da T. Pica | Giu 1, 2015
E com’è casa tua?, chiede Khaleed (interpretato dal bravissimo Mehdi Dehbi) a Stefania (Isabella Ragonese). La risposta dell’errante Stefania (e dello spettatore) è inevitabilmente come qui. Una Storia Sbagliata di Gianluca Maria Tavarelli, ambientato durante la seconda guerra del Golfo, è un coraggioso e inedito viaggio nel Sud iracheno che accompagna un altro altrettanto difficile percorso: quello di Stefania, siciliana di Gela innamoratissima del marito Roberto (Francesco Scianna), la quale, avvolta nella sua fredda corazza di rabbia e risentimento, prende il primo aereo della sua vita alla disperata ricerca della verità sulla scomparsa dell’uomo che ama e dell’uomo iracheno ha sconvolto le loro esistenze. In un perfetto alternarsi di flash back tra la storia d’amore di Stefania e Roberto, tanto semplice quanto vera e speciale (ormai il suo passato), e la ricerca della verità in Iraq, la protagonista compie un viaggio dell’anima che probabilmente ogni donna, protagonista suo malgrado di una “storia sbagliata”, avrebbe voluto compiere dopo il rientro in Italia della salma del proprio padre, del proprio marito, del proprio figlio. I tramonti sul mare e sulle torri fumanti del Petrolchimico di Gela e le “solfatare” di petrolio fumanti lungo le strade del Kuwait non sono poi così diverse e lontane. Il fil rouge dell’oro nero segna i paesaggi, le vite, le sofferenze, la speranza di un futuro migliore e le malformazioni dei bambini siciliani e iracheni rendendoli un popolo unico: un popolo solo. Dalla ricerca incosciente della protagonista dove tutto sembra esser governato dalla regola “corrotta” Io ti pago, pago te e pago chi mi da informazioni, il percorso dell’anima si conclude con la forte dolcezza dell’incontro delle “due vedove” e dei loro sguardi silenziosamente eloquenti.
Un’ottima Isabella Ragonese e una matura interpretazione di Francesco Scianna che finalmente mette a nudo il suo talento spogliandosi dei panni del bel tenebroso maledetto in stile anni ‘60/’70. Il film di Gianluca Maria Tavarelli racconta un viaggio dentro noi stessi guidandoci verso la comprensione e l’abbattimento dei pregiudizi. Dal 4 giugno da non perdere!
data di pubblicazione 01/06/2015
Scopri con un click il nostro voto: 
da Antonio Iraci | Mag 28, 2015
Film cult super premiato a Venezia, capolavoro di Altman che ci presenta un’America falsa, indifferente, direi anche molto cinica.
Varie storie si intrecciano (titolo originale: short cuts) tutte brevi ma montate ad incastro come in un complicato puzzle, storie che vanno e vengono e si esauriscono. Le vite interiori che osserviamo ci lasciano sbigottiti, con l’amaro in bocca, e ci danno un volto insolito di questa America del grande benessere sociale. Un quadro tutto americano che valeva più di venti anni fa, quando il film uscì nelle sale, ma che vale esattamente anche per l’oggi di oggi. La sostanza non è cambiata.
Il cast? Tutto di altissimo livello: Anne Archer, Jack Lemmon, Madeleine Stowe, Tim Robbins, Andie MacDowell, Julianne Moore, Robert Downey Jr., Lily Tomlin, Jennifer Jason Leigh, tanto per citarne alcuni.
Tutto eccezionale tanto che la giuria di Venezia istituì un premio speciale da assegnare all’intero cast.
L’America ci suggerisce a tavola il tacchino, ma la ricetta che proponiamo ha un sapore speciale, non da Thanksgiving: il brasato di tacchino.
INGREDIENTI: una coscia di tacchino già tagliata aperta (per quattro persone)- una cipolla – 300 grammi di funghi champignons – due carote – sale e pepe q.b. – olio d’oliva q.b. – un litro di vino rosso.
PROCEDIMENTO: Fare soffriggere in abbondante olio d’oliva la cipolla insieme alla coscia del tacchino, facendo rosolare bene da entrambi i lati. Aggiungere i funghi e le carote tagliate a pezzetti. Dopo tre minuti di cottura aggiungere il vino rosso, sale e pepe e lasciare cuocere a fuoco medio e a lungo fin a quando il vino non si sarà ristretto, formando una salsa abbastanza vellutata.
Da servire tiepido, tagliando a fette il brasato, anche con un contorno di purè di patate.
da Antonio Iraci | Mag 27, 2015
Quinto film di Salvatores, che a suo tempo riscosse un notevole successo tra il pubblico, e non solo in Italia, tanto da meritarsi un premio Oscar come migliore film straniero.
Al di là della trama, con questo film il regista sembra avviare un nuovo genere italiano, imponendo alla cinematografia nostrana un proprio stile.
Un gruppo di soldati italiani (principali interpreti: Diego Abatantuono, Claudio Bigagli, Giuseppe Cederna, Claudio Bisio, Gigio Alberti) durante il periodo fascista, si trova a presidiare un’isola greca abitata solo da anziani e donne. Tra queste anche la bellissima prostituta Vassilissa (Vanna Barba) la quale fa l’amore con tutti, ma alla fine si innamora del timido e riservato soldato Farina.
Rimasti completamente isolati, non avendo più contatti radio con il resto del mondo, i soldati passano il tempo oziando.
Successivamente, per caso da un pilota costretto ad atterrare sull’isola per una avaria all’aereo, apprendono che Mussolini non è più al potere e che l’Italia viene adesso liberata dagli Americani.
Mentre tutti tornano finalmente a casa, Farina sposa la bella Vassilissa e rimane a vivere con lei sull’isola.
Questo assolato film di Salvatores, dal sapore tutto mediterraneo, ci suggerisce questa ricetta estiva piena di colore: l’insalata di riso.
INGREDIENTI: 600 grammi di riso flora speciale per insalate – un peperone giallo – un peperone rosso – 200 grammi di provolone dolce – 100 grammi di provola affumicata – 300 grammi di pisellini surgelati – 1 scatola di mais – 2 wurstel – 100 grammi di cetriolini sotto aceto – sale e pepe q.b.- olio d’oliva e aceto bianco.
PROCEDIMENTO: Tagliare i due peperoni, il formaggio, i wurstel ed i cetriolini a pezzetti. Bollire il riso con una cottura al dente, scolare bene e lasciare raffreddare.
Aggiungere i pisellini, precedentemente bolliti in acqua salata, il mais e gli altri ingredienti, tutti a freddo e poi condire come una normale insalata con sale, pepe, olio d’oliva ed una spruzzata di aceto. Riporre in una zuppiera e lasciare per qualche ora a riposare in frigo. L’insalata di riso va servita fredda.
da Maria Letizia Panerai | Mag 26, 2015
Commedia dai risvolti amari, scritta e diretta dal grande Nanni Loy e splendidamente interpretata da Nino Manfredi (nella veste anche di co-sceneggiatore), Cafè Express è un film che parla dell’arte di arrangiarsi di quella fetta d’Italia (oggi sempre più grande) che vive ai margini della società. Michele (Nino Manfredi) è un napoletano cinquantenne che, per mantenere il figlio agli studi, viaggia abusivamente in treno per vendere altrettanto abusivamente caffè caldo ai passeggeri di seconda classe nella tratta tra Vallo della Lucania e Napoli. Film impostato tutto sugli espedienti che si inventa il protagonista per non essere “pizzicato” nell’esercizio abusivo di venditore di caffè, è una delle tante pellicole cinematografiche di questo incredibile regista (sono suoi anche Audace colpo dei soliti ignoti sequel de I soliti ignoti di Monicelli, Le quattro giornate di Napoli, Detenuto in attesa di giudizio, Mi manda Picone, Amici miei atti III) che, sul finire degli anni settanta, inventò la candid camera, strumento oggi considerato “originale” ed intorno al quale vengono ancora costruiti interi show televisivi.
A questo tipo di film non potevamo che abbinare una ricetta dove il caffè è un elemento determinante: il tiramisù.
INGREDIENTI: 500 gr. di mascarpone – 100 gr di gocce di cioccolato fondente – 5 uova – 5 cucchiai da tavola di zucchero e 2 rasi – 100 ml di crema di latte o panna liquida non montata – 1 confezione grande di savoiardi – 3 cucchiai da tavola di cognac – 3 cucchiai da tavola di porto – 1 ciotola grande di caffè appena zuccherato e a temperatura ambiente – cacao amaro per decorare q.b…
PROCEDIMENTO: Preparare una macchinetta di caffè da almeno 4 tazze, facendo attenzione a non farlo molto forte; mettere il caffè ottenuto in una ciotola con 2 cucchiai rasi di zucchero e 3 cucchi di porto, e far freddare il tutto a temperatura ambiente. In un recipiente mettere a montare 5 rossi con 5 cucchiai di zucchero; non appena saranno schiumosi e quasi bianchi, aggiungere i 3 cucchiai di cognac e la crema di latte; alla fine aggiungere i rimanenti 5 albumi montati a neve molto solida che andranno incorporati nei rossi con movimenti delicati, dal basso verso l’alto, per evitare che smontino. Cominciare a foderare il fondo di una pirofila rettangolare con i savoiardi precedentemente imbevuti nella ciotola di caffè e cognac, quindi rovesciarci metà dell’impasto di mascarpone e uova, spolverando il tutto con una manciata generosa di gocce di cioccolato fondente; quindi ripetere lo stato di savoiardi imbevuti di caffè e porto, coprendo il tutto con la metà di crema al mascarpone rimasta. Mettere a riposare il tiramisù in frigo per almeno mezza giornata, coprendo la pirofila con pellicola trasparente. Prima di portare in tavola o servire in porzioni, cospargere la superficie di abbondante cacao amaro (operazione da non fare prima perché il cacao verrebbe assorbito dall’impasto).
da Antonio Iraci | Mag 25, 2015
(Teatro Due – Roma, 23 maggio 2015)
Il Teatro, da sempre, è qualcosa che unisce, provoca, denuncia, diverte, cura.
Con lo spettacolo messo in scena dai detenuti di Rebibbia di ieri abbiamo appreso che il Teatro è anche capace di abbattere ogni barriera e di unire chi sta al di qua con quelli che stanno al di là delle sbarre.
La Compagnia nasce da un laboratorio teatrale che l’Associazione Culturale CAPSA Service organizza da qualche anno all’interno della Casa di Reclusione, tra i detenuti comuni, con l’intento di dare voce alle persone che stanno scontando una pena.
Gli stessi detenuti hanno scritto il testo del lavoro ora portato in scena, con la regia di Daria Veronese, composto di brani e poesie letti al pubblico e alternati con una azione scenica che assume spesso un tono divertente e nella stesso tempo realisticamente umano.
Lo spettatore non può fare a meno di essere affascinato da questi frammenti di vita dove non traspare alcuna ombra di astio o aggressività ma al contrario un delicato sentimento di speranza di venir fuori al più presto per abbracciare gli affetti lasciati fuori e riprendere le cose semplici della vita come bere una tazza di caffè al bar.
Qui non c’è spazio per commiserazione, ma semmai com-passione, intesa come condivisione empatica di emozioni comuni.
Un bravo agli attori ed un plauso agli organizzatori all’interno del Penitenziario per aver saputo rendere possibile qualcosa di straordinario e potrei dire finalmente socialmente utile.
data di pubblicazione 25/05/2015
Il nostro voto: 
da Accreditati | Mag 24, 2015
Deve essere un posto perfetto per rilassarsi, osserva banalmente il “ciambellano” della Regina Elisabetta. E’ soltanto un posto per rilassarsi, risponde il direttore d’orchestra Ballinger (un immenso Michael Caine), che dietro il suo imperturbabile british humor sa benissimo che quell’albergo-oasi di benessere è molto di più. Ballinger, oramai in pensione, non vuole più dirigere alcuna orchestra, nemmeno quella commissionata da Buckingam Palace, a causa del dolore per l’assenza della moglie Melody, melodia di nome e di fatto, visto che sulla sua esistenza ha costruito gran parte della sua brillante carriera. Ogni estate lui e il suo miglior amico, il regista Mike Boyle (Harvey Keitel) si ritrovano in questo luogo incastonato tra le montagne svizzere; Mike, supportato da un gruppo di giovani sceneggiatori, si è arenato nella scrittura corale della terza stesura del suo film, che lui stesso definisce il suo testamento, di cui tuttavia non riesce a trovarne il finale.
Il soggiorno estivo raccontato da Paolo Sorrentino è diverso da ciò che inizialmente appare agli spettatori e di questa diversità sembrano esserne consapevoli solo i due anziani protagonisti. Youth è il continuo confronto tra due generazioni: gli ottantenni e i trentenni, ma in quest’altalena il desiderio di progettare e di guardare avanti non è appannaggio solo dei secondi, perché la giovinezza è qualcosa che può essere legata all’arte, come la musica o il cinema, ma non certo di esclusivo appannaggio dell’età anagrafica. E così le età si mescolano, conta solo il sentire, il desiderare. E come il Maestro Ballinger riesce a scavare dentro se stesso e a vivere il proprio dolore e le proprie emozioni grazie alla figura della figlia Leda, così Leda si trova a ricostruire la sua vita e si riaffaccia all’amore proprio grazie alla convivenza forzata con il padre nel centro benessere. Analogamente, il regista Mike deve circondarsi dell’inesperienza e dell’ingenuità di un variegato gruppo di giovani sceneggiatori per portare a termine la stesura del suo ultimo film, che tuttavia dovrà essere interpretato da una attrice (Jane Fonda) ormai avanti negli anni; e così, in questo continuo scambio vitale tra vecchio e nuovo, anche il giovane attore Jimmy Tree (Paul Dano) prepara il personaggio del suo prossimo film osservando e ascoltando attentamente i movimenti, gli sguardi, i pensieri degli “anziani” che s’incrociano tra la piscina termale, il solarium, i giardini dell’albergo e le passeggiate di montagna.
La Giovinezza rappresentata da Sorrentino è presente in ogni personaggio a cominciare dai due amici ottantenni che ancora ridono delle loro scommesse e guardano al presente con maggiore leggerezza ed incoscienza, lasciando riaffiorare quel sentire giovanile allorquando si confrontano sui ricordi dell’infanzia e su quello del primo amore per la stessa ragazza in età adolescenziale o mentre osservano incantati la bellezza statuaria di Miss Universo mentre nuda si immerge nelle acque della loro stessa vasca termale mostrandosi diversa dal personaggio da copertina patinata.
Non tanto un film sul tempo che passa inesorabile, dunque, bensì un film sulla progettualità che mantiene giovani e sull’amore. E se in Cocoon di Ron Howard (1985) un gruppo di anziani ritrovava l’energia e la luminosità della giovinezza immergendosi in una grande piscina di una villa disabitata, nell’incantevole albergo svizzero di Sorrentino i massaggi, le abluzioni durante le saune e nella piscina termale non regalano alcun sollievo analogo, perché i protagonisti non ringiovaniscono grazie ad esse, ma insegnano ed imparano ad amare e senza artifici estetici tutto appare armonioso e perfetto sebbene perfetto non sia.
Ogni singolo dettaglio nel film genera emozione, complice anche la fotografia e l’impeccabile miscela delle canzoni della colonna sonora; forse solo la figura di quel Pibe de Oro, tra gli ospiti illustri dell’albergo svizzero, al quale il regista dedicò un affettuoso ricordo dal palco dell’Accademy, riesce a marcare il distacco con un passato glorioso ed energico rispetto ad un appannato presente, dando una connotazione nostalgica alla assoluta leggerezza di questo film.
data di pubblicazione 24/05/2015
Scopri con un click il nostro voto: 
da Antonio Iraci | Mag 22, 2015
(Teatro India – Roma, 12/21 maggio 2015)
Al Teatro India di Roma è stato presentato in questi giorni il Trittico Furioso: gli autori, Stefano Ricci e Gianni Forte, propongono questo loro progetto articolato in tre performances, che ci lascia alquanto sconcertati per la cruenta messa in scena che, in maniera mai ripetitiva, riesce a gestire l’intensa durata della narrazione senza mai allentare la tensione emotiva nello spettatore.
I tre lavori sono uniti tra di loro da un sottile, quasi impalpabile, fil rouge che comunque ci porta a riflettere sull’attuale condizione umana in cui tutti noi, in maniera più o meno cosciente, ci troviamo coinvolti.
Ciò che ci viene proposto non è solo un’azione mirata e studiata volta alla dissacrazione, fine a se stessa, di luoghi comuni, ma l’abbattimento di tabù ancestrali che ci portiamo dentro, da adulti, in ogni cellula del nostro corpo: una sorta di mondo a sé geneticamente manipolato e alieno alla nostra stessa natura.
Ci arriva quindi da Ricci/Forte un suggerimento per una maggiore presa di coscienza di quello che siamo, ma anche di quello che vorremmo essere. Ad alcuni di noi rimane, per le frustrazioni accumulate, il desiderio di un ritorno verso una protezione totale, oramai persa, che possedevamo solo nel grembo materno quando nuotavamo felici nel liquido amniotico e quando l’universo ci apparteneva veramente, perché eravamo nello stesso tempo parte di esso ma fuori dagli schemi spazio temporali, in una sorta di sospensione totale.
Noi oggi siamo qui, fatti di carne e sangue, nella pura illusione e mistificazione della realtà, circondati da tante cose che affollano i nostri spazi e che dovremmo usare con attenta parsimonia prendendone, nel contempo, debita distanza. Ed ecco che la scena che ci viene proposta utilizza non solo la plasticità dei corpi nudi degli attori, ma principalmente la parola ed i loro gesti per trasmetterci un messaggio di assoluta disperazione.
Ora noi siamo soli e l’amore, in qualsiasi forma manifestato, sfugge alla nostra portata perché sopraffatto da un uso bulimico del sesso mordi e fuggi, che alla fine ci lascia più delusi che mai. La discriminazione sessuale, l’odio irrefrenabile che sfocia in forme di violenza omofobica, è il tema conduttore del primo lavoro Still Life, quasi un omaggio alla memoria di quello studente gay che si è ucciso a Roma impiccandosi con una sciarpa rosa, colore che per antonomasia da sempre, come ci insegnano, è il colore della femminilità, precluso ad un vero uomo.
Mediante utilizzo di un simbolismo esasperato e dissacrante della realtà ci sforziamo di ricercare una nostra propria individualità e la scoperta di un sincero amore. Proprio questo è il tema suggerito dal secondo lavoro Macadamia Nut Brittle. Macadamia è il gusto del gelato della Haagen Dasz che i nostri protagonisti mangiano avidamente mentre raccontano, con un notevole carico di aspettative, di un intenso ed eccitante incontro sodomizzante con un fantomatico chat buddy da 24 centimetri, nell’illusione di aver finalmente trovato il compagno di vita per sempre.
Il duo Ricci/Forte, accanto all’uso sfrenato e narcisistico dei corpi in plurimi amplessi omosessuali, utilizza spesso i mezzi espressivi della pop art: ed anche se non abbiamo le confezione colorate delle zuppe Campbell’s, la sostanza non cambia di fronte a vassoi di muffins da allineare e sistemare metodologicamente, che poi andranno distrutti con furia incontrollata.
Il tema della discriminazione ritorna, sia pur in forme diverse, nel terzo lavoro: Imitationofdeath, scritto senza spaziature, dove la morte diventa l’estremo elemento di diversificazione. Anche qui i corpi nudi sembrano desiderosi di scrollarsi di dosso carne e pelle per anelare a qualcosa di più liberatorio.
I quadri plastici proposti, che dal buio della scena vengono ad animarsi per brevi istanti sotto luci accecanti, ci spingono ad una completa alienazione da qualsiasi forma reale. I nostri pensieri, anche i più banali, vengono tirati fuori con forza dalle nostre menti attraverso un sapiente gioco di chiaroveggenza.
Il duo Ricci/Forte è oggi considerato uno tra i più significativi esempi di una nuova forma di drammaturgia, raro esempio di espressione che utilizza veramente un linguaggio universale, capace di trasmetterci la disperazione dell’uomo di oggi nell’affrontare il quotidiano, attraverso la ricerca costante di venirne fuori.
Ottimo il cast che ha dato prova di assoluta padronanza dell’azione scenica, anche in momenti di estremo sforzo fisico ed espressivo.
data di pubblicazione 22/05/2015
Il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Mag 21, 2015
(Teatro Argentina – Roma, 5/31 maggio 2015)
La maratona è una gara lunga e sofferta anche per lo spettatore. La cronaca di una maratona apparentemente meno esplosiva rispetto al commento di competizioni più brevi ed intense, ha però la capacità di catturarti, coinvolgerti, estraniarti, dilatarti, sublimarti.
Le maratone teatrali di Peter Stein rappresentano da sempre un appassionante viaggio nella letteratura e nella storia, una rilettura dei destini tragica e moderna.
Der Park nasce dal rapporto di collaborazione artistica e di amicizia tra il drammaturgo Botho Strauss ed il regista Peter Stein consolidatosi agli inizi degli anni settanta allo Schaubühne am Halleschen Ufer di Berlino Ovest, dove i due lavorano insieme ad alcuni spettacoli quali Peer Gynt, Il Principe di Homburg, I Villeggianti. Stein propone all’autore alla fine degli anni settanta di tradurre ed adattare ad una nuova dimensione Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Lo spettacolo non si realizza, ma Strauss continua a studiare la commedia inglese, compiendo un percorso di assimilazione, scomposizione e composizione del testo shakespeariano che lo porta a far rivivere la storia in un parco di città nel quale Oberon e Titania si muovono per provare a risvegliare la passione erotica negli uomini. Un parco di città, sporco, popolato da netturbini, passanti frettolosi e distratti, individui alla ricerca del torbido, un parco nel quale le vicende della commedia si snodano e si intrecciano tra rifiuti e rumori metropolitani grazie all’azione del mago Cyprian in grado di sovvertire e mescolare sentimenti e passioni di due giovani coppie di sposi. Anche Titania, incapace di frenare i propri impulsi, è punita, si innamora di un toro, viene catturata da un gruppo di skin e dà alla luce un minotauro. Il tentativo di ridare al mondo istintività e bellezza primordiale naufraga e la coppia di immortali si adatta ad una sonnolenta, arida e vuota vecchiaia.
Il testo, dopo una lunga e sofferta genesi, viene rappresentato da Stein nel 1984 nel nuovo spazio dello Schaubühne e, grazie ad una co-produzione con il Teatro di Roma, sino al 31 maggio 2015 sarà al Teatro Argentina.
Uno spettacolo moderno, corale, denso ed inquieto, che si snoda tra personaggi ed intrecci per 250 minuti in un maestoso impianto visivo, con trenta quadri che si montano a vista; uno spettacolo che pian piano ingloba lo spettatore negli incroci e nelle stratificazioni dei personaggi, in uno spazio dilatato e lento, crudele e vero, in cui ci si perde e ci si ritrova.
Grandi, anzi grandissimi gli attori, ricercati i costumi, sofisticato ed imponente l’allestimento scenografico.
Uno spettacolo non semplice, complesso e visionario, da vedere.
data di pubblicazione 21/05/2015
Il nostro voto: 
da Elena Mascioli | Mag 21, 2015
(Cinema Farnese Persol – Roma, 22 Maggio 2015)
Il prossimo venerdì 22 maggio tornerà in sala per una sera il film del maestro Olmi, Torneranno i prati. Ma non sarà una semplice proiezione, tra l’altro ad ingresso gratuito, perché ad accompagnare e presentare il film, presso il Cinema Farnese Persol, a partire dalle ore 20.00, ci sarà l’attore Claudio Santamaria, protagonista della pellicola stessa. Accolti da un cocktail di benvenuto e da un incontro introduttivo a cura del giornalista Franco Montini, e la partecipazione della prof.ssa Milazzo, la visione del film sarà preceduta dalla proiezione dell’ultimo cortometraggio di Ermanno Olmi, Il pianeta che ci ospita, realizzato per Expo 2015. Una serata aperta anche alle scuole, perché possano venire a conoscere la storia di una notte in una trincea italiana durante la prima guerra mondiale, ma anche e venire a contatto con il cinema di una maestro quale a Olmi, che ha dichiarato: Questo film lo dedico al mio papà, che quand’ero bambino mi raccontava della guerra dov’era stato soldato. Per ricevere l’invito gratuito alla serata e alle proiezioni, si può scrivere a: comunicazione@cinemafarnese.it
Un’occasione da non perdere.
data di pubblicazione 21/05/2015
da Accreditati | Mag 18, 2015
Sembrerebbe inevitabile accostare il film del regista svedese Östlund con il suo connazionale Bergman, entrambi appunto svedesi, non foss’altro per il dramma familiare che ci viene proposto fatto di dialoghi apparentemente calmi, ma che invece nascondono intrinsecamente la crisi d’identità di un matrimonio, oramai alla deriva, e di ruoli maschili e femminili non più conformi alla realtà di un tempo.
Tomas, la moglie Ebba ed i loro due bambini si trovano in un residence sulla alpi francesi per trascorrere qualche giorno sulla neve e sciare in tranquillità.
I rapporti interpersonali all’interno del nucleo familiare vengono messi irrimediabilmente in crisi da una vera e propria valanga di neve che si abbatte su di loro mentre sono seduti al ristorante di un rifugio. Tomas di fronte al pericolo incombente, invece di preoccuparsi di proteggere la propria famiglia, assumendo il ruolo che le istituzioni e l’etica gli attribuiscono, fugge precipitosamente preoccupandosi di salvare il suo cellulare incurante delle grida atterrite dei figli di fronte a quell’evento naturale, improvviso e dirompente.
Scampati miracolosamente il pericolo, Ebba, resasi da subito conto dell’accaduto e rimasta accanto ai figli invece di fuggire via, da quel momento non potrà più fare a meno di rimproverare ripetutamente al marito, anche di fronte ad amici, quell’istinto egoistico di sopravvivenza che, per causa di forza maggiore appunto, gli ha fatto dapprima rimuovere e poi negare le sue vere responsabilità di padre e marito, facendo emergere una fragilità che lui stesso dichiara di detestare.
Grande è l’abilità del regista nel proporre quei paesaggi incantati di neve dove la famiglia si ritrova unita per sciare più come una routine a tratti noiosa, che per scelta: sembra piuttosto che ognuno di loro vorrebbe starsene per i fatti propri, compresi Vera e Harry che spesso non tollerano la presenza dei genitori, anelando forse ad un momento di serenità con un videogioco, che quelle convenzionali abitudini sciistiche sembrano impedire.
Di nuovo aleggia lo spirito di Bergman, fatto di grandi pause ed immagini a lungo campo, in cui tutti i personaggi si muovono con circospezione per paura di dire o fare qualcosa in contrapposizione ai ruoli imposti dalla società . Ma se la location tra le montagne incantate risulta un felice spunto per incorniciare tutta la storia, dove all’improvviso vola persino una astronave giocattolo di proprietà di Tomas, non sempre la lentezza del film ci ripaga. Non particolarmente esilarante è la prova dei due protagonisti Johannes Kuhnke e Lisa Loven Kongsli.
data di pubblicazione 18/05/2015
Scopri con un click il nostro voto: 
Gli ultimi commenti…