UN SIGNORE IN VESTAGLIA DOMANI SI SVEGLIERÀ PRESTO, di Massimo Odierna

UN SIGNORE IN VESTAGLIA DOMANI SI SVEGLIERÀ PRESTO, di Massimo Odierna

(Cantieri contemporanei – Teatro Due Roma)

La compagnia BluTeatro con un interessante lavoro di Massimo Odierna ha aperto ufficialmente la rassegna Cantieri contemporanei – Officina promozionale della drammaturgia    contemporanea.

Il gruppo teatrale si è costituito nel 2011 ed è formato da giovani attori tutti provenienti dall’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio d’Amico, che hanno esordito nello stesso anno in un importante Festival teatrale a Mosca, in rappresentanza dell’Italia, con La bottega del caffè di Goldoni.

Il lavoro, diretto da Massimo Odierna, napoletano classe 1986, ha subito risonanza e la compagnia verrà successivamente inserita, per due anni consecutivi, nella stagione del Teatro Vittoria di Roma. Seguiranno altri nuovi allestimenti e progetti didattici che porteranno i giovani attori ad essere considerati dei veri e propri professionisti.

Il giovane autore e regista mette ora in scena Un signore in vestaglia domani si sveglierà presto e già dal titolo ci si può fare una idea su quello che ci aspetta: una sequenza di dialoghi sconclusionati e dove ricercare un filo logico è assolutamente impossibile.

E’ da credere che sia proprio questo l’intento di Massimo Odierna mettendo sulla scena una serie di personaggi connessi, direi per caso, tra di loro ma che difficilmente interagiscono in un clima assurdo dove l’illogico regna sovrano.

Ci vorrà dire che nel mondo di oggi tutto è superficiale ed i temi comuni di morte, amore, amicizia, sesso sono oramai in balìa di parole vuote e prive di significato?

Bravi gli attori (Luca Mascolo, Vincenzo D’Amato, Alessandro Meringolo, Sara Putignano, Viviana Altieri oltre a Massimo Odierna stesso) anche se l’eccessiva mimica li rende spesso grotteschi e sopra le righe.

Ma forse è proprio questo che rende il lavoro interessante e degno di attenzione.


data di pubblicazione 09 /01/2015


Il nostro voto:

TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento

TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento

(Mostra a cura di Marco Goldin – Basilica Palladiana, 24 Dicembre 2014 / 2 Giugno 2015)

Una splendida Piazza dei Signori, addobbata per le feste  ed occupata dai banchi di un mercatino natalizio di pregevole qualità ha fatto da cornice alle due ore di fila necessarie per entrare alla mostra in corso nella neo-restaurata Basilica palladiana di Vicenza (si consiglia vivamente, dunque, di prenotare in anticipo). 115 le opere ad attendere il visitatore della mostra intitolata Tutankhamon Caravaggio Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento, aperta fino al prossimo 2 Giugno 2015. Un titolo ed una mostra ambiziosi, che hanno scatenato perplessità da più parti, anche nei docenti del locale Liceo Classico, come riportato dalle chiacchiere dei vicentini tra i banchi del mercato. Una mostra ambiziosa che spiazza il visitatore, con un iniziale criterio espositivo cronologico (come elencato anche nella descrizione in breve sul sito http://www.lineadombra.it/ita/mostre/tutankhamon-caravaggio-van-gogh/la-mostra/tcvg-mostra/tcvg-mostra-breve.php) immettendoci nelle buie sale dei pezzi egizi, per poi proseguire , nelle sale successive, con  criteri di analogia e raffronto di opere di epoche diversissime, legate da un uso simile della luce o dal tema raffigurato. Il raffronto è il sale di una mostra che altrimenti crea difficoltà a rinvenire il filo conduttore prescelto, sia per la sua mancata evidenza di fronte alle  opere, sia per la difficoltà di fruizione delle didascalie, dovuta alla prolissità verbosa e concettuale delle stesse e alla scelta dei colori di sfondo e caratteri, oltre che all’illuminazione spesso insufficiente.  E se il percorso egizio rimane come una porzione a sé stante, apparentemente ma anche logisticamente slegata dal resto, pregevoli sono alcuni raffronti e accostamenti, il contemporaneo Lopez Garcia accanto ad un Tiziano, uno splendido Poussin e l’inquietante Bacon. Notevoli tutte le opere dello spagnolo Lopez Garcia, di cui si svolge contemporaneamente una mostra monografica a Palazzo Chiericati, così come le sferzate sull l’immaginario delle opere di Wyeth, Turner, Friedrich, Hopper e le incisioni di Rembrandt e Piranesi.  Gioiello della sala finale il Narciso di Caravaggio.  Ma la mostra, comunque interessante di sé, val bene il biglietto anche solo se si alza il naso in su e ci si lascia incantare dalla meraviglia che è la Basilica Palladiana che la ospita


data di pubblicazione 08 /01/2015

ALLACCIATE LE CINTURE di Ferzan Ozpetek, 2014

ALLACCIATE LE CINTURE di Ferzan Ozpetek, 2014

Allacciate le cinture è il secondo film di Ozpetek ambientato nel Salento, in particolare a Lecce, che tuttavia si discosta da tutte le precedenti pellicole del regista turco perché, pur nella coralità che accomuna quasi tutti i suoi lavori, è il primo lungometraggio che ha al centro una storia d’amore tra un uomo e una donna. E’ un amore vero quello tra Elena e Antonio, così distanti ma inevitabilmente attratti l’uno dall’altra: ed è proprio questo amore che darà loro la forza di “allacciare le cinture” di fronte alle difficoltà della vita ed andare avanti senza mollare. Sicuramente a Ferzan Ozpetek, regista non sempre amato, bisogna riconoscere un pregio non comune: quello di essere un profondo osservatore e conoscitore di generi umani e di avere l’abilità di raccontare storie così ricche di sentimenti, aneddoti, situazioni disparate, in cui ciascun spettatore può trovare un lembo di sé.

Dedichiamo a questo film, una ricetta tipicamente pugliese, anche se un po’ rivisitata: la purea di fave.

INGREDIENTI: 300 gr. di fave secche decorticate – 1 grossa patata – 1 gambo di sedano – sale grosso q.b. – olio d’oliva q.b. – finocchietto selvatico 

PROCEDIMENTO: Mettere a bagno le fave decorticate in un recipiente con dell’acqua calda ed un po’ di sale grosso, e farle stare in ammollo per tutta la notte. La mattina dopo scolarle e sciacquarle abbondantemente; metterle quindi in una pentola assieme alla patata fatta a pezzetti ed al gambo di sedano sempre tagliato a pezzetti. Coprirle con l’acqua sino a due dita sopra e metterle a cuocere a fuoco moderato per almeno 30/40 minuti, rimboccando di acqua tiepida se dovesse essere necessario, sino ad ottenere una purea.

La purea così ottenuta tende a raggrumarsi e a cristallizzarsi velocemente: niente paura, all’occorrenza basterà aggiungere un po’ di acqua e far riprendere il bollore. La purea di fave va servita calda con olio a crudo e con del finocchietto selvatico fresco o secco.

CANTIERI CONTEMPORANEI – OFFICINA PROMOZIONALE

CANTIERI CONTEMPORANEI – OFFICINA PROMOZIONALE

Il Teatro Due Roma, in via due Macelli 37, ospiterà dall’8 al 25 gennaio un interessante progetto teatrale denominato Cantieri Contemporanei – Officina promozionale con il patrocinio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico.

La rassegna, presentata in conferenza stampa dal direttore artistico del teatro Marco Lucchesi, prevede quattro spettacoli:

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Un signore in vestaglia domani si sveglierà presto, scritto e diretto da Massimo Odierna, in programma l’8 ed il 9;

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Das Schloss da F. Kafka, con la regia di Francesca Caprioli, dal 10 al 14;

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Assolutamente deliziose di Claire Dowie, con la regia di Emiliano Russo, dal 15 al 20;

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Julien Zoluà di Giulio Maria Corso, diretto da Roberta Azzarone, dal 21 al 25.

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I lavori sono stati poi singolarmente presentati dai registi, tutti ragazzi appena diplomati all’Accademia, i quali hanno voluto sottolineare la loro voglia di lavorare e creare insieme, tutti spinti da un entusiasmo che oggi difficilmente riscontriamo negli “adulti”, ma che sicuramente non ha abbandonato i giovani, pur in presenza dell’attuale quadro socio-politico che certamente non dà giusto rilievo alle iniziative culturali.

Il Teatro Due Roma, che si appresta a varare durante questo 2015 appena iniziato una serie di progetti drammaturgici e teatrali di sicuro interesse, si è quindi presentato ancora una volta come un centro di promozione, distribuzione e formazione di giovani impegnati a fare teatro.

Noi di Accreditati seguiremo con la dovuta e meritata attenzione i lavori in programma e come sempre vi daremo le nostre impressioni, qualunque esse siano, senza trascurare sin d’ora lo spirito creativo e l’impegno di questi giovani, futuri protagonisti della scena teatrale italiana.


data di pubblicazione 07 /01/2015

THE IMITATION GAME di Morten Tyldum, 2015

THE IMITATION GAME di Morten Tyldum, 2015

statuetta

A volte sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare. Manchester 1951: Alan Turing, professore di matematica presso il laboratorio di fisica dell’università, in seguito ad una perquisizione delle autorità britanniche nel suo appartamento per indagare su una segnalazione di furto con scasso, viene successivamente arrestato per atti osceni in luogo pubblico. Durante l’interrogatorio, però, non gli vengono rivolte domande circa il motivo dell’arresto ma piuttosto su quale lavoro svolgesse durante la seconda guerra mondiale. Lo scienziato faceva infatti parte di un ristretto gruppo di esperti matematici ed analisti incaricati direttamente da Winston Churchill per conto del re, chiamati allo scopo di decodificare i messaggi di Enigma, il sistema che criptava le missive con cui lo stato maggiore militare nazista comunicava tutti gli attacchi, i bombardamenti e le operazioni militari. Messaggi, dunque, che viaggiavano nell’aria e che chiunque poteva captare perché apparentemente non segreti, ma che nessuno poteva capire perché non si conosceva come decodificarli: trovare la chiave di lettura di Enigma era l’incarico per sconfiggere Hitler e vincere la guerra. Ma Turing, giovane dal carattere impossibile e per nulla collaborativo con i colleghi, decise di andare oltre teorizzando un’intelligenza artificiale in grado di “imitare” il modo di ragionare degli uomini, ma con molte più possibili diversità di ragionamento, in modo da essere in grado di rintracciare i 159 milioni di milioni di milioni di combinazioni che Enigma ogni giorno era in grado di produrre, dai contenuti indecifrabili. Chiese ed ottenne direttamente da Churchill un cospicuo finanziamento ed un tempo illimitato di lavoro per progettare e costruire Christofer, un calcolatore digitale che potremmo definire il prototipo primordiale dei moderni computer. Grazie anche alla macchina di Turing, durante il secondo conflitto mondiale fu possibile la creazione di un archivio britannico di informazioni militari denominato Ultra, che partendo dalla conoscenza anticipata delle strategie nemiche, accorciò di molto la durata del conflitto salvando la vita a svariati milioni di persone.

Vincitore nel 2014 del Toronto International Film Festival e candidato a 5 Golden Globe per il 2015, The Imitation Game del norvegese Morten Tyldum, adattamento cinematografico della biografia di Alan Turing, si regge prevalentemente sulla bravura da Oscar di Benedict Cumberbatch, che riesce da solo a dare corpo al vero e proprio argomento centrale del film: il martirio di un genio, riabilitato come eroe solo nel 2013 dalla regina Elisabetta, che visse nell’Inghilterra dei primi anni ’50 quando l’omosessualità era illegale e la pena, in caso di arresto per atti osceni in luogo pubblico, era la castrazione chimica, moderna sostituzione dei lavori forzati ai quali era stato condannato a fine del 1800 Oscar Wilde.

Ottima la sceneggiatura, supportata da un ritmo che ricorre sovente al flashback, ma che tuttavia ruotando sempre intorno al protagonista penalizza il resto del cast sempre in ombra, anche per interpretazione; ne esce fuori un’opera biografica, dove la compagine storica in cui si svolge la vicenda potremmo quasi definirla marginale, o quantomeno pretestuosa per parlare di diversità ed emarginazione, partendo proprio dalla genialità del suo protagonista che non fu mai decodificata dalla cosiddetta “normalità”.

data di pubblicazione 04 /01/2015


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AMERICAN SNIPER di Clint Eastwood, 2015

AMERICAN SNIPER di Clint Eastwood, 2015

statuetta

Il mondo è popolato da tre categorie di uomini: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Chris non è nato né per subire passivamente il male né per prestare a quel male le proprie fauci: la missione alla quale è destinato è quella di difendere chi non ha la forza o la capacità di badare a se stesso, anche quando ciò comporti la definitiva eliminazione dell’avversario.

In American Sniper Bradley Cooper presta il suo volto e i suoi muscoli a Chris Kyle, il cecchino “Leggenda” dei Seals, che ha messo a segno 160 bersagli durante la guerra in Iraq. Per quanto il film si riveli a tratti intriso di celebrativo patriottismo, Clint Eastwood sembra scongiurare il rischio di una compiaciuta celebrazione della guerra americana “di difesa e di liberazione” e delle sue logiche fatte (anche) di uno straripante ego virile, che magari indossa la maschera dell’insindacabile senso del dovere e veste il mantello del supereroe che protegge la città dall’alto, con il potere della sua mira infallibile.

La storia di Chris Kyle, forse esageratamene patinata per ciò che attiene alla sua dimensione privata al fianco dell’impeccabile mogliettina Sienna Miller, finisce piuttosto per mostrare come tra i fumi e le polveri del campo da battaglia la dicotomia bene/male divenga meno nitida dell’immagine delle Torri gemelle che si sgretolano guardata attraverso il televisore. Nel momento in cui nel mirino finiscono donne e bambini, persino il più fedele e intrepido cane da pastore prova la lacerante sensazione di trasformarsi in lupo spietato.

Quel campo da battaglia che si rende esperienza inevitabilmente totalizzante per i combattenti che, per le ragioni più diverse, decidano di mettervi piede. Anche quando si torna a casa, non si torna mai veramente. Il rombo di un motore, un suono metallico, un cane che gioca con un bimbo: ogni dettaglio della “vita” finisce per assumere la consistenza della “morte”.

132 minuti di ritmo incalzante per un film che in più di una sequenza lascia lo spettatore con il fiato sospeso e che, pur non essendo forse tra le prove migliori di Eastwood, si caratterizza per quel misto di spettacolarità e di esistenzialismo che rendono riconoscibile il suo cinema.


data di pubblicazione 04 /01/2015


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BIG EYES di Tim Burton, 2015

BIG EYES di Tim Burton, 2015

Big Eyes di Tim Burton racconta al grande pubblico la storia vera di Margaret Keane, la pittrice dei bambini con gli occhi grandi.

Gli occhi, si sa, sono lo specchio dell’anima e Margaret l’anima la vede così: sconfinata, sproporzionata, ingombrante, sgranata sul mondo e sugli altri occhi. Gli occhioni dei suoi bimbi resterebbero però uno dei tanti orpelli da bancarella se il secondo marito di Margaret, Walter Keane, affabulatore con la smania di diventare artista, non si appropriasse fraudolentemente delle opere della moglie immettendole nel tritacarne dell’arte massmediatica. Quell’arte in cui i critici riescono a vedere solo del banale kitsch involgarito dall’ossessione della serialità, ma che il resto del mondo è disposto a comprare senza riserve. E quando le tele diventano troppo costose, si passa alla loro riproduzione: poster, cartoline, biglietti d’auguri venduti nella galleria d’arte di Walter e negli scaffali del supermercato.

Margaret, dopo aver divorziato dal primo marito, non se la sente di mettere nuovamente in discussione quella potestà maritale alla quale persino un prete si sente in dovere di richiamarla, nell’America degli anni Sessanta non ancora pronta a metabolizzare un’arte fatta da donne. Per questo continua a dipingere e a lasciare che Walter si goda l’inebriante ubriacatura del successo. Continua a dipingere in maniera bulimica, nevrotica, patologica, fino a quando la classica goccia che fa traboccare il vaso non la convincerà a cambiare vita e a trascinare suo marito in tribunale.

Pronunciare il nome “Tim Burton” significa accostare a quel nome l’aggettivo “visionario”, ma in Big Eyes di visionario c’è davvero molto poco, se si fa eccezione per la sequenza del supermercato e quella del tribunale e per gli abbaglianti colori della fotografia dell’inizio e della fine del film che esaltano lo sguardo di Amy Adams, più sconfinato, sproporzionato, ingombrante e sgranato di quello dei suoi bambini.

Una bella “favola vera” sostenuta dalle interpretazioni magistrali di Amy Adams e Cristoph Waltz, ma con scarsa capacità di sorprendere e di incantare.

data di pubblicazione 04 /01/2015


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ULTIMO TANGO A PARIGI di Bernardo Bertolucci, 1972

ULTIMO TANGO A PARIGI di Bernardo Bertolucci, 1972

Un appartamento vuoto nell’ormai leggendaria Rue Jules Verne di Parigi, due sconosciuti che si incontrano per caso, due corpi che si fondono per istinto, due anime che si avvicinano per necessità, secondo i tradizionali canoni di un’attrazione tanto irresistibile da divenire fatale.

Dopo aver assistito alla prima newyorkese di Ultimo tango a Parigi (1972), Pauline Kael, tra i critici americani più rappresentativi della sua epoca, scrisse che la proiezione del film di Bertolucci equivaleva, nella storia del cinema, a quel che “La sagra della Primavera” di Stravinnskij aveva rappresentato per la storia della musica e, più in generale, della cultura. Un’opera in grado di gettare una platea di persone adulte, dotate di una solida formazione culturale, in un autentico stato di shock e di spalancare al cinema le porte di quella potenza evocativa che il grande schermo stava sperimentando, forse per la prima volta, in maniera così drammaticamente esplicita.

Ultimo tango a Parigi, prodotto dal “coraggioso” Alberto Grimaldi, è anche noto per essere stato il protagonista di una vicenda giudiziaria talmente articolata e discussa da far meritare all’opera di Bertolucci il titolo di autentico leading case nei rapporti tra arte cinematografica e diritto, sia in riferimento alla scure della censura amministrativa sia (e forse soprattutto) per la possibile rilevanza penale di film considerati “osceni” (articoli 528 e 529 del codice penale).

Tanto nelle sentenze relative al “caso Ultimo tango” quanto nell’immaginario collettivo, l’emblema di una (pretesa) offesa al comune sentimento del pudore è rappresentata dalla scena, peraltro non prevista nella versione ufficiale della sceneggiatura edita da Einaudi nel 1973, in cui Marlon Brando “porge” all’ignara Maria Schneider un panetto di burro per scopi non propriamente domestici, dissacrando con le sue parole quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù che è la famiglia.

Tanto rumore per un panetto di burro?

Sicuramente dissacrante, ma quantomeno pertinente, è la ricetta di biscotti al burro che abbiamo voluto abbinare a questo autentico capolavoro della cinematografia mondiale.

INGREDIENTI: – 350 gr di farina “00” per dolci (arricchita con amido di frumento) – 1 cucchiaio abbondante di zucchero – 2 uova intere – 1 pizzico di sale – 250gr di burro (tirato fuori dal frigo almeno ½ ora prima)  – 1 bustina di lievito per dolci –zucchero a velo q.b.

PROCEDIMENTO: Accendete come prima cosa il forno a 150° termo-ventilato; amalgamare quindi bene gli ingredienti aggiungendo al centro della farina adagiata su di una spianatoia: il pizzico di sale, il lievito, le due uova, lo zucchero, il burro molto morbido fatto a pezzettini. Lavorare gli ingredienti fino ad ottenere un impasto omogeneo e quindi mettere l’impasto per circa 15 minuti nel frigorifero avvolto nella pellicola trasparente; dopo averlo fatto riposare in frigo, con il mattarello tirare sfoglie alte 1 cm. e tagliarle con formine varie. Adagiare quindi i biscotti così ottenuti su una leccarda foderata con carta da forno e infornare a 150° termo-ventilato per soli 12 minuti. Dopo aver cotto tutti i biscotti (non basterà una sola infornata), a freddo cospargeteli con zucchero a velo e conservarli in una scatola di latta con il fondo ricoperto di carta oleata.

Sono ottimi con il the.

CONSIGLI: Si possono aggiungere all’impasto degli aromi, come ad esempio i semi di un baccello di vaniglia, la buccia grattugiata di ½ limone, dello zenzero tritato o semplicemente della cannella in polvere.

JIMMY’S HALL- UNA STORIA D’AMORE E LIBERTÁ di Ken Loach, 2014

JIMMY’S HALL- UNA STORIA D’AMORE E LIBERTÁ di Ken Loach, 2014

(Festival di Cannes – in Concorso)

È il 1932 quando Jimmy Gralton fa rientro dagli Stati Uniti a Leitrim nel nord dell’Irlanda, per prendersi cura dell’anziana madre oramai rimasta sola: dieci anni prima si era reso colpevole di aver costruito la Pearse Connolly Hall, un capannone di lamiera dove i giovani come lui potevano incontrarsi, ballare e fare musica, cantare, seguire corsi d’arte, oltre che leggere e sentirsi liberi di esprimere ognuno le proprie idee, insomma un punto d’incontro e di condivisione per quel piccolo paese rurale. Nonostante l’esilio forzato, Jimmy non ha perso il “vizio” di volersi sentire libero né di trasmettere questo senso di libertà agli altri e, nel giro di pochi mesi, decide di riaprire quella sala causa del suo allontanamento. La Jimmy’s hall ben presto ri-diviene per la nuova generazione di Leitrim un vero e proprio centro sociale che come nel passato continua a fare ancora molta paura alle autorità, al parroco del posto e ai politici locali, perché in quel capannone in mezzo alla campagna si coltivano idee comuniste e si tengono atteggiamenti poco ortodossi tra ragazzi e ragazze che ballano al ritmo di jazz, la musica del diavolo importata direttamente da New York. Jimmy questa volta verrà espulso dal suo paese senza un processo, come “immigrato clandestino” pur essendo irlandese, e non vi farà più ritorno.

Applauditissimo al festival di Cannes Jimmy’s Hall-Una storia d’amore e libertà, che ha al centro la figura di quest’uomo realmente esistito, un personaggio leggendario, quasi un eroe romantico, potrebbe essere l’ultima fatica dell’oramai settantottenne Ken Loach che rivolge, anche in questo caso, lo sguardo verso le classi meno abbienti rappresentate sovente da personaggi portatori di un’enorme dignità. Con un sottotitolo perfetto, Jimmy’s Hall è realmente una storia di sentimenti perfettamente dosati con la politica, che mai come in questo caso assume il significato di libero pensiero, in perfetto equilibrio tra semplicità e melanconia.


data di pubblicazione 30 /12/2014


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HENRI CARTIER-BRESSON

HENRI CARTIER-BRESSON

(Museo dell’Ara Pacis – Roma, 26 settembre 2014 / 25 gennaio 2015)

Henri Cartier-Bresson (1908-2004) ha immortalato attraverso l’obiettivo della sua macchina alcuni degli snodi più significativi del secolo scorso, cesellando al tempo stesso quegli scatti senza tempo che nell’immaginario comune identificano ormai la Fotografia per antonomasia.

La poesia e il gusto per la composizione dell’immagine da una parte, l’impegno politico e la testimonianza dall’altra. Henri Cartier-Bresson è Uno, Nessuno e Centomila nell’esposizione allestita a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis, che celebra il genio eclettico del suo “occhio assoluto”, divenuto in breve tempo “occhio del secolo”.

È affascinato dalla rassicurante infallibilità della matematica e della sezione aurea, ma anche fatalmente attratto dalla deformazione surrealista dei corpi e dello spazio. È l’artista che lascia la macchina in paziente attesa che “succeda qualcosa” davanti al suo occhio e che cattura poi “l’istante decisivo” come un cacciatore fa la con la sua preda, ma è anche il fotografo a servizio della stampa comunista e tra i fondatori della Magnum Photos, l’agenzia che inaugura un nuovo modo di fare e di intendere il reportage.

Durante il percorso disegnato dalla mostra, la fotografia assume progressivamente la consistenza del “documentario”, mostrando una vocazione sempre più chiaramente ed esplicitamente politico-sociale. Dietro lo scatto minuziosamente composto che, rievocando le atmosfere di alcuni dipinti di Renoir, ritrae un momento di svago in riva alla Senna si cela il traguardo delle prime ferie retribuite ottenute dai lavoratori francesi, così come dietro i volti sorridenti del gioco a premi “Il mistero del bambino scomparso” si nasconde la celebrativa simbologia salvifica del comunismo. Nessuna “interpretazione” è per contro necessaria a fronte della vibrante sequenza del processo popolare allestito nei confronti di una collaborazionista nazista o davanti al pianto dirotto di una donna accartocciata sulle macerie di Dessau.

L’occhio dello spettatore è catapultato in un vorticoso viaggio attorno (e nel) mondo: l’Africa delle colonie, la Cina della cartamoneta che si svaluta vertiginosamente, la Cuba di Fidel Castro e dei conturbanti corpi femminili, l’India dei funerali di Gandhi, la Russia in cui troneggia ancora per molto tempo la gigantografia di Stalin.

Il tutto intervallato dagli stracci che alludono al mistero dell’erotico velato, dalle donne in nero che nelle stradine di Scanno volteggiano come note su uno spartito, da quei celeberrimi scatti del 1932, “Dietro la stazione Saint-Lazare” e “Hyères”, che condensano mirabilmente la perfezione di un’arte al cospetto della quale è inevitabile l’estatica contemplazione.

Per me la fotografia non è un lavoro, ma piuttosto un duro piacere; non cercare niente, aspettare la sorpresa, essere una lastra sensibile.

Il momento dello scatto si colloca a metà strada tra il gioco del borsaiolo e del funambolo. Un gioco perpetuo, accompagnato da una tensione estrema.

L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta.


data di pubblicazione 29 /12/2014