eccezionale l’ingenuità. Una coppia di avvocati prende le sue difese. L’avvocato Mayhew (Antonio Tallura) e Sir Wilfrid Robarts, ruolo affidato a Geppy Gleijeses in sostituzione di Giorgio Ferrara, assente per una lieve indisposizione. Non compare quindi nessun Poirot o Miss Marple a investigare sui fatti, ma Sir Wilfrid ne è uno stretto parente. Non manca la pipa a caratterizzare il personaggio. Animato dal dubbio e da una sottile intelligenza, conduce la sua inchiesta prendendo a bersaglio la moglie di Leonard, la tedesca Romaine Heilger interpretata da Vanessa Gravina. Quest’ultimo personaggio è senza dubbio il più complesso di tutta la pièce e insieme quello più teatrale, per profondità psicologica e capacità di trasformazione. Vanessa Gravina dimostra di aver compreso a pieno le ragioni e il mistero che si celano dietro la sua Romaine. È un personaggio quasi pirandelliano per la forza che ha nel saper mascherare la verità che porta dentro, nonostante i pregiudizi della corte. È una donna, “Ma chi vuoi che creda a una moglie” dice Sir Wilfrid, e per di più straniera di un paese che era stato in guerra con l’Inghilterra fino a pochi anni prima. Il suo temperamento algido, privo di emozioni, in realtà nasconde una nobile motivazione che sarà il pubblico – presente in sala, ma anche scelto in piccolo numero ogni sera per essere presente sulla scena – a giudicare le sue azioni e a darle o meno l’assoluzione.
data di pubblicazione:22/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 19, 2023
(Teatro Argentina – Roma, 17/29 gennaio 2023)
Il crudo apocalittico sguardo distruttore di Bernhard filtrato dalla sensibilità della più anziana ma non doma coppia teatrale della scena. Pessimismo cosmico, strali sulla realtà. Irrecuperabile un senso logico della vita.
Glauco Mauri a 92 anni ha ancora la tensione di mettersi in gioco sul testo di uno dei drammaturghi più vicini alle sue corde. Con l’umiltà di debuttare ad Acquapendente per poi scendere a Roma. Mestiere ed esperienza non mancano nella scansione a due tempi, personalizzata a misura dei due soci. Sturno interpreta un riformatore che monologa in attesa di ricevere una laurea honoris causa contraddittoria che gli riconosce i meriti di una tesi che lui stesso nel contesto distrugge alla radice. Vistose ipocondrie e stalking nei confronti della moglie ridotta a poco più di una cameriera e inserviente. La cerimonia sarà preparata nei minimi particolari secondo il suo spirito programmatico ma il discorso radicale che accompagnerà la proclamazione sarà la negazione radicale di ogni possibile riconoscimento in un flusso delirante la cui logica invano si appiglia a Voltaire Pascal, Montaigne, i filosi citati. Né meno pessimistica è la scansione del secondo tempo a misura di un Mauri la cui energia scenica è ovviamente in calando. Lo sfogo è di un attore in declino, il mitico Minetti, che si riaffaccia al teatro dopo trenta anni rievocando antichi successi e catastrofiche cadute. Accanto a lui si affastellano fantasmi e solitudini a significare il suo tragico stato di isolamento che è un po’ la metafora del tentativo intellettuale di riuscire a decifrare la realtà. Inguaribili misantropi o spietati e realisti profeti di realtà? Certo, l’opera ha l’effetto di una doccia fredda sullo spettatore, una energica spruzzata di cinismo. Tra l’altro nel testo si discetta su una Roma ripugnante e su un orribile Svizzera, destando qualche sorrisino in platea.
data di pubblicazione:19/01/2023
Il nostro voto:
da Salvatore Cusimano | Gen 18, 2023
Di fronte alla mancanza di offerte di lavoro, Antonio (Antonio Albanese), attore appassionato ma spesso disoccupato, accetta un lavoro offertogli da un vecchio amico e collega, come insegnante di un laboratorio teatrale all’interno di un istituto penitenziario. All’inizio titubante, scopre del talento nell’improbabile compagnia di detenuti e questo riaccende in lui la passione e la voglia di fare teatro.
Tratta da un film francese di successo, Un anno con Godot (2020) di Emmanuel Courcol, la storia di Grazie ragazzi è ispirata ad un fatto realmente accaduto nel 1985 in Svezia, quando l’attore e regista svedese Jan Jönson decise di mettere in scena Aspettando Godot di Samuel Beckett con i detenuti del carcere di massima sicurezza di Kumla.
Riccardo Milani torna in sala con una commedia dai toni dolci e amorevoli, servendosi del suo affezionato e poliedrico Antonio Albanese, in un ruolo più emozionante e profondo che mai. La storia mette in evidenza il valore del teatro come luogo di libertà e di salvezza, soprattutto se fatto in un contesto sociale complicato come può essere il carcere. Il teatro è qui salvifico e nel film ci viene consegnato nel suo significato più vero ed essenziale, con la scelta azzeccatissima di paragonare l’attesa di Estragone e Vladimiro nella celeberrima opera di Beckett con quella dei detenuti del carcere di Velletri, nelle celle sempre in attesa dell’ora d’aria, delle visite dei parenti o amici, dei pasti o del momento in cui riassaporeranno ancora la libertà.
Il cast e la sceneggiatura (anche se non proprio originale) regalano al pubblico un’opera meritevole e schietta, sicura sul messaggio che vuole trasmettere.
Il testo e la canzone Liberi di volare, di Vasco Rossi, è un degno sottofondo finale che rende, in conclusione, Grazie ragazzi una bella parabola sulla vita, sul teatro e sulle sue verità.
Menzione speciale, come sempre, per Antonio Albanese, cui viene cucito addosso il ruolo dell’attore disoccupato con ancora qualcosa da comunicare; si ride, ci si commuove, ci si fa mille domande, per un’opera che, grazie al passaparola, riporterà al cinema il pubblico che merita.
data di pubblicazione:18/01/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 17, 2023
(Teatro Vascello di Roma, serata unica, 16 gennaio 2023)
Si fa presto a dire reading. Qui c’è qualcosa in più oltre alla memoria dei Verdastro: le percussioni creative di Canale, i movimenti di scena, la magica atmosfera di un teatro sempre gremito.
Spettacolo breve, intenso, tagliante ad alta tensione emotiva. La “ninna nanna” conclusiva, cara a Trilussa, che è quasi un anticipato bis, è la negazione del tema della guerra che risuona quanto mai attuale quando ci si avvia verso il triste anniversario del primo anno di conflitto ucraino. La dissacrante voce del Belli trova un microfono duttile in un set non occasionale. I palpiti del teatro non dormono mai, neanche il lunedì, quando c’è una voce forte e ispirata che rianima la memoria di un poeta che è vanto dell’Italia e non solo di Roma nell’universalità del suo messaggio spesso dissacrante, fieramente laico. Verdastro è rapito e rapisce non mancando di inserire una frecciata contro il malcapitato che, per un evidentemente insopprimibile bisogno, accende il telefonino nel climax della performance. Belli sul piano più alto della critica, Trilussa leggermente più in basso, ma comunque uniti e sinergici nel far ascendere il dialetto romanesco verso l’accezione di lingua vera e propria. Verdastro coadiuva le percussioni con leggeri passi di danza mostrando lo spessore della preparazione. C’è un carattere didattico oltre che artistico nell’esibizione che dovrebbe avere un valore anche per le scuole, travalicando il peso del linguaggio franco che qualche benestante definirebbe scurrile. Ma è un eccesso retorico che conferisce forza soprattutto quando vengono rivisitati con acutezza narrazioni bibliche come il sacrificio di Isacco. La poesia, la danza, la musica, la parola al centro del teatro senza che nessuna di queste prenda il sopravvento.
data di pubblicazione:17/01/2023
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 16, 2023
(Teatro Belli – Roma, 6/7 dicembre 2022)
Rehana è una ragazza curda che sogna di diventare avvocato. L’attacco dell’Isis alla sua città, Kobane, la costringe a imbracciare il fucile per difendere la sua terra. Una storia di coraggio e sacrificio che ha per protagonista una straordinaria Anna Della Rosa.(ph. Lanna)
In pochi si ricordano della città curda di Kobane, situata a pochi chilometri dal confine con la Turchia, nel nord-est della Siria. Quando venne assediata dall’Isis, tra il settembre del 2014 e il marzo del 2015, Rehana aveva appena cominciato a studiare Legge all’università. Il suo desiderio era diventare avvocato, ma a causa della guerra è costretta a imparare a usare il fucile per difendere gli ideali di libertà e giustizia cari al suo popolo. La regione in cui vive è il Rojava, un’area de facto autonoma dove vige un confederalismo democratico che ha tra gli obiettivi quello dell’emancipazione della donna. Rehana rappresenta tutto quello che Daesh odia: donna, liberale, istruita. Fu il padre contadino a insegnarle a sparare, quando da piccola la portava nei terreni coltivati dalla sua famiglia da generazioni. Le insegnò anche a non abbassare mai gli occhi di fronte al nemico.
L’esito degli scontri segnò la vittoria curda, grazie all’impegno decisivo e all’eroico sacrificio di donne e uomini che, come lei, facevano parte delle Unità di protezione popolare (YPG). Henry Naylor, autore della pièce, non è nuovo nel trasportare in teatro storie realmente accadute di persone vittime della guerra. Le vicende che racconta parlano di torture, stupri, soprusi, decapitazioni. In generale di argomenti che si inseriscono a ragione nelle tematiche trattate dal teatro contemporaneo inglese, interessato a indagare il lato doloroso dell’umanità. A buon diritto lo spettacolo è stato inserito all’interno di Trend, la rassegna di drammaturgia britannica diretta da Rodolfo di Giammarco, ed è stato forse uno dei brani più potenti andati in scena in questa XXI edizione. Prodotto originariamente nel 2018 dal Teatro Nazionale di Genova, la versione vista al Teatro Belli è una produzione TPE (Teatro Piemonte Europa). Tradotto da Carlo Sciaccaluga e diretto da Simone Toni, lo spettacolo ha per protagonista Anna Della Rosa, per la prima volta sul palco di Trend. Ci auguriamo di rivederla ancora.
Anna Della Rosa dona tutta sé stessa al testo. I suoi movimenti sono ben calcolati e le sue emozioni perfettamente calibrate. Non ci sono sbavature o esagerazioni nella sua recitazione. Di fronte al male più atroce la sua voce si fa metallica, senza perdere però di intensità. Questo suo modo di raccontare la storia cattura lo spettatore più che le immagini di guerra che le scorrono alle spalle. Il pubblico è metaforicamente fatto prigioniero. Anna Della Rosa assorbe e catalizza su di sé tutta l’energia della sala. A mettere pausa al flusso ininterrotto di violenza c’è solo la musica. Il canto della liberazione curdo risuona nell’aria e, come le luci, scandisce le ore di una lunga giornata che inesorabili scorrono fino al sacrificio finale. Il teatro si conferma di nuovo lo strumento eccellente e necessario per comprendere il mondo e la storia che ci vede protagonisti.
data di pubblicazione:16/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 14, 2023
(Teatro Basilica di Roma, 10/15 gennaio 2023)
Una strada è il riflesso del cambiamento. Gli artigiani che diventano supermercati, riferimenti precisi si trasformano in non luoghi. Un outing calabrese con valore universale.
Il giovane La Ruina scende dal Pollino a Castrovillari e con il pretesto di un apparente apologo ci racconta le trasformazioni di una società non solo calabrese. All’inizio sembra l’inurbamento in una metropoli, poi progressivamente tutto prende contorni familiari. I negozianti hanno un soprannome, il bar di famiglia dopo le iniziali difficoltà funziona e si ha un solo lontano sentore della ‘ndrangheta. Il raccontatore è un bravo affabulatore che non cerca facili effetti nella risata ma semmai smuove per tutti i 90’ minuti del racconto un quieto e partecipato sorriso tanto che alla fine quasi ti sembra di far parte della sua di famiglia. Scena spoglia, atta simboleggiare una via dello struscio che può essere percorsa in due o in trenta minuti e in cui pulsa il cuore di una cittadina a cui non manca niente per essere vista dagli occhi del provinciale come una piccola capitale. L’autore si abbandona a un dialetto comprensibilissimo e smuove emotività sopite. E nel racconto passano affetti familiari, bozzetti regionali, un percorso di crescita e di formazione che contiene le basi personali dell’attuale presente ma, fuori dall’individualismo, anche un pezzo di storia d’Italia con la sensibilizzazione politica, le Brigate Rosse, l’affrancamento dalla Calabria. Nostalgia, rimpianto ma anche realismo nel giudicare i limiti di una percezione. Il teatro di La Ruina è pacato, sensibile e l’idea nella sua originalità logistica funziona. Davvero in quei duecento metri di percorso si riflette vita e limiti di quella comunità. Struggente e fotografica la descrizione dei genitori riflessa da quel ragazzo-autore di cinquanta anni fa.
data di pubblicazione:14/01/2023
Il nostro voto:
da Salvatore Cusimano | Gen 13, 2023
Mike White, ideatore/sceneggiatore/regista della seconda stagione, così come anche della prima, torna a mettere alla gogna la classe facoltosa statunitense, in una serie di sette episodi incentrati sulle traversie personali e professionali dello staff e degli ospiti di un resort durante il corso di una settimana. La prima stagione è ambientata alle Hawaii, mentre questa seconda in Sicilia, con location da sogno tra Taormina e Cefalù. Tra panorami mozzafiato con vista sul mare e antichi palazzi, si alternano le storie dei ricchi ospiti americani, che porteranno con sé non solo le loro valigie, ma una serie di vissuti personali pronti ad intrecciarsi e ad esplodere.
Il meccanismo narrativo è tipico di un certo tipo di serialità, così come anche di un certo tipo di cinema, e cioè con un omicidio nella prima scena e un balzo indietro sulla linea del tempo per ricostruire movente, dinamiche e colpevole. È una storia corale con protagonista assoluta la ricca ereditiera Tanya, una meravigliosa Jennifer, vincitrice recente di un Golden Globe; poi c’è la coppia di neo sposini che si è portata dietro il migliore amico di lui e sua moglie per fare vacanza di coppia; ci sono tre generazioni di Di Grasso: nonno, padre e figlio ventenne, venuti in Sicilia per riportare l’anziano vecchietto a visitare i suoi luoghi originari; ci sono le escort di lusso Lucia e Mia, giovanissime ragazze del posto a caccia di clienti facoltosi tra gli ospiti del lussuoso resort.
Sono gli ultimi episodi che danno un senso al tutto, potendo essere considerati quasi come un film unico, dove si ricompongono tutti i pezzi del puzzle. Nel cast anche la nostra Sabrina Impacciatore, direttrice dell’albergo, una scommessa decisamente vinta per un’attrice che in Italia non ha avuto la giusta ricompensa per molti ruoli avuti, ma mai sottolineati abbastanza. Le altre attrici italiane, calatesi perfettamente nelle parti, apportano alla serie quel valore aggiunto di “italianità”, che è molto piaciuto in America.
La scrittura risulta molto sottile ed efficace, accompagnata anche da una colonna sonora che ripercorre la storia della musica italiana con brani di Alan Sorrenti, Franco Battiato, Mina, Domenico Modugno e Fabrizio De André, ed in definitiva, questa seconda stagione sembra avere tutto in regola per mietere ancora successo, dopo i meritati premi avuti.
data di pubblicazione:13/01/2023
da Daniele Poto | Gen 12, 2023
(Teatro Argentina – Roma, 10/15 gennaio 2023)
Un grande affresco corale che non tradisce La Capria ma lo adatta con coraggiose soluzioni sceniche. E chissà che Andò non pensi anche a trarne un film dopo questo fortunata interpretazione, ricambiata da un costante tutto esaurito di un pubblico plaudente.
Un capolavoro epocale del 1961 (Premio Strega) che presentava non trascurabili problemi di messa inscena per un racconto spezzato, asincrono. Si tratta di restituire un mood e un’atmosfera e dunque azzardare una scommessa. Si propone felicemente il clima di amicizia di una generazione di benestanti napoletani, immersi nel liquido amniotico dell’acqua, terreno delle loro scorribande (anche amorose), della vita di circolo, dei debiti di gioco, del chiacchiericcio, di una Napoli fortemente annusata, insieme amata e detestata. Napoli ti ferisce a morte dicono in coro molti dei protagonisti. Il raccordo funzionale avviene nella seconda parte quando tutti interagiscono in un’idea tavola imbandita ma ognuno seduto a debita distanza dall’altro. Il tempo passa. C’è chi si trasferisce a Milano, chi a Roma, i legami si allentano a denotare lo scorrere del tempo. Dal dopoguerra all’atmosfera degli anni ’50, i prodromi del boom. Arco temporale di undici anni. E non è la più stessa cosa. Il fervore declina in malinconia, la nostalgia per qualcosa che si è perso. Uno splendido lavoro corale per 16 attori con grande uso di scenografie mirate e brillanti, a tratti luccicanti. Polifonie di storie, incastri, di una Napoli borghese immersa in un grande affresco collettivo. Un fondale per una Napoli libera ma insieme oppressiva che va verso un progressivo disfacimento e verso una totale perdita di valori. Con il soggetto femminile spesso ridotto a comparsa. Ma un Titanic senza drammi che sbatte contro l’iceberg metaforico mentre l’orchestrina di bordo continua a suonare.
data di pubblicazione:12/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 11, 2023
Una storia nera che si fa sempre più torbida con il passare dei minuti. Reticolo di bugie, di mancate rivelazioni, di doppi giochi secondo uno stile di racconto molto francese. Solo che a furia diversivi il film si perde e rivela una sostanziale mancanza di profondità.
Un plot che fa pensare a Patricia Highsmith e a L’Amico Americano ma anche a Chabrol. Un furto d‘identità nel sogno di ascesa sociale di una parvenue impiegata in un’azienda di congelati di pesce. Mette in piedi un piano diabolico nel segno di Chabrol per il quale è necessaria la massima disponibilità alla verosimiglianza dello spettatore. È davvero così facile riprodurre una carta d’identità falsa quando in circolazione ce n’è un’altra, dell’intestataria originale, identica? La pellicola si affida a una serie random di colpi di scena ma calca troppo la mano sul continuo rovesciamento di piani fino a far sorgere una domanda spontanea: ma in quella famiglia chi è davvero il più cinico?. Eppure basterebbe cambiare l’articolo del titolo per ricondurci nel vivo di una pellicola scollacciata all’italiana. Ma quello vero (L’origin du mal) non sarebbe stato troppo invitante per il pubblico italiano. Film di nicchia e in parte di genere che può trovate estimatori senza attendersi risultati sensazionali al box office. Il nido di vipere o il conglomerato di parenti serpenti è vivo solo in ragione dei soldi e dell’eredità. Non cederemo alla tentazione dello spoiler ma ci saremmo volentieri risparmiati le colluttazioni finali per una conclusione più fine, psicologica e aperta. Non sarà happy end, almeno questo possiamo scriverlo. Cast molto omogeneo e sinergico. C’è fantasia, creatività di sceneggiatura, manca l’esprit de finesse di un tocco leggero e d’autore. Scenario molto francese con frequenti andirivieni dall’isola turistica di Porquerolles.
data di pubblicazione:11/01/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Salvatore Cusimano | Gen 9, 2023
La serie creata da Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana per Prime Video, prodotta da Indigo Film in 6 episodi e disponibile dall’8 dicembre 2022, racconta l’incredibile storia di Nino Scotellaro, pubblico ministero siciliano che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro la mafia e che improvvisamente viene accusato di essere uno di coloro che ha sempre combattuto: un mafioso.
Si respira un forte senso di novità e di originalità in questa avvincente serie italiana, un po’ crime e un po’comedy, con l’aggiunta di un’ironia amara tipica del nostro Bel paese, che rende un’operazione come quella di Prime Video, una vera e propria scommessa riuscita. I punti di forza sono il dialetto di un immenso di Luigi Lo Cascio (Nino Scotellaro) e la bravura di un’insolita ma credibilissima Claudia Pandolfi (la compagna Luvi Bray), avvocato molto in gamba il cui padre era stato ucciso dallo stesso nemico comune (Suro).
Si nota subito il richiamo ad un altro capolavoro del mondo del piccolo schermo, ovvero Breaking Bad. Il professore Walter White, da insegnante di chimica diventa boss dello spaccio di anfetamina portando così la mente dello spettatore al collegamento con la figura di Nino Scotellaro: il ‘buono’ che diventa ‘cattivo’.
Insomma, in The Bad Guy ci sono influenze che vengono trattate con un codice unico e completamente diverso da quello visto finora, evoluto, sfrontato, diretto ma con delle tonalità di detto-non detto che tengono lo spettatore “appiccicato” alla serie fino all’ultimo minuto. Il tutto condito con una serie di brani musicali della tradizione italiana e non, cui si aggiunge un briciolo di nonsense (ad esempio il videoclip musicale in cui compaiono Colapesce e Dimartino per promuovere l’acquapark Wowterworld), tutti fattori che rendono la sceneggiatura profonda e al contempo leggera, e che fanno diventare ancora più iconica questa serie che farà parlare di sé ancora per molto, così come porterà sicuramente a fenomeni di marathon viewing per lo spettatore “malato” di serie tv.
data di pubblicazione:09/01/2023
Gli ultimi commenti…