da Alessandro Pesce | Gen 20, 2015
Alessandro Siani, che da Benvenuti al sud in poi sbanca puntualmente i botteghini, si conferma campione d’incassi anche stavolta con Si accettano miracoli ma artisticamente fallisce clamorosamente.
Stavolta non c’è, ad aiutarlo, una solido plot d’oltr’alpe come in Benvenuti al sud, né un regista fine come Luca Miniero
Il film, scritto e diretto dallo stesso Siani, parte con un’idea non male, basata sulla voglia di miracoli nell’Italia della crisi nera. Le ambizioni si immagina puntassero su una pellicola si divertente, ma anche leggermente surreale, con una storiella edificante, un gruppo di ragazzini simpatici e la cinepresa tesa a inquadrare il solito paesaggio del Sud, un po’ retrò un po’ cartolinesco.
Peccato che, come succede al novanta per cento del cinema comico italiano, sia completamente assente la sceneggiatura quasi che Siani avesse scritto dei microscopici quadretti o delle battute e collegandole poi con insignificanti trait d’union.
Tanto per fare un esempio: c’è l’idea (che vorrebbe essere divertente) di un frate sordo. Ebbene, non c’entra nulla con la storia, ma l’autore ce lo infila lo stesso e poi lo fa anche cadere dentro un tombino per amplificare – invano – la risata. E così è “costruito” quasi tutto il film.
Probabilmente con la consapevolezza dell’esilità della storia, Siani si inventa anche una specie di inutile alter ego (affindandolo a uno spaesato Fabio De Luigi) e si contorna di un nutrito cast regalando dei camei a caratteristi preziosi come Massimiliano Gallo, Giacomo Rizzo, Serena Autieri, Camillo Milli e altri, ma non è che con uno script così ingenuo si possano fare sfracelli!
Resta quindi la delusione per un’occasione mancata perché comunque Siani, sebbene ammalato di “troisite”, è un ragazzo simpatico e un talento naturale e potrebbe ambire a inserirsi in storie e ambiti meglio costruiti e degni di lui.
Ma la cassa ha delle ragioni che il gusto non vede e allora non rimane che dire: Chapeau.
data di pubblicazione 20/01/2015
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da Alessandro Pesce | Gen 19, 2015
(Teatro Parioli Peppino De Filippo – Roma, 15/25 gennaio 2015)
Tutto il mondo è palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto attori
Hanno le loro uscite e le loro entrate e nella vita ciascuno recita molte parti
E’ la battuta più nota ed importante di Come vi piace, pronunciata da Jacques, un malinconico clown, personaggio non esattamente protagonista ma talmente significativo che viene affidato di solito ad attori di sopraffina sensibilità.
Apparentemente commedia bucolica basata su una contrapposizione tra il mondo di corte e quello dei pastori, in realtà è uno dei testi più misteriosi e ambigui del Bardo, dove pare, che con trecento anni di anticipo su Pirandello, si ragioni di realtà e finzione sulla scena e nella vita.
Ma non è l’unica suggestione della commedia, dove il tòpos del travestimento fa la parte del leone, con Rosalinda, la protagonista che si finge uomo, come succede ad altri, ed è proprio il tema del “doppio” ad interessare il regista di questa edizione: Maurizio Panici.
Non è semplice offrire un allestimento soddisfacente di un testo così complesso, a nostra memoria si sono avvicinati all’anima della commedia solo Peter Stein e Sandro Sequi, rispettivamente nel 1977 e nel 1985 puntando entrambi sul senso filosofico e su quel “perdersi” dei sentimenti come nella foresta di Arden.
Perfino Visconti, negli anni Cinquanta, a giudicare dalle cronache dell’epoca, riuscì solo a fare uno spettacolo immaginifico (con scene di Salvador Dalì) ma non convincente.
Oggi il Panici ha avuto l’idea di vivacizzare il tutto facendo eseguire in scena le composizioni di Ambrogio Sparagna, musicista illustre nel campo della musica popolare.
L’effetto spettacolare è raggiunto, ma purtroppo il resto non è egualmente persuasivo, il disegno registico è confuso, i giovani attori sono vitali ma, non sempre incisivi, (ma tra i meno giovani c’è il sempre bravo Sergio Basile), insomma l’insieme pare opaco e soprattutto il tanto succitato “tema del doppio”, viene soffocato dall’ensemble di musica e spettacolo.
data di pubblicazione 19 /01/2015
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da Elena Mascioli | Gen 16, 2015
Sei venuta/Ero curiosa/La curiosità ha ucciso il gatto. Primo round. Gong. Sul ring delle loro vite A & B fanno combattere la propria immagine di donna, una maschera che indossano e di cui si spogliano, alternativamente, su di un palcoscenico dicotomico già a prima vista. I brandelli dell’infanzia, dei ricordi, della storia comune, vengono appesi sulla realizzazione plastica delle loro identità, quelle A e B colorate che fungono da scenografia. Le due protagoniste si affrontano, fisicamente e verbalmente, con una incomprensibile conta infantile, poi il racconto si dispiega , diventa frontale rispetto ad un pubblico che sarà spettatore, interlocutore, il terzo incomodo, a volte. La lotta è verbale, il testo provocatorio, irridente, cinicamente divertente, un mantra che si ripete, ad ogni gong, al round successivo, con un ritmo più serrato che costringe le attrici, le due giovani Flaminia Cuzzoli e Ottavia Orticello, ad una riuscita prova di recitazione. Le donne finiranno sopra/ Sopra cosa?/ Sopra chiunque sarà sotto. Il femminismo, l’anarchia, gli slogan, i cartelli, GirlPower, StateAgitati: l’anarchica che si riproduce, perché no, e si dedica a coltivare le nostre verdure personali, svendendole ad una catena di supermercati. La femminista in carriera, invece, si arrampica sui tacchi a spillo della propria solitudine e incapacità di amare. Il testo, Assolutamente deliziose, è della britannica Claire Dowie, “l’avvocato supremo della ribellione” (The Stage), madre (o padre, direbbe lei, per andare oltre i generi) dello Stand-up Theatre. Il merito di averlo messo in scena e portato a Roma, dal 15 al 20 Gennaio 2015, alla rassegna CANTIERI CONTEMPORANEI promossa dal Teatro Due di Roma e con il patrocinio dell´Accademia Nazionale d´Arte Drammatica Silvio d´Amico Teatro, per la regia di Emiliano Russo. Uno spettacolo da regalarsi a mente aperta, perché, per dirla con Claire, stereotipare ed etichettare sono ancora crimini contro l’umanità.
data di pubblicazione 16 /01/2015
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da Felice Antignani | Gen 16, 2015
È stata una grande gioia vedere quest’uomo superare ogni sfida, sia scientifica che personale. Regno Unito, 1963. Stephen Hawking è un giovane dottorando di ricerca in Fisica, presso l’Università di Cambridge. Apparentemente pigro, svogliato e privo di metodo, è in realtà uno studente brillante, capace di risolvere, in poco tempo, nove (su dieci) domande impossibili, fornitegli dal proprio professore. Ha un obiettivo “semplice”, dal suo punto di vista, quanto ambizioso: trovare l’unica equazione che spieghi l’origine dell’universo e, al contempo, dimostri l’inesistenza di Dio. Ad una festa universitaria conosce Jane Wilde, dottoranda in lingue straniere. I due si innamorano ma, ben presto, la loro storia d’amore dovrà scontrarsi con malattia di Stephen, quella del motoneurone: una patologia progressiva che, mano a mano, gli impedirà di compiere i più elementari movimenti muscolari, quali camminare, scrivere, parlare, mangiare e deglutire. La coppia affronterà insieme la situazione, creando famiglia e cercando di vivere, al massimo delle proprie possibilità, l’anormale quotidianità. Jane dovrà rinunciare alle proprie aspirazioni, mentre Stephen, dal suo canto, continuerà a svolgere ricerca scientifica, senza perdere mai il proprio spirito goliardico ed irriverente.
Primo adattamento cinematografico del libro Travelling to Infinity: My life with Stephen, biografia del celebre astrofisico inglese scritta da Jane Wilde, il film di James Marsh potrebbe essere protagonista alla prossima cerimonia degli Oscar. La regia, poco dinamica, si concilia alla perfezione con le vicende narrate. Le musiche, potenti ed affascinanti, contribuiscono a coinvolgere ed emozionare lo spettatore. La Teoria del tutto è un film razionale e lucido, mai sdolcinato o melodrammatico. Forte ed intenso come lo sono i personaggi principali, si sviluppa con ritmo appropriato (né lento né veloce), che non stanca o appesantisce la visione. Quel fin che c’è vita c’è speranza, citato da Stephen durante l’ultima conferenza, fa riflettere, nella sua semplicità, e sprona a tirar fuori il meglio dalle situazioni più angoscianti. E poi ha un finale meraviglioso, da vivere con le lacrime agli occhi.
Cinque nomination agli Oscar (miglior film, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora) più che meritate. Da vedere, assolutamente.
data di pubblicazione 16 /01/2015
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da Antonio Iraci | Gen 16, 2015
Film cult considerato tra i migliori della commedia all’italiana, vincitore di diversi premi cinematografici ed in particolare: Festival di Cannes, come migliore commedia; Oscar come migliore sceneggiatura originale; 3 Nastri d’Argento per migliore soggetto originale, migliore sceneggiatura e migliore attore protagonista (Marcello Mastroianni) e Golden Globe sempre al protagonista. Il barone Ferdinando Cefalù, detto Fefè (Mastroianni), vive nella città siciliana di Agramonte ed è coniugato con la brutta e assillante Rosalia (Daniela Rocca). Invaghitosi della bella e giovane cugina Angela (Stefania Sandrelli), ricorre ad un ingegnoso stratagemma per liberarsi definitivamente della moglie spingendola tra le braccia di un suo vecchio spasimante (Leopoldo Trieste). Organizzando un classico delitto d’onore, Fefè, dopo varie vicissitudini, riesce a portare a termine il suo piano e così, in mancanza allora in Italia della legge sul divorzio, potrà realizzare il tanto sospirato sogno. Molto suggestiva la scena finale in cui i novelli sposi sono in gita in barca e la giovane Angela, mentre bacia il marito, stuzzica con il piede quello del barcaiolo che li accompagna. Questo film lo associamo alla ricetta della caponata di melanzane alla siciliana.
INGREDIENTI: 4 o 5 melanzane (non quelle tonde) – 1 grande testa di sedano – 150 grammi di capperi sottaceto – 150 grammi di olive bianche carnose – 3 lattine di pomodoro a cubetti – 2 cipolle – zucchero q.b. – aceto di vino rosso.
PROCEDIMENTO: Preparare una salsa di pomodoro con soffritto di cipolla alla maniera tradizionale, salare ed aggiungere un buon cucchiaio di zucchero. Tagliare le melanzane a cubetti abbastanza grossi e lasciare sotto sale per due o tre ore affinché venga fuori l’amaro. Prima di friggere in abbondante olio d’oliva, risciacquare bene le melanzane ed asciugarle. Bollire il sedano e una volta cotto tagliarlo a pezzettini. Freddate le melanzane, si procede all’assemblaggio degli ingredienti: in un recipiente molto grande vanno depositate le melanzane fritte con il loro olio di frittura. Poi si aggiunge il sedano a pezzetti, le olive bianche senza nocciolo, i capperi scolati e sciacquati e la salsa di pomodoro. Gli ingredienti vanno mescolati possibilmente con le mani. La caponata è una piatto delicato e non va maltrattato!!!!
Aggiungere poi l’aceto di vino e lo zucchero a seconda di come si vuole ottenere l’agrodolce, cioè se con prevalenza dell’agro o del dolce. La caponata va fatta riposare almeno un giorno in frigo, ma va servita poi leggermente tiepida.
da Maria Letizia Panerai | Gen 16, 2015
Il film, pluripremiato e con un cast femminile di tutto rispetto, è ambientato nei primi anni sessanta nello stato del Mississippi, profondamente segnato da storie di segregazione e razzismo. Una giovane ragazza bianca, dopo aver conseguito la laurea, invece di sognare il matrimonio come tutte le sue coetanee, decide di diventare scrittrice e pensa che possa essere interessante raccogliere in un libro le storie delle domestiche che frequentano le case dei bianchi benestanti di Jackson, facendole raccontare direttamente da loro. Aibileen e Minny, sono due di queste donne afroamericane che puliscono, cucinano e che, soprattutto, crescono i figli dei loro padroni bianchi come fossero i loro figli, anche se hanno il divieto assoluto di mangiare in loro compagnia e di usare gli stessi servizi igienici…Abbiniamo a questo film un tipico dolce da “merenda americana”, senza tuttavia voler in alcun modo collegare la ricetta dei nostri gustosi muffin al cioccolato e nocciole, alla famosa torta di cioccolato che Minny regala alla sua ex padrona: si consiglia di vedere il film per capire il perché….
INGREDIENTI: 170 gr. di farina – 170 gr. di zucchero – 170 ml. di olio – 3 uova – ½ bustina di lievito – 1 bustina di vanillina -1 etto di gocce di cioccolato fondente -1/2 etto di granella di nocciole -12 nocciole sbucciate e tostate – 12 pirottine di carta da forno per muffin.
PROCEDIMENTO: Fate scaldare il forno a 180° termo-ventilato. Lavorare in una coppa le uova con lo zucchero sino a farle diventare belle spumose; aggiungere alle uova, alternativamente, la farina e l’olio, lavorando sempre l’impasto con lo sbattitore ad una velocità media; aggiungere infine la vanillina e la ½ bustina di lievito. Quando il composto è pronto, aggiungere ad esso le gocce di cioccolato e la granella di nocciole, mescolando il tutto con un mestolo. Mettere l’impasto così ottenuto nelle 12 pirottine di carta da forno per muffin, che avrete adagiato su una leccarda da forno; infornate per 15 minuti. Togliete i muffin dal forno, che saranno belli gonfi e, prima che si freddino, infilzate delicatamente al centro di ognuno di loro una ad una le 12 nocciole tostate. Sono meravigliosi!
da Antonella Massaro | Gen 15, 2015
Approda nelle sale italiane Hungry Hearts di Saverio Costanzo, dopo il fortunato sbarco al Lido della 71ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia: generosi applausi del pubblico e doppia Coppia Volpi ai due attori protagonisti Adam Driver e Alba Rohrwacher.
La storia, tratta dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, è un potente crogiolo di sentimenti estremi, perennemente in bilico sul delicato filo della imperscrutabile tensione psicologica.
Per Mina e Jude galeotto fu il maleodorante bagno di un ristorante cinese di New York. Cupido scocca implacabile la sua freccia sotto forma di porta che non ne vuole sapere di aprirsi. La passione, il matrimonio e la gravidanza sembrano seguire il copione della storia ideale, fino a quando l’amore materno di Mina per il suo bimbo “speciale” diviene una soffocante coperta di affetto. È decisa a mantenere pura e sana la sua creatura, a proteggerla da ogni possibile contaminazione che possa derivare dal mondo esterno. A partire dal cibo. Quel cibo maleodorante con il quale si apre il film e che attribuisce alla scena di apertura del film un significato (forse) più profondo del semplice “siparietto galeotto”. I tentativi di arginare l’amore di una madre inconsciamente trasformatasi in potenziale carnefice nella sua bolla di assoluto isolamento si succedono con un ritmo incalzante, che tuttavia non si rivela sorretto da un finale sufficientemente solido.
Malgrado lo sforzo nel tratteggiare la psiche di personaggi indubbiamente complessi, Hungry Hearts restituisce un’impressione di incompletezza, dovuta forse ai blocchi troppo rigidamente contrapposti nei quali la storia risulta articolata. Ottima la prova di Alba Rohrwacher, con un Adam Driver non sempre alla sua altezza.
Il film è recitato in inglese. Adam Driver però canta “Tu si ‘na cosa grande” in italiano. E la festa di matrimonio è scandita dalle note di Flashdance. Una colonna sonora che rende immediatamente riconoscibile Hungry Hearts come prodotto da “grande pubblico”. Al botteghino l’ardua sentenza.
data di pubblicazione 15 /01/2015
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da T. Pica | Gen 14, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 13/25 gennaio 2015)
Al Teatro dell’Orologio di Roma ha debuttato Il diario di Maria Pia, l’Opera, forse, più intima e sentita di Fausto Paravidino che da qualche anno ha incantato i teatri di mezza Europa.
Avvolti da una scenografia minimale ma al contempo inspiegabilmente calda e dolce, l’Autore, regista e protagonista, mette in scena l’ultimo mese e mezzo di vita della madre – interpretata dalla bravissima Monica Samassa – e con la poliedricità mimica e (unica) vocale che lo contraddistingue regala allo spettatore delle perfette miniature, quasi dei carboncini dei personaggi che con lui e Iris sono stati vicino a Maria Pia, intorno al suo letto d’ospedale.
La malattia di Maria Pia le strappa tutto d’un fiato le forze e la dottoressa si ritrova improvvisamente orfana del proprio corpo, della sua dimensione corporea, e priva della vitalità fisica che l’ha sempre caratterizzata in famiglia e tra i colleghi medici.
Ma solo il fisico è sopraffatto dal cancro e ormai inerme. La mente di Maria Pia, seppure annebbiata e talvolta confusa, resiste caparbia e il diario scritto sotto dettatura da Fausto diviene la voce del flusso dei suoi pensieri e dei ricordi. Ma il diario è molto di più: è la testimonianza di quello che la malattia, il suo silenzioso avanzamento verso l’inesorabile evento della morte, con molta probabilità potrebbe determinare nella mente di ognuno di noi. E grazie a questo diario la morte non fa poi così paura. Fausto Paravidino riesce a rappresentare i sentimenti e i flussi che hanno attraversato e fatto compagnia a Maria Pia nel suo ultimo frammento di vita con incredibile leggerezza grazie a un misurato ricorso all’ironia, con cui sdrammatizza le troppo spesso ciniche, fredde parole “calcolatrici” dei medici e delle statistiche. Lo spettatore viene rapito senza rendersene conto dal groviglio di amore, stupore e nostalgie che attraversano la stanza di Maria Pia, ma senza soffrire. Si non c’è sofferenza, non vi è traccia di dolore: né sul volto di Maria Pia, né su quello dei suoi cari, né su quello del pubblico.
Nell’Opera il dolore lascia il posto a pensieri semplici, dolci, talvolta solo apparentemente banali, che confluiscono nel prestigioso ricordo del “caco d’autunno”, disegnato da Maria Pia a 6 anni, e nella giusta distanza con cui alla fine la protagonista rimpiange l’affannosa, talvolta smaniosa, ricerca di una cultura sempre maggiore che poi a conti fatti, in quel letto di ospedale, appare esser stata manieristica, inutile o quantomeno eccessiva. Ma, soprattutto, dal diario di Maria Pia, nel flusso delle sue riflessioni spontanee, irrompe la solenne allegoria del mare di ovatta che lungo il testo si contrappone, in una lotta simbolica, al rullo compressore della malattia. Ognuno di noi ha il suo mare di ovatta in cui ritrovare tutte le cose belle della propria esistenza terrena e forse basterebbe ricordarsi e “accarezzare” questo mare di ovatta un pò più spesso per godere a pieno di ogni nostro istante sulla Terra.
Infatti proprio questo soffice mare di ovatta, con le sue triturine, annienta ogni forma di paura, di sofferenza lungo l’intera rappresentazione fino all’ultimo punto messo da Fausto sul diario.
Ed ecco che, dopo aver assistito partecipe all’intera Opera senza turbamenti, con il punto definitivo della morte di Maria Pia, solo in quel preciso momento, mentre siamo completamente rapiti dalla scena finale, gli occhi sono improvvisamente e sorprendentemente carichi di lacrime che fluiscono quasi singhiozzando. Del tutto inaspettatamente ci si ritrova in lacrime ma senza alcun dolore, senza ansie, in lacrime ma con il sorriso dettato da una strana sensazione di serenità mista a felicità.
Che dire! Con Il diario di Maria Pia Fausto Paravidino da prova di una sensibilità forte, poetica ed assoluta regalandoci un suo momento unico e intimo che, sebbene “sulla carta” degli stereotipi dovrebbe essere doloroso e triste, lascia positivamente scossi dentro. Si esce dal Teatro con gli occhi posticci e umidi, ma senza una briciola di sofferenza…anzi.
Una catarsi unica nel suo genere.
data di pubblicazione 14 /01/2015
Il nostro voto:
da Alessandro De Michele | Gen 11, 2015
Quando Fellini la vide per la prima volta avanzare nei giardini del l’Hotel De La Ville a Roma, raccontò di aver provato quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità, che si prova di fronte alle creature eccezionali, come la giraffa, l’elefante, il baobab…. Visione sconvolgente e perturbante – tutto ciò che le stava intorno, sbiadiva come ombre attorno a una sorgente luminosa…– racconta ancora il regista.
Quella gloria di divinità elementare schiuse nella fantasia del grande artista visioni destinate a diventare mito, immagini potenti, inedite, modernissime e ancestrali: incarnazione del Femminile, accarezzando quella frangia d’acqua della fontana di Trevi come un’arpa ammaliatrice, richiamò a sé, oltre all’attonito Marcello, il pubblico di tutto il mondo.
E così la giunonica svedese, la pin-up girl hollywoodiana, da poco consacrata al grande cinema con la partecipazione al film Guerra e Pace di King Vidor, sbaragliando ogni moralistica resistenza entra prepotentemente nell’immaginario collettivo come un’epifania di bellezza rigeneratrice: quel gesto semplice e spontaneo di raccogliere poche gocce d’acqua e come in un battesimo pagano versarle poi sul capo dell’uomo che le sta di fronte, diventa l’espressione di una, seppur fuggevole, possibilità di riconciliazione e armonizzazione con la bellezza del mondo.
È solo un attimo, un fremito illusorio, un istante eterno, ma da quell’attimo-eterno, come un raro e preziosissimo esemplare di farfalla, Anita Ekberg resta infilzata come dallo spillone di un entomologo che, sottraendola alla vita, la condanna precocemente all’immortalità.
Toccata dalla potenza del genio, con La dolce vita, la Ekberg raggiunge un iperbole di “rappresentazione di sé” che non le consentirà più di trovare la misura giusta ad esprimere le sue potenzialità di interprete e di attrice internazionale.
Sull‘onda lunga di quel travolgente successo, non può che auto-consacrarsi rappresentando se stessa nel divertente e irriverente sberleffo ai censori de La dolce vita che è l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio del film Boccaccio 70, quindi, nella seconda metà degli anni ‘60, diventata cittadina italiana, partecipa a diverse produzioni internazionali e italiane, ma nessuna degna di nota.
Dopo una fuggevole apparizione, dove è ancora se stessa al seguito del Circo Orfei ne I Clown di Fellini, gli anni settanta le offrono solo ruoli in filmetti di genere, dove la sua “abbondante bellezza”, la sua imponete fisicità si afferma come il malinconico simulacro di uno sfiorito sex symbol sul viale del tramonto.
Ed è sempre sul filo di una malinconica nostalgia che si ripropone al pubblico la sua presenza in trasmissioni televisive commemorative, in interviste celebrative di un passato che sembra aver profondamente segnato la sua esistenza di donna sola, ora approdata ad una vita appartata, lontana dai riflettori, nella campagna romana, in compagnia dei sui cani.
Ma sarà ancora una volta nelle mani del grande demiurgo, che il suo mito riprenderà vita in alcune brevi, ma sempre memorabili sequenze cinematografiche, in cui realtà e fantasia, vita e rappresentazione si rincorrono e attraverso un reciproco riflettersi, si riconoscono.
E’ il set del film Intervista del 1987, e nella sua casa solitaria il grande regista la ritroverà: imponente e superba come un gladiatore, aprirà le porte a quella piccola troupe e un Mastroianni-Mandrake compirà il magico prodigio…: Oh bacchetta di Mandrake..il mio ordine è immediato….fai tornare i bei tempi del passato!!…
La sua luminosa bellezza riempie ancora lo schermo, per un attimo tutto resta sospeso, solo poche note dell’inconfondibile musica, poi tra volti rapiti e occhi velati, la voce di Marcello: – tu sei la prima donna del primo giorno della creazione…la madre, la sorella, l’angelo, il diavolo, la terra…la casa… ecco sì…sei la casa!…
data di pubblicazione 11 /01/2015
da T. Pica | Gen 11, 2015
(Teatro Argot Studio, Roma – 7/25 gennaio 2015)
Il Teatro Argot Studio inaugura il 2015 con l’ultimo Lavoro di Filippo Gili che si conferma autore drammaturgo sapiente. Sul palco dell’Argot si alternano tre spazi: al centro la casa dei genitori (Giovanni e Michela) dei protagonisti, Antonio e Elena, dunque la famiglia riassunta nel momento conviviale dell’incontro/scontro e del racconto. A sinistra lo spazio dell’intimità, dove si sviscerano le paure, i ricordi dei due fratelli (ma anche tra padre e figlia) e a destra l’ambiente freddo e asettico della stanza di ospedale dove i due medici perseguono la loro etica.
L’Opera si apre con quella che solo apparentemente è la “solita” cena di famiglia, una tavolata come tante altre, perché nel ritmo incalzante dei dialoghi iniziali, serrati e precisi, “quattro chiacchiere” (<<ma poi si dice “far quattro chiacchiere” o “fare due chiacchiere”?, “due passi” o “quattro passi”?>>) tirano altre quattro chiacchiere e la famiglia finisce con l’arrovellarsi sulla seguente domanda fatta solo pour parler dalla figlia ai genitori: se fossero costretti a dover scegliere quale dei due figli salvare ciascuno di loro chi sceglierebbe tra i due? Dopo il vortice dei fulminei ed ingenui botta e risposta dei quattro commensali le luci si spengono e si riaccendono quelle bianche al neon della camera di ospedale. Qui due medici comunicano ad Elena e Antonio che i loro genitori sono affetti da una malattia rarissima, talmente rara che pur ricorrendo in un soggetto ogni 6.000.000 questa volta si è palesata ed accanita con due persone che si amano e vivono da 40 anni sotto lo stesso tetto, nello stesso microcosmo di Terra. Fatti gli accertamenti clinici del caso, però, emerge che non entrambi i figli bensì solo Elena può sottoporsi all’unico espianto praticabile e, dunque, fratello e sorella dovranno scegliere in una manciata di giorni quale dei due genitori salvare. Da questo momento ha inizio il dramma, il dilemma tra ragione (o meglio, quel timido frammento di razionalità che fa capolino in situazioni tutt’altro che lucide) e sentimento, tra cinico calcolo e amore viscerale. Fratello e sorella si ritrovano più uniti che mai in un inferno di riflessioni, incubi e notti insonni. Chi sceglieranno e sulla base di quali “parametri”? Lasceranno che la malattia faccia il suo naturale corso e non sceglieranno o butteranno uno dei due genitori giù dalla “fredda” torre? Lasceranno che sia il caso a buttarne uno giù? La loro scelta sarà accettata dai due “ambasciatori” della scienza, che applicano la ricerca, le statistiche e parlano di etica perseguendo il “freddo” scopo di salvare vite umane?
Il Testo di Filippo Gili è davvero ben strutturato e affronta il tema classico e moderno della malattia e delle “Scelte” in modo energico, senza mai cadere nella banalità, nel “già visto e sentito”, senza angosciare misurando sapientemente l’ironia, il sarcasmo, l’amore e il dramma con dialoghi e interrogativi in cui ogni spettatore si immedesima fin da subito. L’Autore e il Regista hanno ben diretto gli attori e davvero ottima è la prova dei due protagonisti, Barbara Ronchi (Elena) e Massimiliano Benvenuto (Antonio): Lei incarna perfettamente il doppio dramma di figlia/bambina – che vorrebbe, come ogni bambina rannicchiata su un divano, soltanto vivere il dolore e gli ultimi momenti dei due genitori insieme – e quello di figlia eroina, a tutti costi dura che anche questa volta è prigioniera del ruolo di donna trentenne “con le palle” che non scende a compromessi; Lui, invece, è perfetto nel ruolo del fratello Antonio il quale alla fine, dopo aver provato a mediare tra la sorella e la “voce della medicina”, rimane ipnoticamente assorto, immobile, e lascia alla sorella – o forse lo aveva lasciato fin dall’inizio – il compito di scuotere e definire gli eventi. Entrambi i protagonisti catalizzano la scena e tengono vivo tutto il testo fino al sipario che cala con l’assordante ultima “goccia d’acqua” che cadendo fa traboccare il vaso del dilemma. Quel vaso ormai colmo di tutte le possibili (ed impossibili) assurde combinazioni di criteri vagliati per approdare alla scelta bramosamente attesa dai due medici. Dall’alto di una fredda torre è una pièce teatrale che potrebbe tranquillamente approdare al grande schermo del cinema d’Autore. Da vedere!
data di pubblicazione 11 /01/2015
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