LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti, 2001

LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti, 2001

Comincio col dire che non sono completamente d’accordo su chi, ed è la maggioranza, sostiene che Moretti ha rinunciato all’ autobiografia, al suo orticello, all’autarchia, per esplorare finalmente la dimensione del racconto in terza persona. Certo, ha lasciato l’ormai in-filmabile Roma per attraversare l’Appennino e scegliere una città di mare come Ancona, poco vista al cinema. Certo, ha messo da parte il suo caro diario, le battute di attualità politica, la messa in scena della moglie vera e del figlio vero, ma si è portato sicuramente dietro il suo bagaglio di ossessioni e nevrosi. Ce lo vuol far capire lui stesso, subito, all’inizio del film, quando lo psicanalista Giovanni Sermonti.
il suo nuovo personaggio, tornando a casa dal footing, rispondendo al telefono dice qualcosa del tipo (cito a memoria): sono io, sono Giovanni. Come si sa, nel cinema di Moretti, nessuna battuta o scena o dettaglio è lasciato al caso, come un piccolo Kubrick (il paragone non scandalizzi, sto parlando solo di metodo). E pertanto quella battuta non può, secondo me, che significare “sono sempre io”. E d’altronde i pazienti dello psicanalista appaiono degli alter ego di Nanni, ognuno
rappresentante di una paranoia del passato: c’è la golosità, la mania di classificazione, la presenza del tumore da combattere. Soltanto il paziente erotomane mi risulta davvero strano e mi ha spiazzato: che ci voglia accennare a una sua nuova ossessione? Spero di no per lui, eppure è un ruolo non piccolo, con tre scene ed è affidato a un attore importante come Accorsi e quindi qualcosa dovrà rappresentare:…Lo psicanalista ha anche una famiglia, molto normale e per certi versi
esemplare: una moglie che lavora in una casa editrice (Laura Morante, mai vista così brava), c’è comunicazione, comprensione, dialogo, si fa ancora l’amore, si traduce il latino insieme coi figli, hanno una casa bella, funzionale, piena di libri ma non di lusso come ci si aspetterebbe da uno stimato professionista e soprattutto non c’è ombra di cellulare e tv e computer: se ci sono, sono sempre spenti. E’ forse il tipo di famiglia ideale anticonsumistica e antiberlusconiana che starebbe alla base di una sorta di “rifondazione della borghesia” che il Nostro nel suo giansenismo di sinistra senz’altro auspica? Si tratterebbe allora di un aspetto politico seppure trasversale. Ma proprio uno dei familiari, il figlio Andrea, un ragazzo buono e ubbidiente, appare un pò distante da questa armonia; il padre lo vorrebbe più competitivo (e lui non lo è), più autonomo (e lui si fa trascinare in un furtarello a scuola), più aperto; e poi hanno gusti sportivi e musicali diversi. nella famosa scena in cui, in auto, cantano tutti il celeberrimo pezzo di Paolo Conte “Insieme a te non ci
sto più”, metaforicamente, Andrea è l’ultimo a unirsi al coro. E proprio lui diviene protagonista involontario della vicenda con quel che gli capita. A questo punto entra in scena il Dolore ed è il Dolore che il senso comune conosce come il più grande che possa capitare. Tutta la parte che precede il lutto e lo descrive è saggio di esemplare regia, che usa pochi ma decisi tratti (la scena al mercatino, la scena della bara). Dopodiché tutto sarà diverso nella famiglia: i rapporti, la vita quotidiana, il lavoro, le domeniche, perché come dice Moretti è un tipo di dolore che divide anziché unire (è lo stesso dolore che aveva diviso in Turista per caso, Via col vento e altre pellicole).
Tranne la scena del luna park, veramente brutta anche perché svela i limiti del Moretti attore (scena che è l’unica mia riserva insieme al montaggio un pò trascurato), tutto il resto del secondo tempo è
sorprendentemente toccante e misurato, fino a quel finale sulla spiaggia ligure (quasi al confine francese: un’altra metafora o una dichiarazione programmatica?), con sottofondo di Brian Eno che rimane un pò così, tra l’ottimismo moderato ed altre imponderabili sensazioni e che pone altri interrogativi in questo film da vedere e rivedere.

 


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IL CERCHIO di Jafar Panahi, 2001

IL CERCHIO di Jafar Panahi, 2001

Leone d’Oro a Venezia nel 2000, questo film è l’ennesima dimostrazione che il cinema che viene dall’Oriente (medio o estremo che sia) è stato il più interessante e fresco in circolazione negli anni zero. Il cerchio del titolo è ciò che unisce una finestrella di un ospedale, dove comincia la storia col ferale annuncio è nata, è femmina e una finestrella di un carcere, dove finiscono o tornano le protagoniste del film. Ma più che la denuncia, è notevole il girato con la macchina a mano che segue i personaggi passo passo; niente paesaggi alla Kiarostami (l’altro grande iraniano), l’unico paesaggio è in un quadro al mercatino che affascina due povere donne, come un Eden irraggiungibile. Capolavoro.


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TABU- GOHATTO di Nagisa Oshima, 2000

TABU- GOHATTO di Nagisa Oshima, 2000

Pellicole che hanno al centro un personaggio ricco di fascino che, entrando in una comunità, la destabilizza con il suo carisma, ve ne sono a centinaia. Ma di solito lo sconvolgimento dell’ordine costituito è visto con positività, come una possibilità di rivoluzione. Per esempio il protagonista di Teorema di Pasolini, che stravolge la vita e la psiche dei componenti della famiglia borghese dove capita, fu interpretato come metafora del ‘68 ma anche del Cristianesimo, e stessa sorte subì perfino E.T. di Spielberg. Non è il caso del giovane Kano, a mio avviso soltanto un angelo del male, nel nuovo film di Oshima, dal fascino ambiguo metà bambino metà demonio.

Tutti gli chiedono come mai, lui, ricco, sia voluto entrare tra i samurai e la sua risposta è chiara: per poter uccidere. L’ordine costituito del corpo dei samurai, che si fonda su regole d’onore e di saggezza ne resta sconvolto. Tutti o quasi tutti i samurai se lo vorrebbero portare a letto e per placare lo scandalo si arriva gradualmente alla tragedia finale. Ma è troppo tardi: nulla sarà più come prima e l’ultima scena, in cui l’eccellente Beat Kitano spezza, urlando, l’albero di ciliegio, sintetizza magnificamente questa idea.


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LA VERGINE DEI SICARI di Barbet Scroeder, 2000

LA VERGINE DEI SICARI di Barbet Scroeder, 2000

A Medellin si spara come se niente fosse, i ragazzi vanno in giro con il “pezzo” (la pistola), lo stereo e il rosario a collo, i fuochi d’artificio non indicano una festa di quartiere ma celebrano l’arrivo in America di un carico di coca. In questo inferno nasce un grande amore tra lo scrittore Fernando Vallejo (autore del romanzo da cui il film ) e un sedicenne killer e battone. In bilico tra il visionario e il film a dialoghi, l’opera di Scroeder è, per me, in parte irrisolta ma comunque interessantissima.


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GRAZIE PER LA CIOCCOLATA di Claude Chabrol, 2000

GRAZIE PER LA CIOCCOLATA di Claude Chabrol, 2000

Claude Chabrol, un autore che ho frequentato sempre poco, con questa ultima opera ha creato un autentico capolavoro che definirei di “ingegneria registica”.

Provate a immaginare: un probabile scambio di neonati, di cui uno fecondato artificialmente; un incidente stradale in cui perde la vita una donna il cui marito sposerà la sua migliore amica; un altro incidente identico vent’anni dopo. E ancora: una donna, Mika, figlia adottiva e erede e presidente di una industria di cioccolato; un pianista famoso; suo figlio, un ventenne che ama le lingue morte e le lumache; una bellissima ragazza che suona il piano anche lei e sua madre, direttore di un Istituto di Medicina legale.

Si rischiava il feuilleton o uno di quegli incasinatissimi noir americani di questi ultimi anni. Chabrol, invece, costruisce una tanto invisibile quanto robusta struttura drammaturgica e filmica che incastra a perfezione le situazioni, esplora vertiginosamente la psiche dei personaggi, senza cedimenti o sbavature ma allo stesso tempo senza fastidiose invadenze e il risultato è un meccanismo impeccabile e profondo che non sarebbe dispiaciuto a Stanley Kubrick.

Inoltre si diverte a citare (letteralmente: nominandoli) Fritz Lang e Jean Renoir suggerendo così chiave di lettura giusta.

Del resto non è difficile intuire che la soluzione dell’intrigo è in quei thermos pieni di cioccolato che Mika (Isabelle Huppert, bravissima e di classe , comme d’habitude) prepara per i familiari e gli ospiti di cui, per “sublimare” le sue frustrazioni, dirige silenziosamente la vita e la morte.

All’esterno, l’algida Losanna ben fotografata da Renato Berta, in sintonia con il perbenismo e le perversioni dell’ambiente umano.


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IL DOTT.T E LE DONNE di Robert Altman, 2000

IL DOTT.T E LE DONNE di Robert Altman, 2000

E’ un Altman di buona annata questo film che parla di un ginecologo attorniato da una serie di donne impossibili della Dallas-bene, uno sguardo allo stesso tempo sarcastico ma affettuoso sull’umanità. Intelligente, acuto, zeppo di segnali. Il finale , poi, (che non vi svelo) è uno dei più sorprendenti e felici degli ultimi anni.

Richard Gere è nel ruolo, ma penalizzato nell’edizione italiana dal solito doppiaggio impostato di Mario Cordova. Tra le numerose attrici, festeggio un ritorno alla grande di Farrah Fawcett, bravissima nella caratterizzazione della moglie in stato di regressione mentale per…mancanza di problemi.

DENTI di Gabriele Salvatores, 2000

DENTI di Gabriele Salvatores, 2000

Vi ricordate il “dentone” Alberto Sordi che si presentava a un provino tv in un episodio de I complessi? Lui non aveva complessi, invece il dentone Rubini ne è afflitto tanto da credere di possedere una bocca speciale, forse maledetta, col risultato che come persona, non riesce a maturare e ciò provoca, tra gli altri problemi, una incredibile morbosa gelosia.

Proprio a causa di questa, la sua ragazza gli rompe i famosi denti e allora comincia il calvario da uno studio dentistico all’altro, tra allucinazioni e dolorosi ricordi, contrappuntato da riflessioni esistenziali sul dolore, la felicità e il rapporto tra corpo e anima. Grazie alla capacità majeutica del più odiato tra i dentisti, che gli fa venir fuori una miracolosa terza dentizione, egli rinasce a nuova vita, probabilmente più sereno e maturo. Bisogna riconoscere che Salvatores è uno dei pochissimi registi italiani che cerca e sperimenta nuove strade, stavolta con risultati buoni.

Aldilà delle scene crude e della magnifica colonna sonora, il racconto del percorso doloroso del protagonista può provocare nello spettatore (specialmente quello della generazione di Salvatores- e del sottoscritto) emozioni profonde, anche laceranti. Qualcuno ha citato Cronemberg: forse, ma ripassato in salsa mediterranea. Fra i difetti, alcuni personaggi inutili come lo zio che colleziona il pelo delle sue conquiste, e la prova insoddisfacente di un Sergio Rubini troppo esteriore, ma in compenso è girato con una cura e una perizia encomiabili.


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DANCER IN THE DARK di Lars von Trier 2000

DANCER IN THE DARK di Lars von Trier 2000

(Palma d’oro al 53^ Festival di Cannes)

In questo film del 2000 del Lars von Trier torna a rivisitare il “melò”, come già nell’estenuante Le onde del destino. Ma il suo approccio al genere è diverso da quello di un Fassbinder, che lo amava e chiedeva consigli al re Douglas Sirk, e anche da quello di Almodovar, che si limita a stra-citarlo nei suoi “pastiches”. L’operazione di Von Trier è piuttosto di de-strutturazione del genere, tenendo tutti gli elementi ma scomposti, come se da una tavola accuratamente apparecchiata togliessimo di colpo il manto e rimanessero tutte le vettovaglie rovesciate.

In questo panorama, il musical non è elemento straniante, ma anzi definisce i momenti drammatici, come nell’Opera italiana di un Verdi o un Donizetti. E così le scene musicali sono le uniche senza macchina a mano, molto movimentate e montate. Tutto questo non ha valenza negativa, nel mio giudizio si tratta infatti di un’opera eccezionale, sin dal suo potente avvio, con lo schermo scuro per 4 minuti, a preannunciare la cecità della protagonista (la brava Bjorg) e forse, del Cinema. La vicenda tragica, poi, ha momenti davvero toccanti (mai furbi) anche se qualcuno è stato infastidito da un presunto cattolicesimo integralista dell’autore che presenta questa Santa Selma martire.


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