da Daniele Poto | Ott 11, 2023
(Teatro Vascello – Roma, 10/22 ottobre 2023)
Karamazov è un vestito cucito addosso al quasi novantenne Umberto Orsini che contende a Glauco Mauri l’elisir di longevità sulla scena teatrale. Un’ora di accorato one man show, mai sopra le righe per cinque minuti di ininterrotti applausi finali. Per una conferma (se mai ce ne fosse bisogno) sulla grandezza di un attore.
Folgorante avvio di stagione per il prestigioso teatro romano che esordisce con un sold out e, contravvenendo alle proprie abitudini, (proposte di breve durata) allunga a quasi due settimane le esibizioni di Orsini, sopravvissuto di punta di un teatro dalle proposte sempre più esangui. Qui si va sul sicuro con un antico cavallo di battaglia. Ivan racconta la propria storia cercando di chiarire le scaturigini di un delitto che ha radici profonde all’interno della propria famiglia. Una lunga allucinazione tra delitto e castigo, con il tentativo di fare chiarezza sul’esistenza di Dio, sulla compassione e la colpa. Se ci si converte all’amoralità del mondo tutto diventa possibile. E dunque la mano dell’assassino è guidata da un mandante occulto che piano piano si manifesta. Non è un baedeker del romanzo ma la ricerca del suo tema più intricato e sentito. Alla fine dello spettacolo com’è giusto Orsini è provato dalla fatica e dalla tensione respirata in scena ma evidentemente confortato dall’entusiastica reazione di un pubblico assorto e rapito. Spettacolo di memoria, di tensione, di esasperato vitalismo dove Dio e diavolo sono poli della stessa medaglia. L’immersione nel sottosuolo dei retro pensieri dopo un parricidio riporta al senso delle contraddizioni, l’Abc ovvio di un buon teatro dove sogno, realtà, proiezione immaginaria continuamente si confondano. E la scena serve egregiamente il nostro gagliardo protagonista attoriale.
data di pubblicazione:11/10/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 9, 2023
(Teatro delle Muse – Roma, 5/15 ottobre)
Difficile immaginare il carattere malizioso del ridimensionamento. Questioni di corpo più che di cuore. In effetti la farsa mira alla pancia dello spettatore, non si pone questioni di politicamente corretto ma attinge alla polpa popolare della comicità. In questo senso lo spettacolo, nei limiti riconoscibilii del genere, va pienamente a segno.
Onore al merito di Geppi De Stasio che quasi monopolizza la stagione in fieri del Teatro di cui è fiero protagonista. In scena un chirurgo plastico che fa uso e abuso della professione ma che impatta in un cliente particolare, un mafioso che vuole ritoccare i propri parametri sessuali e nella massima segretezza. Una morale spregiudicata di pura attrazione fisica domina lo spettacolo con le figure femminili della moglie e della suocera che non si pongono troppi problemi di legame nel reclamare la propria agognata soddisfazione. Due tempi snelli con un secondo ellittico che risparmia inutili tergiversamenti e va dritto al sodo verso un inaspettato colpo di scena che rovescia perentoriamente i rapporti di forza. Si ride, a volte senza ritegno, per l’originalità del plot. all’altezza del mainstream e dei tempi. Di Stasio tocca vari registri del proprio repertorio: arroganza, sudditanza, furbizia e, alla fine, segna un gol in contropiede. Non c’è volgarità nella trama nonostante la delicatezza del tema trattato. Un sorriso sulle labbra è la richiesta che viene inconsciamente fatta al pubblico e la risposta della platea è positiva. Cast affiatato e brava la Sanzò a recitare double face: dai modesti panni di una donna sciatta e dimessa allo sfarfallante look da pin up in cui rivela tutta la propria seducente procacità, qualcosa di praticamente irresistibile. Quanto ai malviventi sono anch’essi pienamente in parte.
data di pubblicazione:09/10/2023
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Ott 7, 2023
(Roma Europa Festival 2023)
Il regista svizzero Milo Rau, appena nominato direttore del Wiener Festwochen, chiude la Trilogia degli antichi miti, cominciata con Orestes in Mosul e seguita da Il Nuovo Vangelo con l’opera Antigone in Amazzonia, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma il 3 e il 4 ottobre, nell’ambito di Romaeuropa Festival 2023. Uno spettacolo che riadatta l’Antigone di Sofocle associandola ad un preciso episodio, il massacro di Eldorado do Carajàs una strage, avvenuto il 17 aprile del 1996, nella quale diciannove contadini, che avevano occupato per protesta un tratto di autostrada, furono uccisi dalla polizia militare. Corpi lasciati senza sepoltura che sanno di oltraggio e condannati a non avere mai pace, come per Polinice, fratello di Antigone.
(foto Kurt Van Der Elst)
Con Antigone in Amazzonia prosegue il percorso di Rau al REF nel segno di un teatro che, attingendo dalla classicità occidentale, si confronta con i grandi temi della nostra attualità. Lo spettacolo è stato pensato ed in parte realizzato nello stato brasiliano del Parà. Qui insieme a MST – Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra, ad attori professionisti e non professionisti e coinvolgendo le popolazioni indigene, Rau ha ridisegnato la tragedia greca utilizzandola come metafora per costruire un affondo sulle conseguenze prodotte dal conflitto tra sviluppo senza controllo e gli ancestrali proprietari della terra.
Nella primavera 2019 Milo Rau si reca nello Stato brasiliano del Parà dove le foreste bruciano senza sosta ed entra in contatto con le lotte degli indigeni e con il Movimento decidendo di adattare la tragedia di Antigone alla tragedia contemporanea che minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità mettendo insieme attori professionisti e no e trasponendo in teatro e video, presente e passato, realtà e finzione, su più piani visivi e temporali.
Sul palco del Teatro Argentina, coperto da uno spesso strato di terriccio si muovono soltanto Pablo Casella e Frederico Araujo, insieme a De Bosschere e De Tremerie. Manca all’appello Kay Sara: l’attrice e attivista brasiliana, nella quale Rau aveva riconosciuto Antigone, ha infatti abbandonato la produzione prima che questa trovasse compimento ritirandosi nel profondo dell’Amazzonia per stare vicina al suo popolo.
A interpretare il ruolo della figlia di Edipo è quindi Araujo, in un’operazione di sovrapposizione di generi: è lui, in una delle sequenze più forti, a ricordare quanti e quali crimini abbiano insanguinato la comunità LGBTQIA+ brasiliana, mentre urlando raccoglie manciate di terra dal palco e la getta. Kay Sara compare solo in video, insieme a un coro composto da contadini, sindacalisti e lavoratori rurali di Marabà, alcuni dei quali sopravvissuti al citato massacro perpetrato dalla polizia nel 1996, durante una manifestazione pacifica avvenuta nello Stato di Parà. Come nella tragedia di Sofocle, il coro espleta il racconto degli ambiti drammaturgici più importanti; i cinque atti della tragedia classica sono qui introdotti da un prologo, eseguito in portoghese sulla musica live di Casella: ritornello del canto è il più celebre verso del dramma “molte cose sono mostruose, ma nulla è più mostruoso dell’uomo”.
Immagini nitide e devastanti: la mattanza, eseguita con crudeltà e freddezza, strazia i corpi e le anime; calci e pugni si riversano sul gruppo, finché un proiettile sparato nella nuca dei manifestanti spegne il corteo nel sangue e nel silenzio. Rau sdoppia l’azione e il tempo tra palco e video: le immagini cinematografiche, il corpo di una delle vittime che Antigone, contro il diktat di Creonte, vuole seppellire; il lamento di Kay Sara è una litania straziante e ancestrale, un compianto funebre che tuttavia si interrompe, improvvisamente, con una frase pronunciata verso l’obiettivo della telecamera. “Stop filming”, urla l’attrice, ribandendo come l’arte non possa lenire il dolore.
Non è però con il rimpianto di Creonte, o con la profezia così realistica del cieco Tiresia, che Milo Rau chiude la sua Antigone. C’è un sesto atto inatteso. Un secondo video mostra un esito diverso del massacro del ’96: ecco i morti alzarsi in piedi, sotto lo sguardo attonito dei presenti; ecco i poliziotti levarsi i caschi, posare i manganelli e i fucili; ecco tutti stringersi le mani, abbracciarsi, e intonare un canto di riconciliazione, la pacificazione, impossibile e commossa, tra vittima e carnefice.
data di pubblicazione:07/10/2023
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 6, 2023
(TeatroLoSpazio – Roma, 5/8 ottobre 2023)
Pierre, stimato oncologo, e Mathilde, affermata scrittrice, prendono coscienza che il loro (apparentemente) collaudato matrimonio è alla deriva. Lei è appena uscita dal carcere, dopo aver scontato una pena che, sia pur di appena tre mesi, ha completamente stravolto la vita di entrambi. Ma, di fatto, perché questa sentenza è tanto pesante quanto ingiusta? E’ forse così indecente aver avuto rapporti con un giovane appena adolescente?
Il TeatroLoSpazio avvia la propria stagione teatrale con un lavoro impegnativo di Véronique Olmi, autrice francese di opere teatrali e di vari romanzi molto amati dal pubblico e che hanno sempre avuto il consenso positivo da parte della critica. La regia di questa pièce è caduta, come si suol dire, in buone mani visto che ad occuparsene è Daniele Falleri, toscano di nascita ma oramai naturalizzato romano, autore lui stesso di numerose sceneggiature televisive e commedie per il teatro. In Mathilde, cronaca di uno scandalo, si fronteggiano un uomo e una donna, sposati da diversi anni, con una vita alle spalle piena da successi e insuccessi, un po’ come tutti. Sulla scena abbiamo Pierre, intento a inscatolare quanto più cose possibili di Mathilde, i suoi effetti personali, i suoi libri e tutto ciò che serva a cancellare in casa ogni traccia della sua esistenza. La donna irrompe, fradicia per la pioggia e in un orario insolito, forse per prendere le sue cose, forse per chiarire una volta per tutte la propria posizione nei confronti del marito. Il dialogo è serrato e i due attori reggono il ritmo che piano piano riesce perfettamente a catturare l’attenzione del pubblico. Questo continuo beccarsi a vicenda tra accuse e recriminazioni, rimpianti e sensi di colpa mancati, disorienta lo spettatore che non sa proprio che parte prendere. Mathilde, non dà segni di rimorso per ciò che ha fatto né tanto meno mostra vergogna per una sentenza che ritiene ingiusta e anacronistica. L’amore è forse qualcosa che si può definire con certezza? Chi è in grado di stabilirne il significato intrinseco? Forse Pierre ha avuto le sue regioni per sparire durante il carcere di Mathilde o forse avrebbe dovuto avere più comprensione per accettare le motivazioni di un qualcosa che la società giudica come sconveniente? Questo gioco delle parti in effetti costruisce e distrugge ogni possibilità di comprensione, e si assiste a un continuo processo altalenante dove alla fine ci si arrende per stanchezza. Del resto non è proprio necessario arrivare a una conclusione e sembra giusto lasciare i due a chiarirsi tra di loro, se è vero che tra moglie e marito è sempre saggio non mettere il dito.
data di pubblicazione:06/10/2023
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 5, 2023
Harold Fry, insieme alla moglie Maureen, vive una tranquilla vita da pensionato in Kingsbridge, una piccola cittadina nel sud dell’Inghilterra. Un giorno gli viene recapitata una lettera in cui la sua ex collega Queenie comunica che ha un cancro e che è ricoverata a Berwick-upon-Tweed, in un ospizio per malati terminali. A questo punto crede che solo un atto di fede sincera potrà salvare l’amica e decide pertanto di raggiungerla attraversando a piedi l’intero paese…
Quando il talento di una ben collaudata regista come Hettie Macdonald incontra quello di un attore del calibro di Jim Broadbent, non può che generarsi qualcosa di buono, anzi di ottimo. Il film si basa sul romanzo di Rachel Joyce, che fortunatamente ne ha curato anche la sceneggiatura, evitando errate interpretazioni a tutto ciò che lei stessa aveva da comunicare. Un uomo qualunque nell’apparenza, ma che ha invece un travaglio interiore non da poco, un forte rimorso per non aver fatto tanto quanto bastava per salvare il suo unico figlio. C’è quindi un dramma da superare e un lutto forse non ancora del tutto elaborato, una moglie indifferente e una vecchiaia piatta e grigia da affrontare nel quotidiano. Una notizia improvvisa, certo non bella, ma che il protagonista sviluppa per riconvertirla in una prova di coraggio e di perseveranza verso la moglie e soprattutto verso se stesso. Un film quindi sui buoni sentimenti, sugli affetti perduti, e su quelli forse ritrovati, per scoprire che non è mai troppo tardi per darsi degli obiettivi e per impegnarsi in qualcosa che possa andare al di là delle proprie stesse aspettative. Sembra pleonastico affermare, ma il tutto si basa sull’egregia interpretazione del premio Oscar Jim Broadbent e, non da meno, su quella di Penelope Wilton, nella parte della moglie Maureen. I continui primi piani mettono in evidenza una espressività che lascia il pubblico incantato e emotivamente coinvolto nell’intera vicenda, mentre i frequenti scorci della piovosa campagna inglese, evidenziano una profondità di campo funzionale al racconto stesso, quasi a voler accompagnare il protagonista, con i suoi tempi, in un mondo reale e magico allo stesso tempo. Harold sente il bisogno di mettersi alla prova, affronta con determinazione questo lungo pellegrinaggio, un cammino forse di redenzione e di penitenza per non aver fatto abbastanza. La buona riuscita di questo film è anche dovuta a una dinamica narrativa spontanea, poco elaborata, ma non per questo priva di quella sensibilità che allo spettatore piace scoprire e apprezzare al tempo stesso.
data di pubblicazione:05/10/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 3, 2023
(Teatro Vascello – Roma, 29 settembre/8 ottobre 2023)
Al dramma della gelosia che è al centro della vicenda della compagnia di attori girovaghi narrata in Pagliacci di Leoncavallo segue la parabola metafisica dei personaggi dell’atto unico All’uscita di Pirandello. Nato dalla fusione dei due capolavori, prodotto dalla Fabbrica dell’Attore e dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi col sostegno di Armunia e Kilowatt, debutta in un’atmosfera sospesa Pagliacci all’uscita, il nuovo spettacolo di Roberto Latini in scena in questi giorni al teatro Vascello di Roma, segnando l’inizio della nuova stagione teatrale 2023/24.
A un artista come Roberto Latini, tra i più originali della nostra scena contemporanea, bisogna riconoscere l’abilità di saper affrontare con profondità lo studio degli autori classici, da cui sa trarre nuove e coraggiose opere di drammaturgia. Accade anche qui nel suo ultimo lavoro che mette insieme in un’unica lettura Pirandello – già affrontato in altri suoi lavori – e Leoncavallo, compositore e librettista esponente del Verismo di fine ‘800. I testi dei due grandi autori si frantumano per poi rimescolarsi, tra echi di parole nuove, in qualcosa di inaspettato. Ne risente forse la comprensione cronologica dei fatti narrati (di certo non aiutata dalla distribuzione delle parti, in numero superiore rispetto agli attori sulla scena), ma l’esperienza che se ne trae è profondamente teatrale.
Il sipario si apre su una scena buia, rischiarata da una fila di lucine, avanzo di un addobbo caduto dal tendone di un circo o di un teatro ora dismesso. Appaiono come tante stelle e, insieme a una finta luna portata a guinzaglio dal poeta attore e regista sperimentale Marcello Sambati, riflettono il loro pallido bagliore sul lago di acqua che ricopre il pavimento del palcoscenico. Lo sciabordio dell’acqua mossa dai piedi degli attori, le luci e i suoni – curati come sempre nei lavori di Latini da Max Mugnai e Gianluca Misiti – realizzano un’atmosfera sospesa, un limbo, una zona di passaggio tra la finzione e la realtà. Un luogo sospeso nello spazio e nel tempo destinato a inghiottire lo spettatore, se questo si lascia catturare dalla poesia del teatro. Ed è in questo incontro tra il reale e l’immaginario, tra la sostanza e l’apparenza, tra il teatro e la vita che si gioca, per un meccanismo di cortocircuiti e incongruenze che avvicinano Leoncavallo a Pirandello, tutta la storia. Il prologo invita lo spettatore a ridere del dramma sulla scena, ma ad avere pietà degli attori che lo recitano. Le parole annunciano la tragedia del delitto d’onore che si andrà a consumare, ma la mimica schernisce nei gesti la morte annunciata e fa sciogliere il pubblico in una risata.
Incongruenza anche nell’uso della maschera: quando l’attore la indossa dice il vero, mentre opera la finzione quando la smette. La stessa risata è incongruente perché nasconde dolore, spasmo e pianto. La Nedda di Pagliacci ride della difformità di Taddeo e riderà ancora quando – una volta uccisa per gelosia da Canio – apparirà fuori dal cimitero in sembianze di anima in attesa di svanire. Questo passaggio nell’aldilà, dove la attende il marito – che continua a vestire la giubba del pagliaccio – oltrepassa i termini della tragedia e, di nuovo, sospende lo spettatore in un tempo eterno, in uno spazio senza confini. Come con un semplice gesto l’attore toglie la maschera e se la riannoda, così il teatro ci mostra chi siamo e chi vorremmo essere nei nostri desideri. Un luogo di sospensione, dove ogni tanto è bello perdersi e ritrovarsi. Chissà se il teatro a la vita, in fondo, non siano davvero la stessa cosa.
data di pubblicazione:03/10/2023
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Ott 3, 2023
Presentato Fuori Concorso all’ultimo Festival del cinema di Venezia, in occasione della consegna del Leone d’oro alla carriera, L’ordine del tempo rappresenta l’ultima fatica di Liliana Cavani dopo una assenza di 21 anni dal grande schermo. Spettatrice d’eccezione alla premiazione ed alla presentazione del film è stata Charlotte Rampling, indimenticata interprete de Il portiere di notte, uno dei capolavori della oggi novantenne regista.
Un gruppo di amici si ritrova per qualche giorno, come è già accaduto negli anni durante le vacanze estive, nella villa di Sabaudia di Pietro e Elsa (Alessandro Gassmann e Claudia Gerini), lui medico e lei avvocato: ci sono l’insegnante di storia Paola e l’economista Viktor, lo psicanalista Jacob e sua moglie Greta; solo Enrico si fa attendere ma, dopo le innumerevoli insistenze del padrone di casa, anche lui raggiunge gli amici lasciando i suoi importanti impegni universitari presso la facoltà di Fisica. Di lì a poco arriverà anche Giulia, fisica ricercatrice, giusto in tempo per festeggiare i 50 anni di Elsa, la padrona di casa. Nel corso della giornata la comitiva apprende la terribile notizia che un meteorite sta per abbattersi sulla terra dalla donna peruviana che presta servizio nella villa, la quale, preoccupata delle sorti della sua famiglia, chiede a Pietro ed Elsa di partire immediatamente. La notizia viene poi confermata, seppur con molte reticenze, anche da Enrico, vistosamente preoccupato, e da Giulia: entrambi, cultori della materia, verranno sottoposti da tutti i presenti ad un enorme numero di quesiti di ogni genere.
E così il nutrito numero di personaggi che anima la scena per tutta la durata del film (che trae ispirazione dall’omonimo libro del fisico Carlo Rovelli), comincia ad “elucubrare” sul concetto del tempo, ad iniziare da Elsa che, nell’affiancare la figlia alle prese con la traduzione di una versione di greco, spiega quante interpretazioni la parola “tempo” possa avere ed il pensiero filosofico che essa sottende. Vero protagonista di tutta la vicenda, il tempo appunto, comincerà a scorrere diversamente per quel giorno che il gruppo di amici passerà assieme: dopo, le loro vite ne risulteranno inevitabilmente modificate.
Sicuramente la cosa che immediatamente la regista ci comunica è che seppur l’argomento sia affrontato da un gruppo eterogeneo di persone, le problematiche che ne scaturiranno investiranno successivamente le singole coppie nel loro vissuto, regalandoci una seconda parte del film più intima e personale: la vita è una specie di viaggio che noi umani facciamo nell’universo secondo un programma che non abbiamo scelto ma che accade, così come tutto accade secondo “l’ordine del tempo”.
Gassmann e Gerini sono affiancati da Edoardo Leo, Ksenia Rappoport (da tanto tempo assente dagli schermi),Valentina Cervi, Francesco Rongione, Francesca Inaudi, Richard Sammel e Angela Molina, un cast per il quale Liliana Cavani ha avuto parole di elogio in conferenza stampa a Venezia per essere stati capaci di esprimere con autenticità e varietà di emozioni ciò che il racconto richiede.
Per chi scrive, nonostante il rispetto e l’ammirazione per la grandezza di una regista come Liliana Cavani, il film non è riuscito a trasmettere le emozioni che ci si sarebbe aspettati di provare, ma soprattutto il cast non è stato sempre all’altezza delle riflessioni che un gruppo “così colto” di persone avrebbero dovuto regalarci. Al pubblico l’ardua sentenza.
data di pubblicazione:03/10/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 3, 2023
regia anche di Arnaldo Catinari, sceneggiatura di Nicola Guaglianone, Pasquale Plastino, Ciro Zecca, Luca Mastrogiovanni, con Monica Guerritore, Max Tortora, Maria Paiato, Sangiovanni, Maria De Filippi, Claudia Gerini, Antonio Bannò, Fabio Traversa, Alessandro Haber
Ha cambiato piattaforma ma non impatto la docu-serie romanzata della vita di Verdone. Dove verità, verosimiglianza e libero arbitrio si amalgamano in un intreccio funzionale per una riuscita narrazione. Ovviamente i siparietti comici si lasciano preferire alle indispensabili avventure sentimentali delle coppie giovani. Ogni attore è perfettamente al suo posto e si perdonano al protagonista anche le comparsate pro audience di personaggi fuori target.
Dieci puntate di facile e piacevole fruizione, neanche troppo tirate per i capelli nel format della serie. Verdone nella fiction tenta la prova del film d’autore ma sembra un novellino nella scelta degli attori. A partire dall’imbranatissimo Sangiovanni: una scelta che è una forzatura del produttore per mostrare il Verdone giovane. Con tanti chili in meno e con la tara di un marcato accento veneto. Comunque ogni disagio ci accomuna al protagonista che quando torna a casa è sempre afflitto da un considerevole stress. Non è facile neanche la vita dei personaggi famosi. Questo è il messaggio subliminale che filtra come sottotesto. Nella folla del ricco cast meritano una citazione Maria Paiato, che passa con disinvoltura dal teatro impegnato a una grande prova d’attrice in uno spettacolo leggero, e il quasi commovente Fabio Traversa, interprete residuale di Moretti e Verdone che in pratica recita se stesso nel disperato tentativo di approdare a una parte nella diffidenza del suo ex mentore Verdone. Dei quasi 300 minuti di serie ci rimane indelebile l’immagine della cialtroneria di Cinecittà dove la figura del produttore ha lo stesso carisma di un venditore di carne umana. Operina già di successo che fa da traino al terzo ciclo di puntate in preparazione. Verdone s’impegna al massimo, compreso un bagno a novembre nel mare limaccioso di Ostia.
data di pubblicazione:03/10/2023
da Antonio Iraci | Ott 2, 2023
Tulgaa vive oramai da anni in città, dove è riuscito a occupare il posto di direttore in un importante albergo a cinque stelle. Un giorno gli viene comunicato che il padre adottivo è gravemente ammalato ed è pertanto necessario che lui ritorni al villaggio per curarlo. Tra le sterminate steppe della Mongolia raggiunge finalmente la casa paterna, giusto in tempo per assistere alla morte del genitore. La sua decisione di rimanere fino all’ultima luna piena di settembre gli permetterà di impegnarsi a portare a termine il lavoro rurale lasciato dal padre e di conoscere il giovane Tuntuulei, ribelle e impavido bambino che conquisterà il suo affetto…
Amarsaikhan Baljinnyam è uno scrittore, attore, regista e produttore mongolo che oramai da anni si è conquistato una posizione non soltanto nel suo paese d’origine ma anche in campo internazionale, soprattutto dopo la sua partecipazione, come attore, nella serie televisiva Netflix Marco Polo. L’ultima luna di settembre è il suo film d’esordio alla regia ed è stato presentato nell’ottobre dello scorso anno al Vancouver International Film Festival dove ha subito ottenuto il consenso della critica e persino un riconoscimento da parte del pubblico. In effetti il film, da poco distribuito nelle sale italiane, ha attirato anche da noi un’attenzione particolare per la delicatezza con cui il regista affronta il tema dell’affettività e, in particolare, quello della genitorialità. I due protagonisti Tulgaa (interpretato dallo stesso regista) e il piccolo Tuntuulei si incontrano nei campi e, dopo i primi attimi di reciproca avversione, tra di loro si verrà a instaurare un rapporto di sincero affetto. Entrambi non hanno avuto un vero padre di riferimento e sono alla ricerca di un sentimento concreto di cui nutrirsi. Le distanze enormi tra le varie iurte, le abitazioni mobili tipiche dei nomadi mongoli, certo non facilitano i contatti sociali e solo in determinate occasioni la comunità locale ha la possibilità di riunirsi per festeggiare qualche evento. Il regista ci rende partecipe delle bellezze sconfinate del suo paese e ci fa capire quanto sia ancora presente in quei luoghi l’attaccamento alle proprie origini e alla propria cultura. Ma c’è anche gente che lascia il villaggio per cercare in città un’agiatezza, difficile da trovare in quei luoghi sperduti. Il film induce a riflettere sui rapporti all’interno della famiglia, anche quando di fatto non c’è. Il bambino vive con i nonni, la madre è assente, anche lei andata in città a lavorare, ed è soprattutto anaffettiva nei suoi confronti. Ecco che Tulgaa diventerà per lui la figura di riferimento, quel padre tanto desiderato e mai conosciuto. È una storia semplice fatta di gente semplice che però riesce a dare quello che può. Terminato il lavoro per il quale si era impegnato, al calare dell’ultima luna di settembre, Tulgaa dovrà fare ritorno in città e staccarsi così dal bambino con il quale aveva instaurato anche un rapporto di complicità. Un distacco certo non facile che porterà in sé una riflessione profonda sull’importanza dei sentimenti e sugli affetti genitoriali. Un film ben costruito, ben interpretato e certamente da non passare inosservato.
data di pubblicazione:02/10/2023
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Set 30, 2023
Helim e Mina sono una coppia molto affiatata e complice. Insieme gestiscono un negozio di caftani nella città marocchina di Salé: Helim è un maleem, un maestro sarto che realizza le sue creazioni attenendosi strettamente alla tradizione secondo cui un caftano deve sopravvivere alla persona che lo acquista, mentre Mina si occupa della gestione del negozio, tenendo a bada una clientela piuttosto esigente. Per far fronte al troppo lavoro i due assumono Youssef, un giovane apprendista che mostra interesse per questa antica arte quasi scomparsa tra le vie storiche della medina, ma l’arrivo del ragazzo sembra minare l’equilibrio della coppia…
Mina, nonostante sia gravemente ammalata, è una presenza chiave nella vita di Helim non solo perché lo ama profondamente, sentimento che il marito ricambia con tenerezza, ma perché difende strenuamente quel suo lavoro così prezioso dalle bizzarre richieste dei clienti che vorrebbero prodotti di alto livello con consegne a breve scadenza, senza affatto comprendere l’arte che un maleem infonde per confezionare uno dei suoi preziosi manufatti. La donna arriva addirittura ad allontanare alcuni di essi, mostrandosi particolarmente respingente nei confronti della moglie di un uomo illustre che lamenta tempi troppo lunghi per la realizzazione di un caftano in seta blu impreziosito da ricami in filo d’oro.
Il caftano blu da poco uscito nelle nostre sale, seppur presentato nel 2022 al Festival di Cannes dove è stato insignito del premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard, racconta una storia semplice in cui la lentezza con cui Helim lavora, i suoi silenzi, i suoi sguardi profondi intrisi di un velo perenne di malinconia ed i suoi piccoli e ripetuti gesti fatti di impercettibili particolari, hanno un peso specifico tale da rendere il film incantevole, profondo, emozionale, oltre che decisamente sorprendente grazie a risvolti non scontati che nella seconda parte si aprono allo spettatore. La pellicola parla d’amore e di altruismo in simbiosi con la fisiologica lentezza di un antico lavoro artigianale che ne è la metafora, verso il quale i protagonisti esigono il rispetto per i tempi di realizzazione così come se ne deve alla persona amata. La delicatezza dei sentimenti e il pudore di questa coppia commuove e fa riflettere, perché riesce a mettere ogni cosa al giusto posto.
Il film è elegante e raffinato, dai dettagli preziosi come quelli che Helim ricama sui caftani, particolari che sono l’emblema di una bellezza che si raggiunge solo con un lavoro paziente, rispettoso e lento, la stessa lentezza con cui in Mina cresce un sentimento di accoglienza verso il giovane Youssef da lei inizialmente respinto.
Gli attori Saleh Bakri (Helim) e Lubna Azabal (Mina) sono due interpreti straordinari: attraverso i loro ruoli riescono a darci un’autentica lezione di vita, fatta di solidarietà e rispetto verso se stessi e verso gli altri in egual misura, insegnandoci sul finale che non bisogna mai aver paura d’amare.
data di pubblicazione:30/09/2023
Scopri con un click il nostro voto:
Gli ultimi commenti…