da Elena Mascioli | Ott 5, 2014
Frances Ha, ovvero del crescere. Non un racconto di formazione, perché la protagonista è una bionda ballerina ormai ventisettenne, ma il tentativo, scanzonato e sconclusionato, come la protagonista del film, di resistere alle prese di coscienza, all’ingresso in un’età cosiddetta adulta. Un Peter Pan in gonnella che si ritrova, senza un preciso progetto o direzione, quasi accidentalmente, a ballare; ma più che in una compagnia di danza in cui non riesce ad entrare, lo fa da una casa all’altra, da una relazione alla “singletudine”, senza un dollaro in tasca, e con un’amicizia del cuore altrettanto strampalata e adolescenziale con la sua Sophie. Con la sincerità di chi, però, non cerca una stabilità e una sicurezza calati dall’alto di una “condotta di vita”, ma vive volteggiando goffamente in una New York dipinta con l’assenza di colori di un bianco e nero accogliente. Gli unici che possono permettersi di fare gli artisti a New York sono ricchi, afferma Frances l’infrequentabile, così definita da uno dei suoi coinquilini. E guardando le immagini, anche senza una vera e propria citazione, sono transitati negli occhi di chi vi scrive la felina Audry di Colazione da Tiffany, rannicchiata alla finestra, ma anche la Sabrina che vola a Parigi, una versione “radical chic” della Bridget Jones britannica, le foglie gialle di A piedi nudi nel parco e…. dialoghi pennellati, degni dell’umorismo di un film nordeuropeo:
– Proust è un po’ pesante
– Beh, però dicono che va letto
– No, intendevo pesante da portare in aereo
Astenersi spettatori in cerca di “trama”.
data di pubblicazione 5/10/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Alessandro Pesce | Ott 3, 2014
Molto spesso il cinema di Pupi Avati ha incontrato, in primo piano o magari in maniera più sottesa e non protagonista, le tematiche familiari. Per limitarci agli ultimi anni ricordiamo Il papà di Giovanna, tutto sommato convincente con qualche eccesso mélo ed Il figlio più piccolo dove la cattiveria, la cialtronaggine d’ambiente e di caratteri sfociavano in un intreccio assai poco strutturato. Qui c’è un figlio insicuro, alle prese con la memoria rancorosa di un padre sceneggiatore di quart’ordine a cui segue, forse, una probabile apertura grazie al personaggio di un’editrice interessata a una biografia dello scrittore di “ filmacci”.
Interessante questa fusione tutta cerebrale tra memoria del genitore e nuova possibile vocazione del ragazzo, ma purtroppo resa maluccio, con i soliti intoppi e sbavature di un poeta non più lucidissimo, ahimè.
Non ci si aspettava del meta-cinema (anche se qualche accenno c’è) e neppure un riferimento all’imperante tema contemporaneo dell’assenza del PADRE, ci saremmo accontentati di una storia intimista meglio raccontata. Scamarcio sempre più maturo, Sharon Stone spaesata ma naturalmente affascinante, discreti ma senza voli gli altri.
data di pubblicazione 3/10/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 1, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)….è arrivata una cometa
Quest’ultimo lavoro del regista statunitense Abel Ferrara (classe 1951) sulle ultime ore, in verità una intera giornata, della vita di Pasolini ci ha lasciato molto perplessi, direi disorientati e sicuramente ci ha delusi nelle aspettative. In questa ultima giornata particolare, tale perché in effetti finisce con la sua morte, Pasolini, ci viene presentato da Ferrara come un uomo dai mille aspetti, come si dice poliedrico: regista, drammaturgo, saggista, linguista, poeta, romanziere. Tutto vero, solo che ci si perde in un labirinto dove tutto sembra essere lasciato in sospeso, indefinito, poco chiaro, direi confuso…
Anche nell’ intervista rilasciata proprio quel giorno fatale a Furio Colombo per la “Stampa” risulta infatti difficile afferrare il vero senso di quel messaggio che Pasolini voleva trasmettere. Qui emerge a stento, direi forse in maniera poco chiara, la radicalità della sua spietata critica verso quella dilagante società borghese tutta votata al consumismo più sfrenato. Intervista che bruscamente interrompe come a confermare l’assoluta inutilità di qualsiasi affermazione di fronte al dilagare della corruzione politica e forse come a presagire quel destino crudele che dopo poche ore si sarebbe appalesato.
Più convincente appare invece il riferimento ad un ipotetico lavoro a cui Pasolini stava dando già forma concreta mediante la scrittura di un trattamento per un film (Porno-Teo-Kolossal). In sintesi si sarebbe trattato di un viaggio tra Napoli e Roma, tra una nuova Sodoma ed una nuova Gomorra, che i due protagonisti, già individuati in Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli, avrebbero effettuato seguendo una cometa. Qui viene evidenziato l’aspetto fantastico della narrazione dove appare come protagonista unico un Ninetto Davoli di oggi accompagnato da un Ninetto Davoli di ieri (Riccardo Scamarcio). I due Ninetto, quali doppia faccia di una stessa figura, al loro arrivo a Roma, dopo essere stati coinvolti, solo come spettatori, alla festa annuale della fertilità (da rimpiangere forse quei tempi in cui ci si scandalizzava per un panetto di burro sulla scena) intraprenderanno un faticoso cammino verso l’alto, forse in un estremo anelito di redenzione.
Pasolini ci vuole così dire che il tentativo di raggiungere un paradiso, comunque lo si concepisca, non porterà a nulla. Infatti la visione lontana di questo nostro mondo da parte dei protagonisti non li condurrà a nessun paradiso ma ad una consapevolezza, forse, che il vero paradiso bisogna cercarlo più in basso.
Discutibile la scelta degli attori: da Willem Dafoe nei panni di Pasolini a quella di Ninetto Davoli, che interpreta se stesso, a seguire Maria de Medeiros quale Laura Betti. Assolutamente inadeguato il doppiaggio, mentre risulta piena di pathos l’interpretazione di Adriana Asti, nel ruolo della madre. Inqualificabile e fuori luogo la recitazione di Riccardo Scamarcio…
data di pubblicazione 1/10/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Ott 1, 2014
(Festival di Cannes 2014 – Un Certain Regard)
Angélique è una sessantenne eternamente ragazza, ribelle nei confronti del tempo che la fa invecchiare e refrattaria a qualsiasi vincolo e legame che possa soffocarla. Il suo stile di vita potrebbe mettersi interamente in discussione quando uno dei clienti più affezionati del night club dove lei lavora intrattenendo uomini di tutte le età, le chiede di sposarlo. Così l’attempata party girl, ricoperta di bigiotteria e vezzosa come un’adolescente consumata, si riappropria del suo ruolo (dimenticato) di madre di quattro figli e si prepara a pronunciare il temuto sì all’uomo che sembra dimostrarle un amore generoso e incondizionato. Il finale cupo, già preannunciato da alcuni campanelli d’allarme, lascia un alone di mistero e un senso di irrisolto nel ritratto della protagonista, creatura inafferrabile e ammaliante. Una favola amara, soltanto abbozzata, che senza troppe pretese e senza analisi profonde porta in scena il conflitto tra ciò che irrimediabilmente siamo e quello che potremmo, vorremmo, dovremmo essere.
data di pubblicazione 1/10/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 1, 2014
Lunedì 29 settembre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, Marco Muller ha presentato le ultime novità pratico-organizzative della nuova edizione del Festival/Festa del film di Roma, venendo incontro alle ridotte disponibilità di budget e confermando gli spazi a disposizione, compatibilmente con gli impegni delle sale dell’Auditorium e del MAXXI.
Quest’anno il Festival è stato anticipato alla metà di ottobre, per ri-collocarsi in un momento che fosse equidistante dalla fine della Mostra del Cinema di Venezia e l’inizio del Festival di Torino, ri-acquistando una migliore possibilità di re-inserirsi con una propria identità, dando spazio a grandi film popolari ma singolari e prestando una maggiore attenzione al pubblico, che diventa così protagonista assoluto nel valutare le pellicole ed i contenuti del programma stesso.
“Novità assoluta” infatti di questa nona edizione del Festival, che a breve ri-prenderà la denominazione iniziale di Festa del Film, oltre a quella che non avremo più delle giurie ma saranno gli spettatori a votare il film preferito, dando quindi maggior risalto al proprio gusto e decretando insomma quali saranno i film più belli.
Tale scelta, volta a sottolineare il carattere popolare della manifestazione, non vuole nel contempo trascurare l’aspetto internazionale dell’evento: seppur ben 16 film sono italiani con 10 prime nazionale, 21 sono i paesi di provenienza dei 51 lungometraggi selezionati, con oltre a 24 prime mondiali, 6 internazionali ed 11 europee.
Due commedie apriranno e chiuderanno questa edizione del Festival: Soap Opera di Alessandro Genovesi, una commedia corale sulle storie, i sentimenti e gli equivoci che coinvolgono gli inquilini di un condominio nella notte di Capodanno, e Andiamo a quel paese scritto, diretto e interpretato da Salvatore Ficarra e Valentino Picone, commedia ambientata in Sicilia che racconta le spassose vicende di due disoccupati che, tornati nel loro paese d’origine, immaginano una originale soluzione per uscire dalla crisi.
Il Direttore Marco Muller ha infine enfatizzato il rinnovato coinvolgimento del MiBACT nelle attività della Fondazione Cinema per Roma ed ha sottolineato l’attenzione sempre più ampia che il Ministero sta dedicando al Festival ed alle sue manifestazioni collaterali, quale evento internazionale di elevato spessore culturale.
Una breve ma animata manifestazione di protesta improvvisamente si è sollevata tra il numeroso pubblico presente, che reclamava la mancata accettazione alla selezione del film su Califano dal titolo Non escludo il ritorno (come l’omonima canzone), dopo che da parte dei vari addetti ai lavori presenti erano state poste diverse le domande, per la maggior parte banali e capziose, come sempre….
data di pubblicazione 1/10/2014
da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma 2013 – Alice nella Città)
Il cinema italiano indipendente, quello che con budget contenuti riesce a portare sul grande schermo storie interessanti e ben scritte, è sintetizzato in questa pellicola di Vittorio Moroni. Una trama che si dipana in modo lineare, senza particolari guizzi narrativi o colpi di scena, per raccontare la storia di Kiko, adolescente per metà filippino e per metà italiano, travolto dal disagio proprio della sua età e dalla perdita recente del padre. Due volti noti, Beppe Fiorello e Giorgio Colangeli (bellissima l’interpretazione del secondo), in un cast di esordienti, tutti credibili e disinvolti in una recitazione semplice e realistica. Tanti, forse troppi, i temi sociali tirati in ballo, dalla scuola all’immigrazione, dalla famiglia al lavoro: tuttavia, il film non ne risulta appesantito, ma arricchito e fortificato. Il titolo, lungo e non semplice da memorizzare, Se chiudo gli occhi non sono più qui, esprime bene quel senso di solitudine e autoannientamento in cui l’uomo, ma ancor di più l’adolescente, vuole perdersi per non vivere le sfide del presente e per non affrontare la paura che tutto cambi per sempre. Finale di speranza, forse un po’ didascalico, ma che ci regala sollievo e fiducia nel genere umano.
data di pubblicazione 29/9/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Fuori Concorso)
Sulla scia di Life in a day, progetto a metà strada tra il documentario e il social movie, ideato e prodotto da Ridley Scott, Gabriele Salvatores ha raccolto frammenti di video realizzati con ogni mezzo tecnologico esistente, dallo smartphone alla videocamera GoPro, per ricostruire ventiquattro ore di vita italiana, dalle sedici albe a cui assiste ogni giorno in orbita l’astronauta Luca Palermitano al momento in cui ci si scambia la buonanotte. Se dovessi valutarlo come il film documentario di un regista poliedrico come Salvatores, direi che ha una serie di difetti, primo fra tutti un generale senso di fretta, come se lo spettacolo della giornata italiana debba consumarsi velocemente, senza pause e con tanti concetti e scene uguali che si ripetono, denotando una scarsa selezione (forse solo apparente) del materiale. Se, invece, guardo il film da italiano, ci ritrovo il mio Paese, pieno di contraddizioni e immagini che tolgono il respiro. Accanto all’Italia arrabbiata che non arriva a fine mese, c’è l’Italia che affronta la giornata con il sorriso pur avendo poco di cui sorridere. C’è l’Italia dei bambini che nascono e quella della popolazione che si fa sempre più anziana. C’è l’Italia di chi si ama e può sposarsi, e quella di chi non ha il diritto di farlo. L’Italia che viaggia e l’Italia che non ha alcuna intenzione di andarsene da qui. L’Italia che balla e si diverte, insieme all’Italia che si alza presto per fare il pane e lavorare. Pur avvertendosi in modo forte nel documentario il disordine del nostro Paese, a tratti disperato e a tratti buffo e grottesco, ne esce un’Italia con una nuova identità in via di formazione e con una gran voglia di rialzarsi. Senza retorica e senza eccessi d’enfasi e autocompiacimento, Italy in a day è finalmente una bella iniezione di sano patriottismo.
data di pubblicazione 29/9/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Set 25, 2014
(Festival di Toronto-2013)
Singapore, 1942. L’ufficiale britannico Eric Lomax (Jeremy Irvine) viene fatto prigioniero dai giapponesi assieme a migliaia di giovani soldati inglesi, e trasferito in un campo di prigionia; costretti a lavorare come schiavi alla costruzione di una ferrovia di collegamento tra Birmania e Thailandia, molti di loro moriranno di stenti e malattie tropicali, anche a causa delle avverse condizioni climatiche. Ci spostiamo in Inghilterra, siamo nel 1980: un uomo non più giovane incontra una affascinante donna in treno e se ne innamora a prima vista. I due si sposano, ma la prima notte di nozze l’uomo ha degli incubi spaventosi che lo dilaniano. L’evento, ripetutosi varie volte, porta Patti (Nicole Kidman) ben presto a scoprire che suo marito Eric Lomax (Colin Firth), non è semplicemente sopravvissuto alla guerra, ma fu oggetto di atroci torture ad opera della polizia militare giapponese Kempeitai, e da allora tutte le notti lotta con un immagine: quella del suo aguzzino. Adattamento cinematografico dell’autobiografia omonima, Le due vie del destino avrebbe potuto essere un film sul perdono. Ed invece, pur parlando di fatti e persone non di finzione e pur avvalendosi dell’interpretazione di due grandi attori, ci lascia un po’ insoddisfatti, perché non decide da che parte stare: se diventare una pellicola su una toccante storia d’amore, dove il personaggio di lei – una Kidman che ha conosciuto perfomance migliori – avrebbe dovuto essere molto più incisivo e decisivo, o dedicarsi prevalentemente alla crudeltà della detenzione ad opera dei soldati giapponesi nei confronti degli inglesi. Ed in questo altalenante dilemma, il film non focalizza l’aspetto forse più importante dell’intera vicenda: il perdono, appunto, che realmente Lomax concesse al suo aguzzino, a cui viene dedicata solo l’ultima scena del film.
data di pubblicazione 25/9/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Set 25, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)
L’imprenditore Rocco, il trafficante di cocaina Luigi ed il pastore Luciano, sono fratelli e, seppur molto diversi tra loro, sono al tempo stesso accomunati da un dolore che ha segnato per sempre le loro vite: il padre, un pastore di Africo, molti anni addietro venne ucciso dal capo del clan della famiglia Barreca sotto gli occhi di Luigi, allora appena dodicenne. Trapiantati a Milano, ma fortemente ancorati alle proprie radici, Rocco e Luigi vivono come cristallizzati in quel passato che non vogliono dimenticare, mentre Luciano, l’unico fratello rimasto nella terra natia, sembra essere il solo a non nutrire alcuno spirito di vendetta per quell’antico fatto di sangue, accontentandosi di condurre una vita semplice senza ambire ad un futuro migliore né per sé né per la sua famiglia, a dispetto dell’enorme benessere in cui invece vivono i suoi fratelli minori. Suo figlio Leo, al contrario, ragazzo irrequieto e rancoroso, che non ne vuole sapere di fare il “capraro” come il nonno ed il padre, una notte compirà, sotto gli occhi del suo migliore amico, un gesto di bullismo volutamente oltraggioso nei confronti della famiglia Barreca, scatenando una vera e propria guerra che obbligherà lo zio Luigi a tornare in Calabria per tentare una riappacificazione tra i clan della ‘ndrangheta. Girato in alcuni paesi della Locride ed in Aspromonte, “blindato” da una recitazione in dialetto calabrese cui necessitano i sottotitoli per una completa comprensione, Anime Nere, che ha ottenuto a Venezia un’unanime apprezzamento dalla stampa sia nazionale che estera, è un film sull’ineluttabilità. Rocco, Luigi e Luciano vivono una vita imprigionata in un passato che alimenta solo vendetta, resi affini solo da un destino di guerra e violenza, immutabile e senza fine, che li travolgerà. L’ottima sceneggiatura ed un gruppo di interpreti bravissimi, ci fanno dono di una pellicola di raffinata bellezza che racconta senza emettere giudizi, lasciando allo spettatore un finale aperto, in cui l’universo femminile fa da coro ad una tragedia infinita che si consuma in un ambiente claustrofobico privo di speranza.
data di pubblicazione 25/9/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2014
(Giornate degli Autori-71ma Mostra del Cinema di Venezia)
Roma: due coppie borghesi, molto diverse tra loro, che si “obbligano” ad abituali frequentazioni solo perché i due mariti sono fratelli, vengono travolte e sconvolte da un dramma che coinvolge i rispettivi figli, Michele e Benedetta; i due cugini, adolescenti, che al contrario dei loro genitori scelgono di frequentarsi assiduamente – hanno gli stessi amici, vanno nella stessa scuola – una notte, rientrando a casa da una festa, una telecamera nascosta riprenderà due persone con le loro stesse sembianze mentre commettono un delitto: uno di quei fatti di cronaca nera di cui parlano certe trasmissioni televisive, di cui la madre di Michele è un’accanitissima fan. Dopo Gli equilibristi, Ivano De Matteo con I nostri ragazzi, indaga nuovamente il mondo degli adulti ma lo fa attraverso i figli, puntando il dito su una inconsapevole quanto drammatica incomunicabilità generazionale, su uno scollamento nei rapporti causato da cieco egoismo e da superficialità che può portare dei genitori a difendere ad oltranza i propri rampolli, a dispetto di tutti quei buoni principi su cui avevano basato sino ad allora la loro esistenza. Ad uno sguardo attento della locandina, quelli descritti da De Matteo sono adulti con una personalità frammentata, dove nulla è come appare; lucido, pieno di interrogativi stimolanti e con un cast di altissimo livello, I nostri ragazzi ha ricevuto il giusto tributo di applausi alla 71ma Mostra del Cinema di Venezia, e ci auguriamo che anche il pubblico possa mostrarsi fiero di un così buon prodotto italiano.
data di pubblicazione 18/9/2014
Scopri con un click il nostro voto:
Gli ultimi commenti…