LINCOLN di Steven Spielberg, 2013

LINCOLN di Steven Spielberg, 2013

Una delle cose che visivamente mi ha colpito di più di Lincoln è la sua lunga ombra, che entra sempre in scena prima che lo faccia il suo possessore, quasi a preannunciarne l’arrivo, per poi salire con la camera ad inquadrarlo in tutta la sua altezza. Un’ombra resa ancora estesa dal lunghissimo cappello a cilindro, che va a dipingere, ancora prima di raccontare, una statura che si eleva al di sopra di tutti gli altri: in senso fisico e in senso, ovviamente metaforico, e che in un corto circuito immediato mi ha richiamato alla mente il Papà Gambalunga (Daddy-Long-Legs) di Jean Webster (pronipote di Marc Twain, ho scoperto, ndr), anonimo benefattore e tutore dell’orfanella Judy Abbot, di cui lei vede solo l’ombra protettrice. E l’ombra protettrice, protettiva e fondatrice di Lincoln si proietta inevitabilmente fino all’oggi, agli Stati Uniti del secondo mandato di Obama, il primo presidente nero, che a sua volta, come un’ombra, sembra aleggiare sulla storia del suo predecessore, soprattutto nelle frasi che si cristallizzano in profezie (L’emendamento è importante non solo per i milioni di neri in catene oggi, ma per i milioni che nasceranno domani. Salviamo almeno la democrazia a cui aspirare etc. e il soldato di colore che all’inizio del film parla con Lincoln, chiedendosi come e se, dopo l’abolizione della schiavitù, i bianchi saranno mai pronti ad accettare un nero ufficiale dell’esercito, anziché soldato semplice…e un nero presidente, senza dire Spielberg nel silenzio sottinteso). Il film è davvero composto di due parti: una prima, incentrata fortemente sulle parole, quelle delle storielle che Lincoln ama raccontare in ogni occasione (spassosa quella sul ritratto di Washington in un bagno inglese, ndr), a volte provocando l’insofferenza dei suoi ascoltatori o la loro perplessità sul reale significato finale (una sorta di oracolo, non sempre decifrabile, neanche dal segretario di Stato!), ma anche quelle dei discorsi politici, sulla democrazia, sulle sottigliezze da avvocato (Non Stati del Sud traditori, ma traditori che abitano negli Stati del Sud), delle grandi affermazioni (che poi diventano retoriche, ma solo a posteriori, quando ciò che viene affermato è ormai diventano realtà assodata) Un governo democratico poteva restare unito con un popolo metà schiavo e metà libero? con cui si apre il film, e ancora Sono conscio di essere solo e la moglie: La nave su cui navighi è il 13mo emendamento, interpretando il suo sogno. E certamente il ritmo del film, in questa prima parte, non è scoppiettante ma, secondo il mio punto di vista, è scelta espressiva a rendere l’immobilità del momento storico, con una guerra che ristagna, e una politica che è ferma, e che si avvita su stessa, nella rigidità degli schemi e delle posizioni. Allora il capitano della nave, il condottiero (l’oppositore Wood in seduta parlamentare lo definirà, con intento denigratorio, Abramo L’Africano, e poi Cesare, rifacendosi alle note figure della storia romana), il presidente, sarà costretto, come accade in una riunione con i suoi più stretti collaboratori, ognuno impegnato a ribadire il proprio punto di vista, a sbattere i pugni sul tavolo, urlando: We are on the world stage! Now! Now! Now! , puntando il dito, come lo zio Sam, verso i suo collaboratori, ad ogni imperioso Now!.E il condottiero Lincoln, a questo punto, prende anche le redini del film e dà alla vicenda e al ritmo del racconto una strattone, una scossa, con quello sbattere le mani sul tavolo, che introduce l’emozione, la partecipazione, la passione, tanto che da questo punto in poi la mia simbiosi con i protagonisti è tale che, dopo la suspense del conteggio del voto, e dell’entusiasmante montaggio alternato che ci porta a volare da una parte all’altra del film per fare la spunta, insieme ai protagonisti ritratti, dei voti che ancora mancano alla vittoria, allo sciogliersi delle campane che annunciano il risultato sonoramente, colmando l’assenza visiva del presidente, avvolto dalla luce del sole dietro la tenda della sua finestra, corrisponde lo sciogliersi delle lacrime su tutti i volti del partito dei Si e ovviamente, anche sul mio!

Dunque, come ho letto in molti commenti, retorico, didattico…si, ma forse, proprio per questo, americano fino al midollo, fino a quelle radici e a quei padri fondatori che qui troviamo rappresentati. Con l’aggiunta di una lunga considerazione sul compromesso, a livello politico, sullo sporcarsi le mani, sulla machiavellica questione del fine che giustifica i mezzi. La bussola interiore non indica gli ostacoli. Se ti affossi in una palude, che senso ha sapere dove si trova il Nord? dice Lincoln a Stevens (interpretato da un bravissimo Tommy Lee Jones), il quale, imparata la lezione, tradirà le sue idee più profonde sulla uguaglianza degli uomini abdicando in favore dell’uguaglianza di fronte alla legge, pur di raggiungere il risultato (Per i milioni di morti e le cause che difendo da 30 anni, non c’è niente che non direi). La considerazione finale sulla vicenda può essere riassunta splendidamente dall’ossimoro pronunciato da Stevens nel finale: L’emendamento è passato con la complicità dell’uomo più puro d’America!

 Mi scuso con tutti coloro che sono arrivati a leggere fin qui per la prolissità delle riflessioni, ma, come racconta Lincoln in un aneddoto su di un predicatore: Potrei scrivere sermoni più brevi, ma quando inizio, sono troppo pigro per fermarmi.)


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VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante, 2013

VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante, 2013

(70^ Festival di Venezia – In Concorso)
Favelas palermitana: duello di Samira e Rosa
Due donne in duello in via Castellana Bandiera, tra colpi di clacson e una minzione liberatoria, sullo sfondo di una Palermo afosa e caotica. Samira, anziana e silenziosa, pazza per la perdita prematura dell’unica figlia. Rosa, giovane e granitica, fuggita da una città ostile e da una madre opprimente, non sappiamo perché, forse per la sua omosessualità. Loro due a fronteggiarsi nelle rispettive auto, a scrutarsi con sguardi inesorabili e incuranti della tragedia che si sta scatenando attorno a loro. Unico squarcio d’amore, da un lato, quello del nipote di Samira che le si rivolge nella propria lingua (il greco albanese ancora vivo e parlato in quel paese siciliano che si chiama appunto Piana degli Albanesi) supplicandola di cedere il passo e soprattutto di non morire. Mentre, dal lato di Rosa, abbiamo un segno di tenerezza nella filastrocca cantata dalla sua compagna, Clara, che comunque ritorna a lei con uno slancio di puro affetto. A notte tutto si placa, ma non cede l’ostinazione delle due protagoniste. Ma la fine arriva, all’alba, comunque con il cedimento fisico di Samira. Allora tutti corrono, accorrono, soccorrono, tutti verso il baratro: perché di questo si tratta. Tanto questa, a Palermo, “iè strata qa nu spunta” strada senza uscita, senza soluzione…


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LO SCONOSCIUTO DEL LAGO di Alain Guiraudie, 2013

LO SCONOSCIUTO DEL LAGO di Alain Guiraudie, 2013

(66^ Festival di Cannes – Sezione Un Certain Regard)
Il lago: un luogo claustrofobico di sesso e morte
Le sequenze si ripetono monotone tra un parcheggio assolato, un boschetto, una spiaggia sul lago. Tipica ambientazione gay per addetti ai lavori. Ci si chiede, come sempre, se le scene e gli amplessi siano eccessivamente espliciti o necessari. Ma allo spettatore vaccinato a questo od altro, queste scene non disturbano lo svolgersi dell’azione dove sesso e morte sembrano coinvolgere il protagonista (Franck). L’indifferenza di fronte al pericolo persino della propria vita di fronte alla passione amorosa, rende la storia avvincente e trattiene lo spettatore con il fiato sospeso. Dove ci porterà il tutto? La calma apparente del lago cosa nasconderà? Un animale mostruoso degli abissi o semplicemente un delitto? Ci si chiede: perche? Tra tutti i frequentatori della spiaggia viene evidenziata la figura di Henri, unico non gay “doc” dell’intera vicenda, ma anch’egli non esente da una morbosa attrazione verso la morte. Ottime le inquadrature che hanno portato al regista Alain Guiraudie un premio per la miglior regia al Festival di Cannes di questo anno, sezione Un Certain Regard. Film cupo come il buio e la solitudine che incombono alla fine sui luoghi, dove tutto è avvolto dal silenzio. ma solo il tempo di una notte. Al mattino si ripete il rituale con un intreccio, senza sosta, di sguardi e di abbordaggi facili e dove il voyerismo coinvolge tutti, persino lo spettatore più recalcitrante e benpensante…


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CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO di Ettore Scola, 2013

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO di Ettore Scola, 2013

Mi sono recato a veder il film con l’orecchio attento del bambino che ascolta dal nonno, per la prima volta, la storia di un grande. Scola che racconta il suo Fellini. Ho percepito in tutto molta ironia e leggerezza, infatti il mio occhio non entra nello specifico tecnico, ma interpreta e legge per sensazioni ed emozioni. Il racconto si dipana tra reminiscenze di aneddoti e scorribande notturne personalmente vissute da Scola con Fellini, ma non si trova alcun rammarico del tempo che scorre inesorabile per tutti. i ricordi sono funzionali anche a questo: a rivivere i bei momenti ed avere il coraggio di poterli raccontare con un sorriso, più che con tristezza. Scola si muove in un mondo di celluloide, proprio come il suo amico Federico, senza tralasciare la magia del “suo” Studio 5 dove tutto era possibile, pure far entrare la nave Rex in movimento o la laguna di Venezia. Ma la vera magia ultima si scopre durante la veglia funebre del maestro dove lo stesso Fellini, pur nell’amarezza delle sue ultime avventure cinematografiche, quando aveva forse esaurito il suo raccontare, rinasce come un Pinocchio monello e bugiardo inseguito dai due gendarmi. il tutto termina sulla giostra dove si susseguono, ad un ritmo sempre più incalzante, le immagini dei suoi film oramai passate alla storia. La magia del cinema o la magia della vita?


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LA VITA DI ADELE di Abdellatif Kechiche, 2013

LA VITA DI ADELE di Abdellatif Kechiche, 2013

(Festival di Cannes 2013 – In concorso)

Il regista del pluripremiato Cous Cous (2007) sceglie nuovamente un taglio realista per mettere in scena la più bella storia d’amore femminile finora vista sul grande schermo. La Vita di Adele, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013, è il racconto del passaggio dall’adolescenza all’età adulta nella vita di una ragazza irrequieta e amante della lettura, interpretata dall’intensa Adèle Exarchopoulos. Questo passaggio è segnato per sempre dall’incontro con Emma (la formidabile Lea Seydoux), dotata di sensualità androgina e capelli tinti dello stesso turchese degli occhi.

Tra le due ragazze, l’una timida e acerba, l’altra un contrasto vivente di forza e delicatezza, scatta un colpo di fulmine che diventerà un intreccio d’amore destinato a lasciare il segno nella storia del cinema. Dai primi incontri, fatti di sguardi e sorrisi curiosi, ai dialoghi sempre più magnetici tra le due che sfociano presto in splendidi amplessi, l’intera relazione viene rappresentata sullo schermo senza imbarazzo e senza censure, attraverso una sceneggiatura preziosa in grado di descrivere passo dopo passo l’evoluzione delle ragazze.

La verità del personaggio di Adele è disarmante, perché si assiste a scene in cui la recitazione è evidentemente improvvisata. Riuscire a tenere accesa nello spettatore per l’intera durata del film, a dir la verità un po’ lungo, sempre una certa tensione ed emozione, era un’impresa tutt’altro che facile.

Il pregio della pellicola, motivo per cui trovo sia un’opera meravigliosa, sta tutto nella sua capacità di inquadrare la vita di Adele talmente da vicino da farci sentire che odore e che sapore potrebbero avere la sua pelle, le sua labbra e gli spaghetti al sugo che mangia avidamente, con quell’effetto che solo le macchie di colori ad olio dell’impressionismo pittorico sanno regalare.


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LE SORELLE MACALUSO di Emma Dante

LE SORELLE MACALUSO di Emma Dante

Corpo a anima il teatro di Emma Dante. Ombre e luci, tenebre e colori, frastuono e silenzio, scherzo e tragedia, vita e morte ne Le sorelle Macaluso. Una storia come tante raccontata in modo unico. Con quell’impeccabile unicità che solo chi ha guardato in faccia l’arte è in grado di far intravedere al suo pubblico. Una famiglia. Delle visioni parziali che lentamente si ricompongono in unità. Le parole non dette finalmente urlate. Ognuno ha un posto assegnato, nella scena e nella vita. Ognuno si porta dietro il suo carico di senso di colpa (che in qualche caso è mera responsabilità oggettiva!), il suo rancore, la sua frustrazione. In una parola: la sua vita. Quella vita in cui si combatte, con tanto di spade e scudi, quella vita in cui si gioca, si soffre, si canta, si piange, si danza. Siamo liberi, eppure attaccati a fili invisibili che ci fanno muovere come tanti pupi siciliani. Siamo insieme, eppure confinati in un inespugnabile solipsismo eterodiretto, con l’impressione che alla fine siano sempre “gli altri” a emettere la condanna alla nostra solitudine. Senza possibilità d’appello. Senza poter più fermarsi a contemplare il sole che brilla sul mare. Con la capacità di guardare davvero il cielo quando ormai siamo definitivamente finiti dietro le sbarre. Senza indulto e senza amnistia.

Non c’è scenografia, i cambi di costume avvengono sulla scena, la fisicità degli attori travolge lo spettatore che, nel buio del Palladium, si affida senza riserve a quella “sospensione dell’incredulità” grazie alla quale il teatro (e il cinema) divengono affascinante anello di congiunzione tra la realtà e il sogno.

data di pubblicazione 15/10/14


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VIAGGIO SOLA di Maria Sole Tognazzi, 2013

VIAGGIO SOLA di Maria Sole Tognazzi, 2013

Il viaggio come metafora della vita è la chiave di lettura lapalissianamente esibita nel film di Maria Sole Tognazzi. C’è poco da interpretare nelle intenzioni dell’(ex) enfant (mai davvero) prodige, che dismette i panni dell’intellettuale a tutti i (radical) costi per confezionare un prodotto che, pur senza eccessive pretese, si rivela nel complesso garbato, a tratti piacevole, con improvvisi e taglienti guizzi nei dialoghi, con una Margherita Buy in splendida forma, fisica e artistica. Forse non meritava proprio tutti i finanziamenti pubblici che scorrono nei titoli di testa, ma l’elegante confezionamento dei titoli di coda, al quale va riconosciuto l’impagabile merito di impedire che le luci in sala si alzino prima della FINE del film, assolve persino il peccato originale di un’Italia che proprio non può fare a meno di cedere alle lusinghe del (cog)nome d’arte.

Margherita-Ulisse-Buy “vive” nei più lussuosi alberghi del mondo, senza mai fermarsi in una “casa” tutta sua, senza mai provare a costruirsi un Mulino Bianco decrepito e abbandonato, ma protetto e nascosto da solide pareti, ispessite dalla rassicurante fissità delle convenzioni sociali. È ospite sporadica nelle case (e nelle vite) degli altri. È spettatrice di una normalità che la affascina e la spaventa, la attrae e la respinge. Questa casa non è un albergo. Questo albergo non è una casa. Questo albergo è un palcoscenico. Basta indossare la maschera e recitare un ruolo. Lo fanno tutti in fondo. Solo che lei ne è fin troppo consapevole e non trova nulla di meglio da fare che recensire il ruolo degli altri, affidando la sua tagliente critica a ossessivi questionari, pieni zeppi di dettagli che non fanno la differenza.

Fino a quando la casa irrompe nell’albergo, le assi del palcoscenico scricchiolano facendolo sprofondare nella vita. E allora una mamma torna a essere una zia. Una donna libera torna a essere una donna sola.

I personaggi che orbitano attorno agli occhi verdi di Margherita Buy sono appena abbozzati, rientrando fin troppo bene in quegli stereotipi che in fondo accolgono con straordinaria generosità chiunque ne faccia richiesta. L’ozpektiano duo delle meraviglie Buy-Accorsi cerca di ricomporsi, nella locandina e nello schermo. Anche se non sono più i tempi di una volta.

Nulla di nuovo, poco di originale. Ma l’assillante interrogativo Chi avviserebbero se mi succedesse qualcosa?, in fondo, si insinua nella mente dello spettatore anche se scevro (o forse soprattutto perché scevro) dalle cedenze retoriche dell’intellettuale a tutti i (radical) costi.


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MIELE di Valeria Golino, 2013

MIELE di Valeria Golino, 2013

(Festival di Cannes 2013, Sezione Un Certain Regard)

Valeria Golino passa dall’altra parte della macchina da presa con un film dolcemente amaro (o amaramente dolce), come il retrogusto di un certo Miele che impatta, abbondante e improvviso, sulle pareti di un palato inaridito, la cui unica missione è quella di prepararsi ad assaporare il gusto della fine.

Il film, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Covacich), si confronta con un tema che smuove e commuove, inquadrato da Valeria Golino da una prospettiva certamente non convenzionale e raccontato con un linguaggio “laico”, che pure riesce a mettere a fuoco in modo straordinariamente preciso i nodi ancora irrisolti della dolce morte, tanto come questione morale quanto come questione giuridica.

Una superba Jasmine Trinca, trasformata nel corpo e nell’anima, indossa (letteralmente) i panni di un pietoso Angelo della morte, ma l’incontro con l’ingegner Grimaldi (interpretato da un impeccabile Carlo Cecchi), malato “solo” nell’anima, fa deflagrare in maniera assordante quei dubbi che da tempo accelerano il battito del cuore di Miele.

Da una parte una questione che non è (solo) giuridica, ma che la legge non può più permettersi di ignorare: uno spazio libero dal diritto troppo spesso riempito dall’incontrollabile arbitrio dell’opportunità morale. Dall’altra parte l’indefinibile confine tra la vita del corpo e quella dell’anima: l’illusione della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché siamo sempre in tempo per fermarci ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”.

L’immancabile trauma infantile subito dalla protagonista e la forse troppo ingenua scena finale non compromette la solida tenuta di un promettente esordio.

Giudizio sintetico: Miele che non smiela.


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IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

Paolo Virzì torna al cinema con un film corale, che parla di new economy per raccontare l’Italia di sempre, rappresenta la crisi di quel capitale umano che nessun esperto di finanza sarà mai in grado di monetizzare e di mettere a bilancio.

La storia è al tempo stesso una e trina, con i diversi capitoli che, dipanandosi dall’incidente iniziale, fanno muovere sulla scena tanti burattini tenuti in piedi da sentimenti da “dilettanti” allo sbaraglio (come urla Luigi Lo Cascio), con la perenne paura di diventare attori professionisti di una vita dal copione troppo impegnativo per essere recitato come pure meriterebbe.

Malgrado qualche inserto gratuitamente retorico, a partire dall’usurata metafora del teatro in declino e in attesa di un’utopica ristrutturazione, Virzì resta il solito perfetto burattinaio nel dirigere gli abitanti di quel teatro decadente.

I buoni sentimenti prepotentemente trionfanti nel buio degrado di un carcere, mentre intorno la neve si scioglie e il sole lascia brillare le carrozzerie fuoriserie e i sorrisi di chi, quando gli affari vanno bene, si accontenterebbe anche del bastoncino di un cane, concludono il capitolo finale con un happy end tanto amaro quanto ingenuo e obiettivamente poco credibile.

Giudizio sintetico: avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto.


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HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2013

HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2013

(Festival di Toronto 2012)

Margarethe Von Trotta, regista raffinata nota per aver portato sul grande schermo episodi storici poco conosciuti e per aver raccontato la vita di personaggi, sempre femminili, controversi e radicali, si è assunta il grosso impegno di tradurre in linguaggio cinematografico una delle menti più brillanti e prolifiche della filosofia del Novecento.

Il film, pur farcito di numerosi rimandi all’età della giovinezza, è incentrato su un aspetto particolare della biografia di Hannah Arendt, che segnò poi il resto della sua vita, cioè gli anni in cui la filosofa seguì e commentò per il giornale The New Yorker il processo svoltosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. Nel libro che raccolse i suoi articoli, intitolato La banalità del male, la Arendt sostenne la tesi per cui la malvagità del genere umano in realtà non avrebbe nulla di mostruoso, ma si manifesterebbe in una banale e cieca obbedienza a ordini impartiti dall’alto. Eichmann apparve alla filosofa come un uomo mediocre, la cui vera colpa era stata quella di aver perso la capacità di pensare.

Al confine con il linguaggio documentaristico, tanto che sono utilizzate nel film scene vere del processo a Eichmann, la Von Trotta mostra qui di avere un coraggio e un senso di orgoglio non lontani da quelli propri della protagonista del suo film, confermandosi una regista scrupolosa e fedele a un uso critico e ragionato del mezzo cinematografico. Oltre alla testimonianza storica, che in alcuni punti può rischiare di annoiare, il film racconta, al di là della filosofa e della scrittrice, la Arendt donna (grazie all’appassionante interpretazione di Barbara Sukowa) con la sua innata forma di ribellione intellettuale e la sua folle coerenza pubblica e privata, senza mai cedere alle lusinghe dei facili sentimentalismi del genere biopic.


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