da Rossano Giuppa | Apr 12, 2024
(TEATRO INDIA- Roma, 9/21 aprile 2024)
In scena al Teatro India di Roma, dal 9 al 21 aprile, lo spettacolo Giunsero i terrestri su Marte. Una missione interplanetaria su Marte termina in tragedia in quanto i giovani e valorosi astronauti vengono dati per dispersi. Ma cosa è successo davvero sul quel pianeta misterioso? Colpa di fantomatici marziani? Un racconto che prova ad indagare sulla scomparsa degli astronauti, ma anche una riflessione sul desiderio del nuovo e dell’ignoto, sul fascino del futuro tra desiderio e paura (foto Claudia Pajewski).
Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi e Francesco Russo sono gli eroici astronauti che, nel corso di una missione interplanetaria su Marte, hanno tragicamente perso la vita.
Immagini e speaker raccontano la misteriosa scomparsa dell’equipaggio di una spedizione privata italo-cinese sulla superficie del pianeta rosso. Le domande che sorgono sono molte: chi sono i marziani che i terrestri potrebbero aver incontrato? Qual è la ragione di questa iniziativa spaziale?
Marte e la corsa allo spazio diventano così un territorio metaforico per una drammaturgia inedita a cura di Pierfrancesco Franzoni e Giacomo Bisordi, per una produzione del Teatro di Roma e del Teatro Nazionale.
La discesa, l’esplorazione del pianeta, la bandiera da piantare in segno di conquista scandiscono gli istanti prima della morte che dilatano il tempo per fare emergere i ricordi, riesumando le immagini dell’infanzia, del tempo del gioco, delle corse, dei palloncini, della corda, del ping pong, di Pippi Calzelunghe, mentre l’aria comincia a mancare.
Marte è il non luogo che è anche il desiderio umano di superare le barriere della conoscenza, un mondo che finora nessuno ha avuto modo di conoscere e calcare: esiste come archetipo di desideri, di sogni, paure e illusioni ma anche di distacco dagli affetti e dall’identità detenuta.
data di pubblicazione:12/04/2024
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da Paolo Talone | Apr 11, 2024
(Teatro La Comunità – Roma, 3/21 aprile 2024)
Ancora prima che nella dicotomica formula uomo-donna, l’umanità è divisa in femmine e maschi. È questa l’equazione base da cui parte ogni possibile interazione o combinazione. E assume una forma primitiva ed esemplare anche il contesto storico scelto da Giancarlo Sepe per il suo nuovo lavoro: la liberale e democratica Repubblica di Weimar. Con Femininum Maskulinum riapre al pubblico la storica sala romana del teatro La Comunità fondata nel 1972. Allora come oggi baluardo dell’avanguardia teatrale italiana (foto di Manuela Giusto)
La chiara differenza tra i sessi se osservata bene in realtà cela una sorta di ambiguità. Donne androgine e uomini effeminati danzano mostrando una vulnerabilità e una violenza che hanno matrice nella ribellione. Un effimero e grottesco tentativo di rivalsa rispetto a una guerra che si è persa. Femininum Maskulinum è un affresco in gesti e musica che ritrae il disfacimento umano nella Repubblica di Weimar. La società ha ancora addosso i segni della deflagrazione del primo conflitto mondiale. La scena di Carlo De Marino (realizzata dal laboratorio di scenografia del Teatro della Pergola di Firenze) è lo scolo di un sobborgo berlinese dalle pareti insudiciate, dove dalla penombra emerge un’umanità disorientata, inconsapevole dell’imminente rovina. Quando il nazionalsocialismo arriva, minaccioso come una nuvola carica di temporale, trova già una situazione votata al fallimento.
I semi della decadenza sono ovunque. Dalla fragilità dei corpi nudi, che è anche debolezza intellettuale e filosofica, all’ossessione per la musica come distrazione e deterrente (la complessa architettura musicale è di Davide Mastrogiovanni). Effimera è la parola. Lo spettatore è osservatore prima ancora che uditore. Il nutrito gruppo attoriale – composto da Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli e dall’immancabile Pino Tufillaro, con Sepe dai tempi di Allegro cantabile (1974) – è materia plasmata, violentata, ridotta allo stremo. Un collettivo fracassato di piccoli borghesi in rovina e prostitute che si lascia però modellare dalle sapienti mani del regista.
Il modello culturale di riferimento dei berlinesi di quel tempo è l’America, a cui si guarda con ammirazione e imitazione. Meta per i fuggiaschi come Billy Wilder e Thomas Mann. Ma anche il paese oltreoceano cela del marcio. La sognata società americana è in qualche modo corrotta come quella europea. E in questa fenomenologia dell’incoscienza collettiva si scopre qualcosa che ci riguarda. Lasciamo il teatro con addosso un senso di inquietudine e di rifiuto, ma con una nuova consapevolezza. Se non si adotta una visione analitica della realtà di cui facciamo parte, saremo inevitabilmente votati allo sfacelo e alla manipolazione di un potere soverchiante.
data di pubblicazione:11/04/2024
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da Giovanni M. Ripoli | Apr 11, 2024
Il vicequestore Giovanna Guarrasi, trentanovenne palermitana, detta Vanina, viene trasferita alla Mobile di Catania , dopo una brillante carriera nell’antimafia. A Palermo ha lasciato, il ricordo del padre tragicamente ucciso e Paolo Malfitano, magistrato antimafia e suo grande amore. A Catania vuole ritrovare se stessa …
Questa volta tocca a Canale 5 l’ennesima trasposizione in serie TV di romanzi “gialli” di successo in salsa siciliana. Dopo il capostipite, Montalbano sr., dopo Makari, dopo Montalbano jr, è ora il turno della vicequestore Vanina (la bella e brava Giusy Buscemi) a interpretare sul piccolo schermo l’eroina dei romanzi di Cristina Cassar Scalia, autrice originaria di Noto già baciata dal successo in libreria. I tre episodi finora trasmessi sono da considerare prodotti onesti se anche non indimenticabili: ben girati, arricchiti dalle splendide “location” di Catania e dintorni, dai frequenti siparietti gastronomici (qui la fanno da padroni brioche & granite), da sentimenti e relazioni che intercorrono tra i questurini. Gli attori se la cavano con mestiere ed ironia senza strafare , tranne il solito poliziotto scemo “alla Catarella” ormai un must di ogni questura… Dei tre episodi, finora trasmessi, ritengo il secondo Sabbia Nera, il più riuscito anche perché il più aderente al romanzo e il meglio strutturato come impianto poliziesco. Nell’ala abbandonata di una villa signorile alle pendici dell’Etna ancora avvolta da una pioggia di cenere, viene rinvenuto un cadavere mummificato da tempo. La casa è saltuariamente abitata da un bel tenebroso (a Roma si direbbe un “piacione”) che sembrerebbe l’unico erede della dispotica e ricca zia titolare della villa e di altre proprietà.
La bella e sveglia Vanina, con pazienza e un mix tra metodo induttivo e deduttivo, sempre assistita da un ispettore esperto, ma ancor più dal precedente questore in pensione (personaggio ricalcato sul Fermin di Petra Delicado – vedi Alicia Gimenez Bartlett-, antesignana di molte poliziotte), tra un salto a Palermo, per rivedere l’ex, la corte discreta di Manfredi, medico della scientifica, le avances del nipote, Alfio Burrano, giunge alla soluzione del non facile caso.
Degli interpreti ho segnalato il generale buon livello, poco incline ai consueti gigionismi da fiction italica. Bene l’attore e regista Corrado Fortuna che presta il volto a Manfredi, sobrio, Giorgio Marchesi nel ruolo del magistrato Malfitano, come pure Claudio Castrogiovanni, Carmelo Spanò l’insostituibile braccio destro della nostra. Detto dei pregi, non possiamo per questo sostenere che la fiction in questione si elevi oltre uno standard medio, cui le fiction nostrane ci hanno abituato. La confezione è la solita, il menù, già gustato: eroina carina, triangolo amoroso, a smussare l’intrico poliziesco, il costante riferimento al dramma della mafia e del padre ucciso in circostanze da chiarire, qualche inserto musicale e la disarmante bellezza della Sicilia ad amalgamare il tutto. Ovviamente le caratteristiche della serie e la candida bellezza di Giusy Buscemi, già miss Italia, sono sufficienti per un gradimento del pubblico e tanto basta!
Per altri approdi più impegnativi bisogna rivolgersi ai fratelli Cohen!
data di pubblicazione:11/04/2024
da Antonio Jacolina | Apr 11, 2024
Edward Hopper è il pittore che più di ogni altro è riuscito a “catturare” l’America. Silenzioso e misterioso come i suoi quadri ha stimolato l’immaginario collettivo ed influenzato gli ambienti culturali della sua epoca. Ma chi era veramente l’Uomo Hopper?
Phil Grabsky, pluripremiato autore di documentari d’arte, dirige un affascinante docufilm. Un racconto vivo e coinvolgente che cerca di analizzare una personalità artistica ed umana enigmatica. Un uomo segnato dalla complessità del carattere e delle sue poche relazioni personali, affettive e professionali.
Il titolo del film gioca deliberatamente sull’ambiguità. Si riferisce infatti sia al legame del pittore con la moglie sia al suo amore per l’Architettura e per lo stile di vita e la quotidianità dell’America. Il regista si avvale con giusto equilibrio di testimonianze di esperti, di materiali e filmati d’archivio e soprattutto di diari personali. Entra così nella vita dell’artista e nei suoi rapporti con la moglie Jo. Non si può infatti comprendere chi realmente fosse Hopper se non si comprende il valore particolare della sua relazione amorosa. Jo era anche lei una promettente pittrice che rinunciò alla propria carriera per dedicarsi totalmente al marito. Compagna di vita, musa, modella, agente e manager in un legame assoluto molto complesso e con un equilibrio precario fra sottomissione e dominazione.
L’Uomo Hopper si rivela quindi un solitario, taciturno e fortemente introspettivo che però resta ancora enigmatico. La sua vita e le sue esperienze formative scorrono come un lungo filo. Dalla natia Nyack, passa per New York per arrivare ai contatti con gli ambienti impressionisti e neorealisti di Parigi. Un filo che si riunisce poi a New York ed a Cape Cod.
Il ritmo narrativo del film è sempre vivace, mai noioso. L’autore sa ben tenere vivo l’interesse e la curiosità combinando sapientemente le interviste, le riprese originali e l’illustrazione dei quadri più significativi. Una vera biografia in cornice. Hopper è infatti tutto nel silenzio, nell’attimo sospeso e nelle atmosfere metafisiche della sua produzione pittorica. Vera proiezione su tela dei suoi sentimenti.
Un film interessante ed affascinante che conferma anche quanto il Cinema sia debitore verso Hopper. È a lui che si rifanno infatti le luci, gli ambienti e le atmosfere di gran parte dei migliori noir e polizieschi americani. È a lui che si sono ispirati registi del calibro di Hitchcock, Antonioni, Wenders e Lynch.
data di pubblicazione:11/04/2024
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da Daniele Poto | Apr 10, 2024
regia di Leonardo Lidi con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speciani, Giuliana Vigogna, scene e luci di Nicolas Bovery, costumi di Aurora Damanti, suono di Franco Visioli. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale Spoleto Festival dei Due Mondi
(Teatro Vascello – Roma, 9/14 aprile 2024)
Seconda tappa del progetto Cechov pattuito in collaborazione anteprima con il Festival di Spoleto. L’ironia sottile del drammaturgo russo qui diventa aperta irrisione di un costume antico nel segno dei tempi che cambiano.
Non ci si attenda nella seconda puntata il puntuale rispetto della tradizione. Per affabulazione, costumi, ritmo. Figurarsi, c’è persino un paziente cane in scena che sembra assecondare i movimenti dei protagonisti. Un professore spompato che spesso controlla l’andamento del proprio pene è l’ipotetico centro di una dimensione parafamiliare. Ma è un centro fittizio perché attorno a lui tutti tradiscono, irrorati dall’irrequietezza di Zio Vanja. Amori non corrisposti e febbrili pulsioni sessuali mentre attorno c’è una Russia che cambia ma che sarebbe un eufemismo definire moderna. Quando i protagonisti posano tutti insieme per una virtuale immagine del gruppo sembra balenare la fedele riproduzione di un quadro di Hopper. Parrucche e camuffamenti sobri. Ecco il balenare di una modernità che fa fatica a comparire sia pure preannunciata da qualche vagito. Età media in platea sorprendentemente bassa nel segno di rispetto di una compagnia che non tradisce nella chiarezza del proprio proposito. Far si che la corrosione satirica sia la spinta centrale di uno sviluppo che ha pure un suo plot, un suo filo sotterraneo in cento minuti di scena. Sinergia drammaturgica molto collaudata e scena basica. Apparire e sparire, voci anche senza corpi. E scene mute altamente significative ancorché spiazzanti e amene. Una citazione particolare per l’interpretazione sulfurea di Massimo Speciani.
data di pubblicazione:10/04/2024
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da Antonio Iraci | Apr 10, 2024
Rosa, chiamata così in onore della rivoluzionaria socialista Rosa Luxemburg, lavora come infermiera presso un ospedale di Marsiglia. Vive in un quartiere popolare, pieno di locali etnici, dove il figlio più giovane ha un bar frequentato da esuli armeni. Dopo il crollo di due edifici fatiscenti, decide di entrare in politica per difendere i diritti dei poveri e degli immigrati senza fissa dimora…
Il regista, molto noto in Francia per i suoi film a sfondo sociale per lo più ambientati a Marsiglia, prende spunto per questo lavoro da un fatto realmente accaduto. Nel 2018, nella parte vecchia della città, crollarono due palazzi fatto questo che sconvolse letteralmente l’opinione pubblica. Vi furono infatti proteste da parte degli abitanti del quartiere che attaccarono con veemenza le istituzioni per aver sistematicamente trascurato la sicurezza degli edifici. Guédiguian ama raccontare facendo nello stesso tempo politica. I vari personaggi non hanno certamente timore di manifestare le proprie idee sinistrorse nei confronti di un certo establishment, sordo alle esigenze delle classi più povere. Il regista si avvale di figure di grande spessore come Jean-Pierre Darroussin, Robinson Stévenin, Gérard Meylan e soprattutto della bravissima Ariane Ascaride, nei panni della protagonista Rosa, nonché sua moglie nella vita privata. Ci sono certo altri personaggi che ruotano intorno a questa storia che in effetti comprende varie storie che si intrecciano tra di loro. Si inizia con filmati di repertorio sul crollo e si finisce nella stessa piazza dove al centro troneggia il busto di Omero. Se la leggenda narra che fosse cieco, tuttavia è lì pronto ad ascoltare le proteste di chi ha perso tutto, i propri affetti e le proprie case. Vi è anche lo spunto per parlare della diaspora armena e degli sforzi di quel popolo per difendere con orgoglio la propria identità. Un film intelligente, recitato bene e che si segue con interesse perché parla anche di amore, un amore che è fuori dal tempo. Tutto ciò sconvolgerà la vita di Rosa, aiutandola a superare le delusioni e a incoraggiare i suoi entusiasmi. Il film è stato presentato durante l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma dove ha ottenuto un meritato riconoscimento.
data di pubblicazione:10/04/2024
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da Salvatore Cusimano | Apr 10, 2024
Disponibile su Netflix dal 6 marzo, Supersex è la serie in 7 episodi liberamente ispirata alla vita di Rocco Siffredi. Un racconto che, attraverso la traiettoria della più famosa immagine del porno italiano e mondiale degli ultimi 30 anni, si interroga sulla relazione tra porno e vita.
Rocco Tano è un bambino di provincia (Ortona il paese di origine) che vive con l’ombra di un fratello maggiore che vede come un eroe e di un fratello minore cagionevole, quest’ultimo con le continue attenzioni della madre. È da piccolo poi che scopre di avere un “super potere tra le gambe”, con il quale costruirà la sua storia privata e pubblica.
Supersex, scritto da Francesca Manieri e diretto da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni, attraversa la vita di Rocco Siffredi in tre fasi e in sette episodi, dalla fanciullezza di Ortona, passando per la giovinezza a Parigi, fino ad arrivare all’età adulta, quando diventerà dio del porno, in giro per il mondo.
Alessandro Borghi si vede a distanza quanto abbia lavorato per entrare nel personaggio, sia fisicamente che mentalmente. La cronaca è piena di racconti di continui incontri tra l’attore e Rocco Siffredi prima di girare la serie e si nota infatti come sia riuscito a “rubargli” pose e tic, sorrisi, sfrontatezza e sofferenze. È un ritratto sicuramente provocatorio di un uomo che chiede di non esser giudicato per tutto quello che ha fatto, che fa e che continuerà a fare e nessun altro se non Borghi avrebbe potuto vestire i panni di Rocco.
A corredo di tutto c’è il personaggio di Lucia (Jasmine Trinca), intensa la sua interpretazione, ed il tenebroso e aggressivo Tommaso di Adriano Giannini, fratello maggiore di Rocco, perno su cui gira tutta la sua vita.
È ovvio che oltre che incuriosire la serie divide, perché riguarda un personaggio/personalità che piaccia o meno è entrato nel nostro immaginario. Inoltre risulta essere intenzionalmente romanzata in maniera estrema, ma ha il pregio di ammetterlo. L’evoluzione avviene soprattutto negli ultimi episodi; i primi sono forse un po’ troppo lenti e di alcune cose si poteva anche farne a meno.
data di pubblicazione:10/04/2024
da Paolo Talone | Apr 10, 2024
con Sabrina Sacchelli, Nicolò Berti e Giuseppe Coppola
(Teatrosophia – Roma, 4/7 aprile 2024)
Due fratelli e una sorella. Un mistero di morti avvenute in un’estate di molti anni prima. Un ragazzo consumato dal desiderio di conoscere che trova redenzione nella poesia. Debutta al Teatrosophia, la centralissima sala romana gestita con ammirevole passione da Guido Lomoro, il nuovo spettacolo di DarkSide LabTheatre Company. (Foto di Agnese Carinci)
Un’atmosfera lattiginosa e crepuscolare avvolge la scena dell’accogliente Teatrosophia. La storia familiare di Salesio, Orazio e Pilla – due fratelli e una sorella – è turbata dal ricordo di un passato che torna a funestare un presente solo in apparenza sereno. Siamo nel 1825. Orazio è preoccupato per il comportamento del fratello Salesio. Questi passa tutto il tempo chiuso nella biblioteca di famiglia, dove conduce le sue ricerche con preoccupante smania e irrequietezza. Nell’attitudine, nelle movenze e nel costante racconto dell’agitazione che lo abita Salesio è Giacomo Leopardi. Solo Pilla sembra comprenderne e accettarne il segreto movimento. È lei che cerca di mitigare il sempre più teso rapporto tra i due fratelli. Intanto il ricordo delle terribili uccisioni avvenute nell’estate del 1813, quando i tre erano poco più che adolescenti, fa nascere nuovi sospetti e paure. Tre pecore di un ovile, un cane e il nipote di un fattore vennero sgozzati da quello che si pensava potesse essere un orso o un lupo. Un libro gelosamente custodito nella biblioteca rivela una genia di licantropi il cui sangue scorre ora nelle vene di Salesio. I sospetti si spostano su di lui, attratto misteriosamente dalla luna. Il suo interesse scientifico per l’astro notturno si trasforma però in motivo di ispirazione. Sortisce nel suo animo una creatività poetica che da sola saprà mitigare il suo animo tormentato, fugherà le paure e darà giustizia al suo lato oscuro e taciuto.
Ispirato al romanzo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (1990) dello scrittore Michele Mari, l’adattamento per la scena di Matteo Fasanella percorre finemente la strada del sogno e del mistero, trasportando lo spettatore in un’epoca lontana tanto nel linguaggio quanto nei costumi. La profonda interpretazione di Giuseppe Coppola nei panni del licantropo Salesio/Leopardi si avvale del sostegno ben calibrato di Sabrina Sacchelli (Pilla) e Nicolò Berti (Orazio). Ben distribuite le parti tra loro, tanto da renderli protagonisti alla stessa misura. L’avventura collettiva si avvale anche del prezioso aiuto di Virna Zordan e Lorenzo Martinelli per l’assistenza alla regia e dell’allestimento scenico di Alessio Giusto, la cui luna lascia davvero abbagliati. Uno spettacolo che deve la sua buona resa all’ottimo lavoro di squadra e che ci ricorda che coltivare la poesia a volte salva di più della scienza.
data di pubblicazione:10/04/2024
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da Antonio Jacolina | Apr 10, 2024
Seattle, metà anni 30. Storia della locale squadra universitaria di canottaggio dell’8 con. Partita dal nulla come riserva si ritroverà a gareggiare ed a superare tutte le selezioni ed a rappresentare gli Stati Uniti alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Arriverà in finale e vincerà l’oro olimpico …
In pieno revival vintage Clooney non si inventa nulla di nuovo e ripropone tutti gli elementi fondanti del cinema sportivo. Sforzo, abnegazione, speranza, ostacoli imprevisti, ripresa del controllo, prova finale e vittoria al termine di una fase di incertezza. Non illudetevi, siamo lontanissimi dal modello irraggiungibile di Momenti di Gloria. Siamo semmai in pieno sogno americano ove l’outsider privo di qualsiasi chance iniziale alla fine ha successo.
Clooney è un cineasta classico che dirige sempre in maniera tradizionale, non cerca mai grandi effetti e lascia parlare le sole immagini. I suoi film possono essere visualmente belli oppure toccanti o divertenti. Non possiedono però mai quel tocco di magia, di genialità o anche di audacia che può trasformare un’opera cinematografica in qualcosa di significativo. Provate solo ad immaginare la stessa storia in mano ad un Clint Eastwood più giovane.
Attenzione, ciò non vuole dire che questo suo film sia insoddisfacente. Al contrario, Clooney segue ed applica tutte le giuste regole per realizzare un buon cinema popolare e riesce pienamente nel suo
intento. Erano ragazzi in barca ha infatti un piccolo qualcosa di altre epoche, il sapore del vecchio e semplice cinema di una volta. Buoni sentimenti ed una storia vera.
Lo svolgimento è lineare, la messa in scena è di qualità. L’ambientazione negli anni finali della Grande Depressione è corretta, i personaggi pur se appena sbozzati sono credibili. Il ritmo è giusto e si fa più intenso nelle sequenze spettacolari delle regate. Clooney sa ben manovrare la cinepresa, i suoi piani sono precisi e dirige bene gli attori. Il suo è, in sostanza, un compito ben eseguito ma privo di grandi scatti di qualità e di originalità.
Quindi, un piccolo film che riscalda i cuori ma che forse gli spettatori avranno già dimenticato non appena terminato di vederlo.
data di pubblicazione:10/04/2024
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da Antonio Iraci | Apr 9, 2024
di Riccardo Pechini e Mariano Lamberti, regia di Mariano Lamberti
(Teatro Parioli Costanzo – Roma, 8/9 Aprile 2024)
Sin dai primordi della storia umana ci si è costantemente chiesti cosa sia la morte. L’uomo ha sempre affrontato questa tema con estrema cautela, un po’ per curiosità un po’ per paura. Oltre ai grandi pensatori, che hanno ricavato trattati sull’argomento, le religioni hanno contribuito a dare ognuna la propria visione. Rimane un dato di fatto: l’uomo è a dir poco terrorizzato di questo salto nel buio…
Lorenzo Balducci è un poliedrico performer che esibendosi in E.G.O., al Teatro Parioli di Roma, ha dimostrato ancora una volta la sua bravura scenica. Con una gestualità a dir poco originale, se non a volte trasgressiva, è riuscito in un monologo di due ore a divertire il pubblico in sala. Traendo spunto dalle riflessioni dei grandi filosofi come Kierkegaard, o degli ammaestramenti della religione buddista, riesce perfettamente ad affrontare la questione nei dovuti termini. Ma in sintesi sul problema di come affrontare la morte nel migliore dei modi cosa ci rimane da fare? Ricorrere a massicce dosi di chirurgia plastica rassodante o dedicare almeno cinque minuti al giorno a questo pensiero? A questa domanda ci sono molteplici risposte e Balducci ce ne fa una carrellata, entrando nel dettaglio con dovizia di particolari. Il linguaggio utilizzato può sembrare talvolta irriverente, ma comunque è estremamente divertente. Il pubblico stesso ne è chiamato in causa e fornisce un valido contributo alla messa in scena dello spettacolo. Anche il tema del sesso, affrontato in tutte le possibili sfaccettature, diventa pretesto per meditare scaramanticamente sulla morte. Spettacolo perfettamente riuscito sia per la indiscutibile performance dell’attore sia per i testi. Le battute al vetriolo si susseguono senza soluzione di continuità. Al pubblico non resta che lasciarsi andare in un vortice di puro divertimento.
data di pubblicazione:09/04/2024
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