MIELE di Valeria Golino, 2013

MIELE di Valeria Golino, 2013

(Festival di Cannes 2013, Sezione Un Certain Regard)

Valeria Golino passa dall’altra parte della macchina da presa con un film dolcemente amaro (o amaramente dolce), come il retrogusto di un certo Miele che impatta, abbondante e improvviso, sulle pareti di un palato inaridito, la cui unica missione è quella di prepararsi ad assaporare il gusto della fine.

Il film, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Covacich), si confronta con un tema che smuove e commuove, inquadrato da Valeria Golino da una prospettiva certamente non convenzionale e raccontato con un linguaggio “laico”, che pure riesce a mettere a fuoco in modo straordinariamente preciso i nodi ancora irrisolti della dolce morte, tanto come questione morale quanto come questione giuridica.

Una superba Jasmine Trinca, trasformata nel corpo e nell’anima, indossa (letteralmente) i panni di un pietoso Angelo della morte, ma l’incontro con l’ingegner Grimaldi (interpretato da un impeccabile Carlo Cecchi), malato “solo” nell’anima, fa deflagrare in maniera assordante quei dubbi che da tempo accelerano il battito del cuore di Miele.

Da una parte una questione che non è (solo) giuridica, ma che la legge non può più permettersi di ignorare: uno spazio libero dal diritto troppo spesso riempito dall’incontrollabile arbitrio dell’opportunità morale. Dall’altra parte l’indefinibile confine tra la vita del corpo e quella dell’anima: l’illusione della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché siamo sempre in tempo per fermarci ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”.

L’immancabile trauma infantile subito dalla protagonista e la forse troppo ingenua scena finale non compromette la solida tenuta di un promettente esordio.

Giudizio sintetico: Miele che non smiela.


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IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

Paolo Virzì torna al cinema con un film corale, che parla di new economy per raccontare l’Italia di sempre, rappresenta la crisi di quel capitale umano che nessun esperto di finanza sarà mai in grado di monetizzare e di mettere a bilancio.

La storia è al tempo stesso una e trina, con i diversi capitoli che, dipanandosi dall’incidente iniziale, fanno muovere sulla scena tanti burattini tenuti in piedi da sentimenti da “dilettanti” allo sbaraglio (come urla Luigi Lo Cascio), con la perenne paura di diventare attori professionisti di una vita dal copione troppo impegnativo per essere recitato come pure meriterebbe.

Malgrado qualche inserto gratuitamente retorico, a partire dall’usurata metafora del teatro in declino e in attesa di un’utopica ristrutturazione, Virzì resta il solito perfetto burattinaio nel dirigere gli abitanti di quel teatro decadente.

I buoni sentimenti prepotentemente trionfanti nel buio degrado di un carcere, mentre intorno la neve si scioglie e il sole lascia brillare le carrozzerie fuoriserie e i sorrisi di chi, quando gli affari vanno bene, si accontenterebbe anche del bastoncino di un cane, concludono il capitolo finale con un happy end tanto amaro quanto ingenuo e obiettivamente poco credibile.

Giudizio sintetico: avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto.


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HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2013

HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2013

(Festival di Toronto 2012)

Margarethe Von Trotta, regista raffinata nota per aver portato sul grande schermo episodi storici poco conosciuti e per aver raccontato la vita di personaggi, sempre femminili, controversi e radicali, si è assunta il grosso impegno di tradurre in linguaggio cinematografico una delle menti più brillanti e prolifiche della filosofia del Novecento.

Il film, pur farcito di numerosi rimandi all’età della giovinezza, è incentrato su un aspetto particolare della biografia di Hannah Arendt, che segnò poi il resto della sua vita, cioè gli anni in cui la filosofa seguì e commentò per il giornale The New Yorker il processo svoltosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. Nel libro che raccolse i suoi articoli, intitolato La banalità del male, la Arendt sostenne la tesi per cui la malvagità del genere umano in realtà non avrebbe nulla di mostruoso, ma si manifesterebbe in una banale e cieca obbedienza a ordini impartiti dall’alto. Eichmann apparve alla filosofa come un uomo mediocre, la cui vera colpa era stata quella di aver perso la capacità di pensare.

Al confine con il linguaggio documentaristico, tanto che sono utilizzate nel film scene vere del processo a Eichmann, la Von Trotta mostra qui di avere un coraggio e un senso di orgoglio non lontani da quelli propri della protagonista del suo film, confermandosi una regista scrupolosa e fedele a un uso critico e ragionato del mezzo cinematografico. Oltre alla testimonianza storica, che in alcuni punti può rischiare di annoiare, il film racconta, al di là della filosofa e della scrittrice, la Arendt donna (grazie all’appassionante interpretazione di Barbara Sukowa) con la sua innata forma di ribellione intellettuale e la sua folle coerenza pubblica e privata, senza mai cedere alle lusinghe dei facili sentimentalismi del genere biopic.


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IO E TE di Bernardo Bertolucci, 2012

IO E TE di Bernardo Bertolucci, 2012

Bernardo Bertolucci torna in sala con un film “fatto in casa”: una cantina, due attori esordienti, Roma che fa da sfondo divenendo fin da subito un ingrediente indispensabile della scena. Il tutto legato aristotelicamente da un’unità di spazio, tempo e azione, che guida lo spettatore nell’avvicendarsi di quei sette giorni normali e al tempo straordinari. Perché “normale è niente”, ma un abbraccio è tutto.

La storia si distacca in qualche punto dal racconto di Niccolò Ammaniti, ma la trasposizione filmica dei due protagonisti, interpretati da Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, è quasi perfetta. I due ragazzini recitano senza recitare, mettendo a nudo le loro anime nella cantina che diviene la loro casa.

La cantina, dove si accumula sotto la polvere un passato destinato qualche volta a tornare, dove si abbandonano cose che non servono più e che in fondo sono le uniche si ha veramente bisogno, dove il disordine esteriore è la via per ritrovare quell’ordine interiore che difetta anche nelle case più splendidamente arredate. Un mondo nel mondo, così vicino eppure così distante da quello “normale”. La macchina da presa si muove guidata da una mano che sa quello che cerca: di tanto in tanto lo sguardo si perde nella vertigine di palazzi così alti da schiacciare chi abbia l’ardire di alzare gli occhi al cielo, per poi tornare sulla rassicurante fissità di quel vialetto che, come il binario 9 ¾ di Harry Potter, nasconde la porta d’accesso a un modo al quale solo chi non è perfettamente “normale” ha il privilegio di accedere. Lei a un certo punto balla da sola. Poi si accorge che in quel momento è sola, anche se solo per un momento.

Giudizio sintetico: il vero Maestro è colui che ha sempre qualcosa da insegnare.


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IL FIGLIO PIÚ PICCOLO di Pupi Avati, 2010

IL FIGLIO PIÚ PICCOLO di Pupi Avati, 2010

L’immobiliarista romano Luciano Baietti (Christian De Sica), dietro consiglio del suo commercialista Sergio Bollino (Luca Zingaretti), per salvarsi da una situazione economica e giudiziaria difficile e dalla inevitabile galera avendo addosso Magistratura e Guardia di Finanza, decide di intestare la sua “Baietti Enterprise”, una società che naviga in bruttissime acque, al figlio più piccolo Baldo (il bravo attore esordiente Nicola Nocella). Il ragazzo, ingenuo ma buono e generoso, è stato cresciuto nel mito di questo padre mai conosciuto dalla madre Fiamma (Laura Morante). Ma ciò che fa del personaggio di Luciano Baietti un padre davvero spregevole, è che se ha potuto creare il suo impero immobiliare, è stato tutto grazie ai soldi dell’ingenua donna che lui stesso chiama la scemina, raggirata e derubata dei suoi beni immobili proprio grazie ad un “matrimonio-farsa” di cui solo lei sembra non essersi mai accorta. Commedia dai risvolti drammatici, Il figlio più piccolo nasce, per asserzione dello stesso Avati, da una voluta ispirazione alla famosa Commedia all’italiana dei tempi d’oro, quella che faceva riflettere senza operare delle omissioni sulle atrocità morali di certe azioni. Il regista completa così la sua trilogia sui padri, dedicandosi al peggiore, dopo il melanconico Diego Abatantuono ne La cena per farli conoscere ed l’irriducibile Silvio Orlando ne Il Papà di Giovanna, pellicola questa decisamente più convincente rispetto alle altre due.


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WE WANT SEX di Nigel Cole, 2010

WE WANT SEX di Nigel Cole, 2010

(Festival di Roma 2010- Fuori Concorso)

Presso gli stabilimenti della Ford di Dagenham, piccolo borgo ad est di Londra, 187 operaie addette a cucire i sedili in pelle delle automobili vengono declassate come “non qualificate”. Siamo nel 1968 e queste lavoratrici, al tempo stesso mogli e madri, decidono coraggiosamente di iniziare una lotta per ottenere la parità salariale con i colleghi di sesso maschile: con forza e determinazione riescono ad imporsi sul sindacato, la comunità locale e il management aziendale, sino ad ottenere il sostegno del ministro laburista Barbara Castle. Ispirato ad una storia vera, We want sex è un film ricco di humour, ironico ed intelligente, che affronta con misura e leggerezza problematiche sociali quali la diseguaglianza, ancora oggi molto attuali. Il film, tra i migliori presentati quest’anno Fuori Concorso al Festival di Roma, vanta un cast femminile di alto livello, bei costumi e musiche indovinate. Bravissimi Bob Hoskins e Sally Hawkins.


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ANOTHER YEAR di Mike Leigh, 2010

ANOTHER YEAR di Mike Leigh, 2010

(63^ Festival di Cannes- in Concorso)

Il regista di Segreti e Bugie e de Il segreto di Vera Drake, dopo la digressione con Happy Go Lucky (2008), torna sui temi a lui tanto cari: le persone viste nelle loro dinamiche quotidiane, familiari e di amicizia, osservate nella loro assoluta normalità. Attraverso l’avvicendarsi delle stagioni di un anno solare, Mike Leighci racconta le piccole e grandi gioie, i dolori, le speranze ed i problemi quotidiani, di un manipolo di amici e parenti che interagiscono con il geologo Tom e la psicologa Gerri. I due coniugi, sempre ben disposti ad ascoltare gli altri, accolgono nella loro casa di campagna la segretaria di lei Mary ed il silenzioso fratello di lui Ronnie; l’alcolizzato Ken, vecchio amico di Tom, ma anche il loro unico figlio Joe, avvocato e scapolo, finalmente innamoratosi della la sua nuova compagna Katie. Con Another Year, Leigh ci regala un nuovo, splendido affresco della normalità: un’opera corale, con un cast di attori eccellenti, in cui si respira la vita, quella vera. Jim Broadbent, Ruth Sheen e Lesley Manville semplicemente straordinari.


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THE LAST STATION di Michael Hoffman, 2009

THE LAST STATION di Michael Hoffman, 2009

(Festival di Roma 2009- in Concorso)

The last station è un film drammatico e sentimentale sui conflitti dell’amore: quello appena iniziato tra i giovani Valentin e Masha e quello che si appresta a finire tra la contessa Sofja e Lev Tolstoj, scrittore tra i più grandi della letteratura russa. Ne nasce una storia articolata e complessa, ricca ed emozionante, sulle difficoltà di vivere l’amore a tutti i livelli, esistenziali e culturali, ma soprattutto sull’impossibilità di esistere senza di esso. Tolstoj è sul finire della vita e, dopo 48 anni di matrimonio con Sofja si appresta a firmare un testamento segreto, decidendo di rinunciare alla famiglia, al suo titolo nobiliare e alle proprietà, per vivere in povertà e castità sotto gli occhi del giovane assistente Valentin e tra lo sgomento della consorte. Sofja, donna appassionata e di forte temperamento, grazie ad affannose quanto “rumorose” indagini, scopre che un discepolo del romanziere è tra i responsabili di questo programma così dannoso per lei ed i suoi figli. Il film ha una sceneggiatura ed una fotografia impeccabili ed i coniugi Tolstoj, Helen Mirren (Oscar per The Queen e premiata per questo ruolo al Festival Internazionale del film di Roma 2009) e Christofer Plummer, sono leggendari; tra gli altri interpreti si segnalano i molto convincenti Paul Giamatti e James McAvoy.


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IL CONCERTO di Radu Mihaileanu, 2009

IL CONCERTO di Radu Mihaileanu, 2009

(Festival di Roma, 2009- Fuori Concorso)

Teatro Bolshoi di Mosca: nel buio della sala, durante le prove di un concerto, un inserviente si ferma ad ascoltare ad occhi chiusi la musica e, senza essere visto, non può fare a meno di fingere di dirigere gli orchestrali. Quell’uomo non è altri che il grande direttore d’orchestra Andrei Filipov che nella ex Unione Sovietica di Breznev, durante l’esecuzione di un concerto, rimase vittima con i suoi musicisti di un’epurazione politica. Assunto molti anni dopo al Bolshoi come uomo delle pulizie, una sera, mentre si accinge a spolverare la scrivania del Direttore artistico, apprende che il Theatre du Chatelet di Parigi vuole invitare l’orchestra sovietica a suonare per loro: e dunque, perché non sostituirsi assieme ai suoi vecchi orchestrali alla vera orchestra del Bolshoi? Parigi potrebbe diventare in questo modo la degna cornice di quel loro concerto per violino ed orchestra, così traumaticamente interrotto anni prima. Le concert, del regista rumeno Radu Mihaileanu, presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma tra gli applausi di una platea profondamente commossa dalla ricchezza di sentimenti ed emozioni che la pellicola riesce a trasmettere, cattura lo spettatore con umorismo ed ironia: attraverso la metafora, ci fa regalo dell’idea di quanto sia difficile il raggiungimento dell’equilibrio tra individuo e collettività, soprattutto in presenza di diverse etnie, allo stesso modo di come è per il grande Andrei Filipov riuscire a far arrivare alla suprema armonia il violino ed l’orchestra nel concerto di Cajkovskij. Come in Train de vie, infatti, i protagonisti della storia sono un gruppo di ebrei di diverse etnie in fuga, costretti dalle circostanze a praticare l’imbroglio a fin di bene fingendo di essere quello che non sono; quando “la falsa orchestra” approda a Parigi, per lo spettatore è evidente quante e quali difficoltà nascono dal divario tra la cultura slava e quella francese: soltanto la musica, se ben eseguita, potrà fare da collante tra realtà così diverse, realizzando l’utopico sogno dell’armonia suprema inseguito da Andrei.


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ABOUT ELLY di Asghar Fahradi, 2009

 

 

(Festival di Berlino 2009 – Orso d’Argento)

Ahmad, che vive in Germania da anni, decide di tornare in Iran per un breve soggiorno. I suoi vecchi compagni di Università, un gruppo di trentenni borghesi sposati e con figli, decidono di festeggiarlo organizzando una vacanza di tre giorni sulle rive del Mar Caspio. All’insaputa di tutti, Sephideh invita Elly, la maestra di scuola di sua figlia. Questa occasione, artatamente creata, si palesa ben presto agli occhi dei presenti: conoscendo l’infelicità di Ahmad dopo il recente divorzio dalla moglie tedesca, Elly potrebbe essere la donna giusta al suo fianco. Tutti si mostrano subito gentili con lei, dedicandole mille attenzioni e lodandone platealmente le qualità. Ma un incidente in mare ed l’improvvisa sparizione della giovane maestra, fanno deviare la storia verso un contesto inaspettatamente noir, portando in superficie bugie e realtà nascoste. About Elly è un film d’autore sul potere delle tradizioni, sulle dinamiche di gruppo e sulla posizione della donna in Iran, del giovane regista iraniano Asghar Fahradi, vincitore con questa pellicola dell’Orso d’Argento al 59° Festival di Berlino ed al Tribeca Film Festival. Attori bravissimi. Dialoghi molto curati.


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