ELETTROCARDIODRAMMA di e con Leonardo Capuano

ELETTROCARDIODRAMMA di e con Leonardo Capuano

(Teatro Argot Studio – Roma, 27 gennaio/1 febbraio 2015)

Ti delizia il mascarpone? E il domani come lo vedi? Come ti poni davanti all’infinito? E Peter Gabriel ha fatto bene a lasciare i Genesis? Sono alcune delle domande che inseguono Leonardo Capuano, mentre, solo in scena, come per il resto dello spettacolo, corre intorno al tavolo e alle due sedie bianche che fanno da unica scenografia. Vestito con un delizioso abito da donna, senza uno specifico perché, Capuano insegue i suoi personaggi, il balbuziente e i suoi fratelli, la madre malata, una fidanzata con cui prendere il fresco con le mani e il sole sottobraccio. Una gamba “ballerina” separatista batte il tempo delle musiche – notevoli le scelte musicali che spaziano dalla disco music anni ’70 ai Depeche Mode di I feel loved – che accompagnano i divertenti deliri dei protagonisti, impegnati nella ricerca di un medicamento universale contro l’apatia, una cura per ritrovare l’equilibrio, sitting on the dock of the Bay. Ma il medicinale non c’è e non resta che immergersi nei sogni, in quelle favole evocate da una teoria di animali – la balena, lo squalo, il coniglio, i fenicotteri -, compagni di giochi di una strampalata famiglia che ha il volto, la voce camaleontica e il corpo, usato superbamente, di un divertente ed efficace Capuano.  Al termine dello spettacolo, un interrogativo rimane, come un’eco, nelle menti degli spettatori: Chiamiamo Walter. – Chi è Walter?.  La risposta al Teatro Argot, fino a domenica 1 Febbraio 2015.

 

data di pubblicazione 28/01/2015


Il nostro voto:

ANNA MALVICA e FRANCO MIRABELLA provano MAMMA RANDAGIA, di Thomas Otto Zinzi

ANNA MALVICA e FRANCO MIRABELLA provano MAMMA RANDAGIA, di Thomas Otto Zinzi

MAMMA RANDAGIA è un testo di Thomas Otto Zinzi, una commedia sull’incontro di due solitudini: una madre rimasta sola che non trova più la strada di casa , o finge di non trovarla, e un poliziotto  forse vittima di una moglie autoritaria oppure semplicemente insoddisfatto e in perenne senso di colpa per aver parcheggiato la madre in una casa di riposo.

Un testo amaro e divertente, pieno di umori e che sembra costruito  appositamente per  essere impreziosito da interpreti di talento.

La formidabile attrice Anna Malvica, che ha alle spalle una carriera lunga e ricca di incontri importanti (Strehler, Cobelli, Turi Ferro, Luis Pasqual, i fratelli Taviani e altri ) si è impossessata letteralmente di questo personaggio, già qualche anno fa, regalandole  tutte le sue corde e, facendone un vero cavallo di battaglia al punto che francamente non saprei immaginare il personaggio di Rita interpretata da altri.

Quando poco tempo fa si apprestava a interpretarlo di nuovo, con un nuovo partner, il bravissimo Franco Mirabella, è successo che durante le prove, complice  un po’ la voglia di rinnovarsi, un po’ la sintonia con il nuovo collega, li portò a cambiare le carte in tavola: venne fuori non soltanto la rappresentazione nuda e cruda del dramma, ma la personalizzazione, mescolando la finzione alla prova.

Ecco che Mamma randagia diveniva Anna e Franco che provano  Mamma randagia. Il copione è diventato così un canovaccio su cui i protagonisti hanno la possibilità di reinventare di volta in volta i loro ruoli, li arricchiscono di trovate, in continuo scambio pirotecnico di battute a volte anche esilaranti. Tutto questo senza mutare l’essenza del dramma, soprattutto nella seconda parte dove la commozione e l’umanità hanno la meglio sul gioco teatrale.

Si potrebbe, citando l’Andreini, dire che si tratta di due commedie in commedia, oppure, restando nel Duemila, di uno spettacolo a  “3D” dove le tre dimensioni sono il testo originale, i due personaggi, i due attori. E la bravura di questi si moltiplica a sua volta per tre: perché sperimentano la felicità creativa della commedia dell’arte, si immedesimano con  rigore nell’interpretazione drammatica e vivono lo straniamento  continuo a furia di entrare e uscire continuamente dal ruolo.

Il pubblico ha gradito molto ed è stato al gioco sin dal principio, quando gli attori fingevano un ritardo. Il teatrino di San Luigi Guanella, rinato da pochissimo tempo, è una piccola bomboniera e meriterebbe una costante programmazione sempre di buon livello.

 data di pubblicazione 27/01/2015


Il nostro voto:

IL NOME DEL FIGLIO di Francesca Archibugi, 2015

IL NOME DEL FIGLIO di Francesca Archibugi, 2015

Dopo sette anni di assenza ritorna sul grande schermo Francesca Archibugi e lo fa con un film apparentemente minuto ma infinitamente profondo. Il nome del figlio narra la storia dei quattro protagonisti – i fratelli Betta e Paolo Pontecorvo (Valeria Golino e Alessandro Gassman), Sandro (Luigi Lo Cascio), marito di Betta, e Claudio (Rocco Papaleo), loro amico da una vita e “moderatore” del quartetto – attraverso l’alternanza tra presente e passato. Presente e passato si avvicendano tra le mura della casa radical chic di Betta e Sandro al Pigneto e i flashback delle estati dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse dai quattro amici nella Villa al mare della famiglia Pontecorvo. Ai magnifici quattro amici si aggiunge il quinto personaggio di Simona (Micaela Ramazzotti), la moglie di Paolo: donna un po’ naif dell’estrema periferia sud di Roma, “la tigre di Palocco”, senza alcuna “dinastia” prestigiosa alle spalle incarna per gli altri una superficialità che, però, è solo apparente. Simona è prigioniera della sua bellezza e della sua genuinità interlocutoria e, dunque, dello stereotipo “bella e scemotta”, ma in realtà è proprio lei, occhio puro, esterno al quartetto e scevro dell’altisonante responsabilità del nome Pontecorvo, che riesce a cogliere l’autenticità delle cose e, soprattutto, i pensieri, i segreti e le sofferenze irrisolte dei quattro amici. La scena si muove attorno ai cinque personaggi seguendoli nei loro movimenti e nelle loro espressioni facciali più intime, anche grazie alla penetrante, e per questo fastidiosa, telecamera dell’elicotterino telecomandato dei figli di Betta, durante la cena organizzata a casa di Betta e Sandro per l’annuncio del nome scelto da Paolo e Simona per il figlio che aspettano. Mentre però Simona è in (perenne) ritardo, Paolo catalizza l’attenzione della cena su di sé improvvisando uno scherzo proprio sul presunto nome scelto per il bambino che nascerà fra qualche mese. Dalla puerile burla si innesca un giuoco degli equivoci che finalmente lascia uscire i quattro amici dalla prigionia dei rispettivi scheletri nell’armadio, da quei piccoli rancori e pensieri mai rivelati e portati silenziosamente con sé dalle lontane estati di Villa Pontecorvo. Tante piccole confessioni si alternano a piccole recriminazioni attraverso battute dal ritmo incalzante, ironico e mai banale. Tutti i cinque attori rappresentano al meglio un microcosmo della società attuale. Quello che ne emerge è una perfetta pièce teatrale proiettata sul grande schermo che mette a nudo l’animo umano, la sua fragilità. Come Simona è prigioniera della figura “bella, ignorantella e superficiale”, così l’incomunicabilità rende ognuno dei quattro amici prigioniero di uno stereotipo moderno: Betta dell’eccessivo amore per Sandro e del suo rinunciare sempre prima di prendere una batosta; Paolo non riesce ad andare oltre il consumismo e l’apparenza, in un’affannosa edificazione della propria posizione sociale fondata sulla ricchezza e su un’immagine di sé e della moglie votata ad una perfezione patinata; Sandro, professore di lettere e scrittore senza fama, si crede l’unico portatore/custode del verbo italiano per poi rifuggire la realtà, temere il dialogo e il confronto con il prossimo, e trovare soddisfazione nella comunicazione virtuale dei tweet. E poi c’è Claudio, musicista precario che vive di arte e che ormai da dieci anni ha incentrato la propria vita, e dunque negato una parte di sè ai suoi amici, sul proprio amore segreto per una misteriosa donna. In questo dolce caos, fatto di sentimenti, ricordi, sogni e incomunicabilità, Simona con la sua semplicità e con la complicità degli equivoci riesce a sciogliere le fila di quella ragnatela in cui forse ormai da troppo tempo il quartetto storico si era arenato. La sceneggiatura di Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, con la (ormai) matura macchina da presa della prima, ci regalano un film perfetto dal finale a sorpresa che arriva dritto al cuore. Ottima l’interpretazione della Golino – irresistibile nelle sue movenze per la casa dove unisce l’efficienza della mamma/moglie “serva” alla donna che tenta di prendersi cura anche di se stessa con la ginnastica isometrica fai da te – di Gassman, Papaleo e Lo Cascio. Anche Micaela Ramazzotti è perfetta nell’orami perenne ruolo di donna schietta, genuina e nevrotica, ma forse vorremmo vederla cimentarsi anche in ruoli diversi, senza la solita sigaretta nervosa e senza il solito rimmel colato mentre singhiozza. Film da vedere!


data di pubblicazione 25/01/2015


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ROMA TERMINI di Bartolomeo Pampaloni, 2015

ROMA TERMINI di Bartolomeo Pampaloni, 2015

(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Prospettive Italia)

Documentario dolceamaro, coraggioso e poetico. È il bellissimo esordio alla regia di Bartolomeo Pampaloni, un lungometraggio “breve” ma intenso (appena 79 minuti), che, con un budget praticamente inesistente e una sensibilità fuori dal comune, ci fa immergere senza censure nel mondo nascosto di chi si trova a vivere, dormire e morire nella grande stazione romana.

L’idea, già di per sé molto curiosa, è stata sviluppata attraverso una narrazione coerente e originale, accompagnando i quattro protagonisti, ognuno con una storia molto diversa alle spalle ma accomunati dalla necessità di comunicare con il mondo e con la società, in un delicato processo di racconto di sé davanti alla telecamera. Pampaloni dimostra una notevole padronanza del mezzo tecnico e del linguaggio artistico, attraverso inquadrature inedite e una fotografia che si imprime nella memoria visiva dello spettatore. Si esce dal film cresciuti e più maturi, sofferenti e commossi, con una gran voglia di soffermarsi a guardare chi vive sui marciapiedi, di dare loro voce, risarcendoli dell’umanità smarrita e mai più ritrovata.

Dopo la menzione speciale ottenuta all’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma e dopo esser rimasto in programmazione per tre settimane durante il periodo natalizio al Nuovo Cinema Aquila di Roma, il film è ora in giro per l’Italia per alcune proiezioni speciali con un percorso non facile di auto-distribuzione: assolutamente da recuperare e da seguire, anche attraverso la promozione del regista sui vari canali social, per chi non avesse avuto la fortuna di poterlo vedere.


 data di pubblicazione 23/01/2015


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FRAGILE SHOW di Francesca Macrì e Andrea Trapani – Biancofango

FRAGILE SHOW di Francesca Macrì e Andrea Trapani – Biancofango

Fragile Show è una festa di artisti, ma anche la tragedia di una festa in cui non c’è nulla o nessuno da festeggiare. Mastino, unico protagonista, è tutt’uno con la panca solitaria attorno a cui si aggira nervosamente quando il pubblico entra in sala. La panca diventa punto d’osservazione di una festa e di una vita d’artista a cui, come festeggiato, il protagonista si vuole sottrarre. Chi tace acconsente…no! -urla Mastino – chi tace può non aver nulla da dire, chi tace prende tempo…pensa! Mastino farfuglia il coraggio inconsapevole di dirsi fuori, di battere il tempo dell’insuccesso d’artista, che sia quello personale o dei compagni di conservatorio convenuti. Artisti a cui restano soltanto orpelli delle lontane aspirazioni – Non ho capito perché per quelli che si dichiarano artisti il cappello è d’obbligo -. Mastino ha le sembianze di un clown e la voce volutamente impastata di accenti toscani di Andrea Trapani. Il percorso è quello della ricerca drammaturgica e scenica sul tema dell’inettitudine portato avanti dalla compagnia Biancofango (lo stesso Trapani e Alessandra Macrì) dal 2005, con una trilogia di cui Fragile Show, in scena al Teatro Orologio dal 20 Gennaio al 1 Febbraio 2015, è il terzo tempo. Con debiti e gratitudine a Il soccombente di T. Bernhard è il sottotitolo dello spettacolo che, come tutta la trilogia, nasce dalla lettura di  Thomas Bernhard e dalla ricerca del ritmo di un respiro. Ritmo e tempo di esecuzione che Mastino, nel finale, cerca disperatamente di battere, tragicomico conduttore di un’orchestra invisibile, mentre in sala di diffondo le struggenti note e parole di Lontano, lontano di Tenco. E la caduta dalla panca riempie il silenzio musicale che precede quel di un amore ormai troppo lontano che chiude il brano e le speranze di una ricerca ormai vana.

             
data di pubblicazione 22/01/2015


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LE VOCI DI DENTRO di Eduardo De Filippo,  regia di Toni Servillo

LE VOCI DI DENTRO di Eduardo De Filippo, regia di Toni Servillo

(Teatro Argentina – Roma, 20 gennaio/15 febbraio 2015)

Torna sul palco del Teatro Argentina di Roma la commedia di Eduardo De Filippo Le voci di dentro diretta e interpretata da Toni Servillo, affiancato sul palco dal fratello Peppe. L’Opera scritta da Eduardo nel 1948 è incredibilmente attuale, moderna e per questo eterna. La scena iniziale vede la cameriera Maria rapita da un sogno molesto mentre dorme in cucina; la scena finale si conclude con Carlo Saporito (Peppe Servillo), fratello antipatichello e venale di Alberto Saporito (Toni Servillo), che ripiomba in un sonno profondo: dunque si conclude con l’inizio di una nuova dimensione onirica (o forse la fine?), sotto il perplesso ed in parte rassegnato sguardo di Alberto che non comprende se il sogno è appena terminato o sta per iniziare. Nel cerchio perfettamente ideato da Eduardo, il Sogno è la chiave di lettura dell’eterno dramma dell’incomunicabilità dell’uomo, prima con sè stesso e poi con gli altri. Incomunicabilità che sfocia nell’incessante conflitto tra illusione e realtà, fra forma e sostanza: temi già cari a Pirandello, che ne era stato sapiente precursore e che vibrano lungo l’intera rappresentazione oggi rivisitata da Toni Servillo. Il Sogno come dimensione in cui l’uomo rifugge per scoprire, svelare e dare voce a meri sospetti, alle paure e a tutti quei sentimenti che nella realtà quotidiana, come un groviglio di rovi spinosi, non riesce ad esternare ed accettare neppure con se stesso. Alberto Saporito, come un funambolo sul precario, sottile filo che separa il sogno dal mondo reale, non riesce a riconoscere cosa è veramente accaduto e cosa ha “soltanto” sognato ripetendo, inevitabilmente, un concetto chiave che richiama alla memoria il titolo di una commedia di Luigi Pirandello: Sogno, ma forse no. Solo nel Sogno le cattiverie, le maldicenze, i timori, l’assenza di fiducia nel prossimo, persino nei propri familiari, trovano il coraggio di emergere ed essere palesati; solo nel Sogno l’uomo dismette la maschera e si palesa con le proprie debolezze e fragilità. La trovata scenica di un palco che si inclina verso gli spettatori e si affaccia verso di esso, come le voci di dentro che ognuno ha nel suo profondo, producono l’effetto di una realtà/sogno parallela al reale e così il Sogno diventa la realtà dove prendono rifugio i vari personaggi. L’assoluta attualità di questa commedia scritta nell’immediato dopoguerra è rappresentata anche dal concetto della staffetta tra vecchie e nuove generazioni – il vecchio che deve lasciare il posto al nuovo – e il dramma delle macerie, delle difficoltà che gli anziani hanno creato e lasciato in eredità ai giovani. E forse proprio la vergogna, il senso di colpa latente nell’animo dei “grandi”, per non aver tutelato i loro figli e aver lasciato loro un mondo peggiore, da un lato, e il risentimento e lo sdegno per le macerie ereditate che diviene rabbia, malcontento perenne dei più giovani dall’altro, sfociano inevitabilmente nel Sogno per trovarvi “voce” e reciproca comprensione. Non c’è un finale, una soluzione al presunto assassinio sognato da Alberto Saporito, non c’è una rivelazione chiarificatrice delle effettive o irreali malefatte della famiglia Cimmaruta, né tantomeno di cosa è stato sognato e cosa è realmente accaduto. Quel che è certo è che non esiste una soluzione e, in generale, non esiste una sola verità. Nessuno è puro, nessuno è colpevole, perché ognuno di noi porta dentro di sé l’eterno conflitto tra bene e male, ognuno di noi, anche il più insospettabile, è alla ricerca della giustizia e può ritrovarsi improvvisamente vittima del vizio e dell’arida cupidigia; ognuno di noi può sospettare del fratello, del marito, della madre, della sorella. Quel che è certo, è che tutti questi sentimenti negativi, i pensieri malsani e corrotti verranno resi noti solo nel Sogno. E qualora nel Reale si compia l’avventata incosciente azione di comunicare al prossimo un proprio sospetto, una paura, una cattiveria, ognuno di noi si riprenderà da simile “debolezza” dichiarando immediatamente ah ma io non ti ho detto niente eh? oppure sia chiaro non dire che te l’ho detto io.

Toni Servillo si conferma il mattatore del teatro italiano e l’opera è ben rappresentata dall’intera compagnia di attori. Da vedere!

data di pubblicazione 22/01/2015


Il nostro voto:

JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

(Teatro Due – Roma, 21/25 gennaio 2015)

Julien Zoluà di Giulio Maria Corso chiude la rassegna CANTIERI CONTEMPORANEI presso il Teatro Due di Roma (8 al 25 gennaio 2015).

Leone e Julien. Il padrone e il suo servitore. Leone conosce Julien da quando era un bambino. Julien non ha avuto un padre che sapesse raccontare storie belle come quelle di Leone.

C’era una volta un bambino che provava a controllare i suoi incubi grazie a una penna e un foglio di carta su cui disegnava castelli. C’era una volta un uomo che provava a raccontare delle storie per rendere un po’ meno penosa la sua realtà. Una casa sopra il mercato (e sopra il teatro). Un salotto all’ora del tè. Una sedia al centro del palcoscenico. La complice intesa tra due opposti che si attraggono fatalmente, senza saperlo, senza prevederlo, senza riuscire a evitarlo.

Uno spettacolo visionario e immaginifico, costantemente sospeso tra sogno e realtà, tra illusioni e “storie vere”, tra passione e “senso del dovere”. La scrittura avvolgente e travolgente di Giulio Maria Corso traghetta lo spettatore lungo le correnti di un impetuoso fiume di parole che tuttavia non rischia mai di straripare, contenuto dagli argini di un ritmo verbalmente musicale (o musicalmente verbale) e dall’esito mai scontato dei duetti e dei duelli che si susseguono sulla scena.

Il pathos e l’ironia si incrociano senza calpestarsi, sorretti dalla solida recitazione di Roberta Azzarone, Valerio D’Amore, Carmine Fabbricatore, Carlotta Mangione, Michele Lisi, che riempiono in maniera impeccabile uno spazio solo apparentemente vuoto.

Il soggetto risente forse di qualche cliché di troppo: l’uomo adulto e il giovane virgulto, un matrimonio finito ancor prima di iniziare, il peso dei ruoli che costringe a indossare una maschera soffocante. Ma la resa scenica riesce ad andare ben oltre le tradizionali logiche del triangolo amoroso e “politicamente scorretto”, restituendo l’impressione di uno spettacolo consapevole e ben confezionato.

data di pubblicazione 22/01/2015


Il nostro voto:

MIMÍ METALLURGICO FERITO NELL’ONORE di Lina Wertmüller, 1972

MIMÍ METALLURGICO FERITO NELL’ONORE di Lina Wertmüller, 1972

L’operaio catanese Carmelo, detto Mimì (Giancarlo Giannini) è costretto ad emigrare a Torino in cerca di lavoro lasciando in Sicilia la giovane moglie Rosalia (Agostina Belli).

Lontano da casa, intreccia una relazione con la giovane proletaria Fiore (Mariangela Melato) che gli darà un figlio.

Tornato a Catania, Mimì scopre che la moglie è rimasta incinta da una relazione occasionale con un brigadiere napoletano a sua volta padre di 5 figli.

Per vendicarsi dell’affronto corteggia sua moglie  fino a metterla incinta.

Della morte del brigadiere, rimasto ucciso in un agguato mafioso, viene accusato il povero Mimì e quando, finito di scontare la pena, uscirà dal carcere troverà ad attenderlo una moglie, una amante, la vedova del brigadiere ed otto bambini di cui si dovrà prendere cura.

Pluripremiati i due protagonisti per l’impeccabile interpretazione mentre la Wertmüller ottenne per questa regia la nomination al Festival di Cannes per la Palma d’oro.

Questo film ci suggerisce la pasta con i broccoli alla catanese.

INGREDIENTI (x 6 persone): 2 broccoli – 500 grammi di pasta: si consigliano le mezze maniche o le orecchiette – 1 cipolla – 200 grammi di salsiccia – 30 grammi di pinoli – mezzo bicchiere di vino bianco – 100 grammi di pecorino – olio, sale e peperoncino q.b..

 PROCEDIMENTO: Cuocere i due broccoli in acqua ben salata, scolare bene conservando però l’acqua della bollitura.

Fare rosolare la cipolla in abbondante olio d’oliva ed aggiungere la salsiccia sgranata, sfumando il tutto con una spruzzata di vino bianco.

Cotta la salsiccia, aggiungere i broccoli a pezzetti ed i pinoli e lasciare cuocere una decina di minuti aggiungendo se necessario un poco di acqua della bollitura che verrà poi utilizzata per cuocere la pasta.

La pasta va cotta al dente scolata bene e poi va rimaneggiata con il condimento aggiungendo abbondante pecorino ed un pizzico di peperoncino.

Lasciare riposare qualche minuto prima di servire in tavola.

 

BIANCO, ROSSO E VERDONE di Carlo Verdone, 1981

BIANCO, ROSSO E VERDONE di Carlo Verdone, 1981

Bianco, rosso e Verdone, film prodotto dal grande Sergio Leone, è una delle pellicole “storiche” e tra le più rappresentative del comico e regista romano perché, al pari di Un sacco bello, Borotalco, Troppo Forte e Viaggi di Nozze, ritrae tre dei suoi personaggi più conosciuti, tutti in viaggio verso Roma per raggiungere il seggio elettorale. Il primo è Furio, uomo insopportabile che martorizza la povera moglie Magda, diventato oramai sinonimo, nel linguaggio comune, di persona logorroica e pedante; poi c’è Mimmo, ragazzo giovane ed ingenuo, che ancora oggi viene ricordato per il frasario utilizzato nelle scene con la nonna, donna energica e che conosce bene come gira il mondo interpretata da Elena Fabrizi, meglio conosciuta come la Sora Lella, ristoratrice prestata al cinema nonché sorella del grande Aldo Fabrizi; infine c’è Pasquale, giovane emigrante italiano in Germania, un uomo rimasto bambino, goffo e sciatto, emblema tipico del “tamarro del sud” che indossa inspiegabilmente la t-shirt sollevata sino a metà del suo stomaco prominente, che non parla mai durante tutto il film ma che, approdato al seggio elettorale dopo aver subito una serie continua di furti e vessazioni, si sfoga nel suo incomprensibile dialetto d’origine, con un fiume di parole che inondano i titoli di coda.

A questa pellicola, divertente e da rivedere sempre con grande piacere, dedichiamo una ricetta che celebra la romanità, pur avendo un’origine campana: la mozzarella in carrozza.

INGREDIENTI: 1 confezione di pancarrè – ½ lt di latte intero – 3 uova – 200 gr. di pan grattato – 2 etti di farina – 1 fior di latte a fette – ½ etto di parmigiano grattugiato- sale e pepe q.b.- olio di mais o arachidi per friggere.

PROCEDIMENTO: Preparare prima tutti gli ingredienti sul tavolo da lavoro: mettere in un piatto piano la farina, in un altro il pan grattato, in una ciotola il latte ed in un’altra ciotola le uova sbattute regolate di sale e pepe nero. Prendere due fette di pancarrè, passarle prima nella farina, poi nell’uovo e metterci nell’interno una fetta o due di fiordilatte e un po’ di parmigiano (la vera ricetta romana vorrebbe anche un filetto di acciuga sminuzzato, che rende tutto più gustoso, mentre nella ricetta campana l’acciuga ed il fior di latte lasciano il passo alla mozzarella di bufala); richiudere le due fette con il ripieno ed “incollare” bene i lati esterni facendo pressione con le dita; assicuratevi che l’esterno del “panino” così ottenuto sia ben inzuppato di uovo anche sui laterali; passate quindi le due fatte di pancarrè ripiene nel pan grattato, avendo cura che ne siano ricoperte anche sui lati. Procedete così per tutte le fette di pancarrè (se si vuole ottenere delle porzioni più piccole, tagliare ogni fetta di pancarrè a triangolo e fare quindi la mozzarella in carrozza invece che quadrata, triangolare).

Friggere in abbondante e caldo olio di arachidi o di mais. Se si gradisce, salare in superficie la mozzarella in carrozza solo dopo averla fritta ed asciugata bene con carta assorbente.

Servire in un piatto da portata ricoperto di carta paglia.

STILL ALICE di R. Glatzer e W. Westmoreland, 2015

STILL ALICE di R. Glatzer e W. Westmoreland, 2015

statuetta

(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Gala)

Dopo esser valso alla protagonista Julianne Moore il meritato Golden Globe per la migliore interpretazione femminile in un film drammatico, Still Alice, presentato all’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma, si prepara a conquistare, o forse a dividere nel giudizio, il pubblico italiano.

I due registi, R. Glatzer e W. Westmoreland, coppia nel lavoro e nella vita, con una carriera alle spalle decisamente singolare che parte dal mondo del porno per sperimentare poi generi sempre diversi, dal thriller al biopic politicamente impegnato, hanno confezionato un film dall’impianto tradizionale, che si sviluppa con un andamento e una forma piuttosto lineari e hollywoodiani, per raccontare l’inferno dell’Alzheimer, vissuto da Alice Howland (Julianne Moore), splendida cinquantenne, professoressa universitaria di linguistica e madre di tre figli.

Punti di forza sono alcune scelte intelligenti nel racconto, come lo stridente accostamento di una malattia che disintegra le capacità mnemoniche e cognitive proprio con una donna che sullo studio delle parole e del linguaggio ha costruito la propria vita e la propria carriera.

Convincente l’intero cast, compreso Alec Baldwin, che personalmente non incontra sempre i miei gusti; supera le aspettative l’interpretazione di Kristen Stewart, nei panni della figlia minore di Alice, attrice ormai matura per ruoli più difficili di quelli in cui ci eravamo abituati a vederla recitare. Sempre impeccabile Julianne Moore che, tuttavia, è stata diretta in passato da mani più esperte e ha portato sullo schermo personaggi scritti in modo più originale e complesso (solo per citarne alcuni, basti pensare a pellicole come The Hours e A single man).

L’intero film, seppur ben realizzato, toccante e ambizioso, risente dei limiti di una sceneggiatura non così brillante come richiederebbe il tema trattato. Nonostante ciò, l’immedesimazione dello spettatore nella protagonista è inevitabile, perché il dramma è vissuto direttamente dalla sua prospettiva in modo autentico, dal punto di vista di Alice, che non ricorda neanche più la propria identità, ma, seppur in preda alla più totale confusione mentale, istintivamente sente e sa di essere ancora se stessa, “ancora Alice”. Il finale è ben riuscito, perché mette a fuoco le emozioni vere, spogliando madre e figlia, con dolcezza e sensibilità, di fronte al loro rapporto di amore incontenibile.


data di pubblicazione 21/01/2015


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